Ciaf ciaf ciaf.
Sentite questo rumore?
Tranquilli, non è niente. Sono solo io che sguazzo nella mia pozza.
Io che, quando vengo a sapere di certe collaborazioni e progetti, mi sento contenta come una bimba a Natale e, metaforicamente ma non troppo, prendo a sguazzare felice come un ippopotamo nella propria pozza.
Mi rendo conto che l'immagine manchi di una certa poesia ma, secondo me, rende molto l'idea.
Ma qual è l'iniziativa che ha risvegliato in me tanta contentezza? È quella di Giulio Mozzi, responsabile del blog
Vibrisse, bollettino di scritture e letture.
A Giulio Mozzi è venuta un'idea deliziosa: un libro tutto fatto di ricordi d'infanzia.
Ma mica dei suoi. O meglio, non solo dei suoi. Ma anche dei vostri. Dei nostri.
Sono necessarie e sufficienti poche righe. Una scrittura semplice. Un episodio vero o verosimile, realmente avvenuto o frutto di un'antica e ormai inossidabile elaborazione.
L'obiettivo è quello di dare l'illusione che, cito direttamente da Mozzi,
"questi ricordi siano di
una sola persona dall’infanzia enorme, smisurata, infinita."
Ora lo capite perché sguazzo?
Vi buttate nella pozza insieme a me?
Io devo ancora scrivere il mio ricordo ma non credo che resisterò alla tentazione.
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Accipicchia quanti siamo! Io sono la molestatrice sulla destra. |
Spiegazioni più dettagliate del progetto le trovate direttamente
qua. Per partecipare avete tempo fino al 30 settembre.
Ciaf ciaf ciaf.
Mattina, pomeriggio e sera.
A pasto e fuori pasto.
Tramezzini, panini, pizzette, patatine, cioccolatini, caramelle, torte, brioche, una coscia di pollo della sera prima, il riso freddo avanzato dal pranzo, la pizza gommosa della suocera.
Mangiava.
Mangiava tutto.
E più faceva schifo e più mangiava.
Si riempiva la pancia ma le papille non cantavano e lo stomaco non gorgheggiava.
Prima o poi sarebbe stato talmente grosso da non potersi più alzare.
E da quel momento la sua vita sarebbe stata finalmente perfetta. Perfetta.
"Poverino, sta tanto male", "Deve avere una qualche disfunzione", "Chissà quanto soffre", avrebbero detto tutti.
Lui non avrebbe sofferto ma goduto.
Goduto del risultato ottenuto con tanto lavoro di mascelle.
Un alibi per non vivere. Per non dover affrontare la mediocrità dell'esistenza, la grandezza delle sconfitte, la quantità degli infiniti fallimenti.
Nessuno gli avrebbe chiesto più niente. Né il capo stronzo al lavoro. Né la sua algida moglie. Né la focosa amante. Né i figli e neanche il cane. Quella fastidiosa bestia che, ogni mattina all'alba ed ogni sera prima di coricarsi, lo aspettava davanti alla porta con il guinzaglio stretto in bocca e gli occhi colmi di amore ed aspettative.
Aspettative.
Lui non avrebbe più risposto a nessuna aspettativa.
Ma perché fermarsi allora?
Avrebbe continuato. Morso dopo morso, boccone dopo boccone, avrebbe masticato ed inghiottito, masticato ed inghiottito, masticato ed inghiottito, fino a sentire quel leggero scricchiolio delle ossa, fino a riconoscere l'estrema tensione della pelle, fino allo scoppio liberatorio e definitivo.
Non sono una grande fan dei Coldplay. Non lo sono mai stata.
Ma "Viva la vida" ha su di me un effetto calmante e quasi mistico.
Il testo, a prescindere dalle diverse interpretazioni che ne sono state date, racconta di un Re passato dal trono alla polvere. Niente di allegro, dunque.
Ma la musica sembra narrare un'altra storia. Una musica che ti culla ed eleva. Che ti purifica e sorregge.
A partire dagli archi io mi godo quattro minuti dentro una bolla.
Una bolla dove i fiori sbocciano, gli amanti si tengono per mano, i bambini giocano e l'acqua scorre.
