"C'è la fila", disse frate Elmo rivolto al suo confratello Pasquale Baylòn.
"Cosa?"
"C'è la fila. Si vogliono far tutte confessare da te. Eppure non sei mica tanto bello" concluse ridendo mentre don Baylòn si avvicinava alle donne in attesa.
Tra queste c'era Maria la sposina, Sara che voleva il terzo pupetto da un po', e persino Marta, la perpetua di Don Carlo.
Frate Pasquale Baylòn era arrivato dalla Spagna da pochi mesi. All'inizio aveva faticato a farsi apprezzare dai fedeli, un po' a causa del carattere riservato dei torinesi, un po' a causa delle difficoltà con la lingua, un po' a causa del gratuito sospetto riservato spesso agli stranieri. Le persone non si fidavano di lui e, quando venivano al convento, per una confessione o un semplice consiglio, preferivano aspettare ore che si liberasse qualcun altro, piuttosto che dare retta allo "spagnolo".
Le cose erano proseguite così per settimane e il frate, essendo un uomo molto saggio, si era limitato a mettersi nelle mani del Signore e attendere che, col tempo e la pazienza, qualcosa mutasse. E il Signore, dal canto suo, una mattina aveva ricambiato tanta fiducia mandandogli in visita la povera Bettina...
"Gallipoli? Andate a Gallipoli? Ma perché? Tutta questa strada per finire in un posto così commerciale? È come andare a Rimini!"
Più o meno è questo ciò che ci viene detto ogni volta che annunciamo la nostra ultima tappa in Puglia. Tappa scelta, anche in questo caso, con grande attenzione.
"Andiamo al mare?"
"Noi in spiaggia ci annoiamo"
"Sì, ma non possiamo fare tutti questi km, scendere fino in Salento e non fare neanche un giorno di mare"
"Ok, come vuoi"
"Otranto o Gallipoli?"
"Boh"
"Avreste dovuto scegliere Otranto!" ci dicono tutti.
"E grazie al cazz..." rispondiamo noi "Ormai abbiamo prenotato".
L'unico a tirarci un po' su e è S. "Gallipoli non è così male, e poi ha un bellissimo centro storico, una fortezza che dà direttamente sul mare, un intrico di stradine, e una serie infinita di ristorantini di pesce dalla vista mozzafiato."
"Ecco, andremo a visitare il centro", ci consoliamo.
Poi, lasciata Lecce, dopo esserci esauriti nel traffico folle di Gallipoli, scopriamo che nel centro, in effetti, noi ci dormiamo. In un micro appartamentino, dalle pareti bianche e le mattonelle azzurre, a un soffio dall'acqua, a sciabattare rilassati fino alla spiaggia, con i vecchietti del luogo che t'incontrano, ti salutano, ti chiedono "come va?", anche se non ti hanno mai visto prima.
In tutto questo, giusto perché delle volte ogni stella si allinea positivamente, troviamo anche un preziosissimo parcheggio gratuito. E solo chi è stato a Gallipoli in agosto può comprendere pienamente la meraviglia di un tale dono.
Le nostre 48 ore in loco si prospettano, dunque, molto meglio di quanto abbiano cercato di farcele sembrare. Il primo giorno lo trascorriamo tra i vicoli e la spiaggia. Bello tutto ma a noi ciò che colpisce di più è un negozio dedicato al Natale, con tanto di elfi dormienti meccanizzati che russano. Un negozio dedicato al Natale. A Gallipoli. Ad agosto. A questo punto mi aspetto di trovare anche uno spaccio di friselle a Rovaniemi, residenza ufficiale del pancione rossovestito, in Finlandia.
Il giorno dopo facciamo colazione col pasticciotto pugliese e poi salpiamo per il largo. Gita in barca. No, non super sciccosissima gita in barca a vela. Ma molto più caciarona gita su barca a motore con folla vociante e spaghettata zozzona. Il momento clou consiste nella sosta a largo con tanto di possibilità di tuffarsi. Io so stare a galla ma non sono una grande nuotatrice e quindi non vado mai dove non tocco. Ma si buttano tutti, pure quelli nella mia medesima condizione, supportati dai giubbotti di salvataggio. Quindi mi faccio forza e ne indosso uno anch'io. Mai provato uno in acqua. Che orrida sensazione. Impossibile muoversi, l'effetto è quello di un tronco galleggiante. Dopo essere rimasta pucciata dieci interminabili minuti in acqua, a mo' di bustina da tè, decido che l'esperienza può dirsi conclusa, devo solo riuscire a raggiungere la scaletta. Con le braccia non mi direziono. Provo con le gambe. Dopo una pedata in faccia a una vecchia e una ginocchiata a un bambino, al grido di "Per la mia salvezza sono pronta a passare sul cadavere di chiunque!" riesco ad issare nuovamente il mio culone a bordo.
Riprendiamo l'auto per la prossima tappa del nostro viaggio: Lecce.
Ma, già che ci siamo, ci fermiamo per qualche ora ad Ostuni.
Bella Ostuni, calda Ostuni, faticosa Ostuni, piena di turisti Ostuni.