Una bolla dove, da Regina senza Regno, sento le forze ritemprarsi e vedo il sole sorgere ancora da dietro le montagne.
Una bolla dove nulla può toccarmi, che venga da dentro o fuori di me.
Probabilmente è merito degli archi. Li amo. Li ho sempre amati. Si sentono con la pancia e non con le orecchie. Sorreggono il cuore e seducono il corpo.
Gli archi di Viva la Vida occupano tutto lo spazio circostante mentre io medito e rinasco.
Poi, finiti i 4 minuti, il labile confine con il resto del mondo si dissolve, io riapro gli occhi e riprendo il cammino.
Un blog porta ad un altro blog che porta ad un altro blog che porta ad un altro blog.
Una persona porta a un'altra persona che porta a un'altra persona che porta a un'altra persona.
Un pensiero porta a un altro pensiero che porta a un altro pensiero che porta a un altro pensiero.
La vita deve essere fatta di scambi, incontri e condivisione.
È con questo spirito che oggi vi propongo il cortometraggio "Motore!". Opera del regista catanese Alessandro Marinaro. Un film del 2010 che ha raccolto numerosi premi e consensi, primo fra tutti il successo a La 25 ora, il prestigioso concorso de La 7.
Una pellicola che tratta dei sogni e del sogno. In particolare del desiderio folle di darsi all'arte, addirittura al cinema! Una pazzia, una colpa, un imbarazzante peccato che possono permettersi solo quegli squilibrati che decidono di non svegliarsi mai.
Una dichiarazione d'amore al cinema, ai suoi maestri e al coraggio del sogno. Perché di coraggio si tratta.
Un film tutto siciliano, nell'idea, nella parola e nei luoghi, ma che finisce, involontariamente o meno, col raccontare una storia italiana e non solo.
Buona visione.
Chi conosce Berlino conosce il Tacheles.
La casa dell'arte che per più di vent'anni ha ospitato il lavoro, il sudore e la passione di artisti provenienti da tutto il mondo.
Il centro sociale sempre aperto a chi voleva esprimersi e a chi aveva solo voglia di curiosare. Ai turisti e agli appassionati. Ai berlinesi e a tutti gli altri.
Il Tacheles è stata un'istituzione della Berlino post muro. Testimonianza di una mentalità aperta alla creatività e all'espressione del proprio essere. Cuore pulsante di una città curiosa ed in continuo movimento.
L'altro ieri la Kunsthaus è stata ufficialmente chiusa. La Polizia ha mandato via tutti. Gli ultimi artisti hanno salutato lo spazio speciale, che per tanto tempo li aveva ospitati, con un'ultima rappresentazione: un'orazione funebre in onore di un posto unico che ormai non c'è più.
L'arte comunque non muore mai. E non smette di parlare alle coscienze ed alle anime. Le opere, le installazioni e le mani che le hanno create troveranno altri luoghi, a Berlino o chissà dove.
Ma questo mondo sarà un po' più triste, grigio e soprattutto noioso senza il Tacheles.
Siamo finalmente giunti all'ultimo appuntamento con le repliche del blog.
Se fossi una persona ed una blogger organizzata avrei programmato questi post con un certo ordine e significato, ma ovviamente non l'ho fatto. Ogni domenica ho scelto l'argomento da riproporre sull'onda dell'ispirazione del momento e del caso.
Però, arrivata all'ultimo episodio di questa rubrica, mi è preso un certo panico.
"Devo finire col botto", mi son detta.
"Devo cercare un post che rappresenti tutti e 5 gli anni di Radio Cole", ho insistito.
"Devo. Devo. Devo", mi sono tormentata.
E invece no. Non devo proprio niente.
Ed è con questo nuovo spirito, un poco più lieve rispetto ai miei standard, che alla fine ho deciso di accendere i riflettori sui microracconti. Mezzo espressivo che ho iniziato a sperimentare a partire del 14 giugno 2011.
Ve ne ripropongo uno per tutti:
"Lui non disse una parola e lei riempì la valigia.
Lui la guardò con occhi vuoti e lei gli voltò le spalle.
Lui perse l'ultima goccia di sangue e lei chiuse la porta."
Gli altri li potete leggere
qua.