La gita è fisicamente provante, dato l'affollamento e la temperatura infernale, ma ne vale la pena, il luogo è un gioiello. Certo, in un altro mese dell'anno, sarebbe stata un'altra cosa.
Persi tutti i liquidi possibili e immaginabili torniamo in auto e puntiamo ancora a sud. Sono preoccupata. Nei giorni precedenti, ad ogni mio "Andremo anche a Lecce", mi sono sentita rispondere "Beeeeeellaaaaa Lecce!". Sono preoccupata. Le mie aspettative sono troppo alte. Rimarrò delusa.
E invece no. Bella Lecce, bellissima Lecce. Per tre giorni ci godiamo questa città che, oltre ad essere una manna per gli occhi dei turisti, è chiaramente una realtà culturale molto vivace e sofisticata. Accanto agli immancabili negozietti di souvenir, si affacciano numerosi studi di design e gallerie d'arte contemporanea di altissimo livello. Io che lavoro per il sito di ContemporaryArt Torino Piemonte, accarezzo l'idea di trasferirmi lì e fondare ContemporaryArt Lecce Salento. Ecco se c'è una città del sud in cui credo potrei sentirmi a mio agio, e non una siculo sabauda aliena, è proprio la splendida, antica ma modernissima Lecce.
E, se tutto questo non bastasse, per le vie del centro è pieno di ragazze con cestini colmi di taralli venduti nei negozi dei paraggi."Li vuole assaggiare?" ti chiedono. E io che faccio? Posso mica rifiutare? E giù a ingozzarmi come se non ci fosse un domani. Ma sono buoni, accidenti se sono buoni! Il marketing è efficace e, prima di partire, compriamo una scorta maxi da portare ai parenti nordici, per far godere un po' anche le loro papille gustative.
Per non farci mancare niente, infine, proviamo anche la Puccia salentina. La vendono ovunque, non possiamo non mangiarla anche noi. "Buona" "Sì, sì, ma è un panino, perché non lo chiamano semplicemente panino?" "Shhhhh non offendere gli indigeni" "ma è un panino..." "Zitto e mangia!"
I più attenti di voi lo sanno, da un paio di mesi scrivo racconti sulle leggende torinesi. Finora ero partita da leggende conosciute per poi farne una mia versione, questa volta invece la storia l'ho inventata di sana pianta. Poldo e Dorabella sono un parto della mia fantasia.
Ed ecco la loro storia...
"Sono stanca di aspettare", diceva Dorabella, battendo il piedino nervoso sul selciato.
"Non sono ancora pronto", borbottava Poldo, passandosi la mano tra la folta barba.
"Io sto sfiorendo nell'attesa che tu ti senta sufficientemente maturo".
"Abbi pazienza cara, è che sono ancora così giovane."
"Guarda che la barba ti sta già diventando grigia, giovanotto."
"Ma che dici?" si allarmò Poldo, correndo a ispezionare il suo riflesso nella vetrina dell’elegante Caffè.
"Oh santo cielo, tu non sei giovane, sei solo un balengu!"
Si svolgeva, più o meno così, ogni pomeriggio l'appuntamento tra Dorabella e Poldo, fidanzati da una vita senza l'ombra del progetto di un futuro matrimonio.
"Come sei bella Dorabella mia, quando ci sposeremo..."
"Ma quando? Quando???" chiedeva lei esasperata.
"Il giorno che saremo tutte e due sotto lo stesso tetto..." la guardava con occhi sognanti lui.
"Ma quando? Quando???" chiedeva lei... e andavano avanti così ormai da anni. In centro li conoscevano tutti e li guardavano incuriositi. Erano uno spettacolo interessante: due tanto innamorati che, però, passavano il tempo a punzecchiarsi. Non potevano fare l'uno a meno dell'altra ma lei aveva sempre i capelli dritti dal nervoso e lui era terrorizzato dall’idea del matrimonio. E così passeggiavano sotto i portici e lungo le piazze di Torino tra un continuo tubar e pugnar, pugnar e tubar.
L'alba del giorno dopo il matrimonio, tutta la compagnia di torinesi, e non solo, si mette in moto presto. Nonostante la stanchezza c'è una città da visitare e solo un giorno per poterlo fare.
Sprofondiamo nei Sassi di Matera, allagati solo il giorno prima da un'epica pioggia. Saliamo e scendiamo. O meglio scendiamo e poi saliamo.
Iniziamo ufficialmente la giornata da turisti con un documentario dentro Casa Noha, un'antica dimora ora gestita dal FAI – Fondo Ambiente Italiano.
Viene raccontata la storia di Matera. Quella affascinante antica. E quella devastante moderna. Viene raccontata la "vergogna dell'Italia", l'affollamento, la povertà, un pezzo di terra lontana dal progresso, dal benessere e anche solo dalla vita vivibile. Non ci si crede. I racconti dei miei nonni contadini in Sicilia impallidisco di fronte al degrado, al disagio e all'arretratezza delle immagini in bianco e nero che scorrono davanti ai nostri occhi. Viene raccontata la denuncia di Carlo Levi, la visione illuminata di Olivetti e quella, molto meno illuminata, della democrazia cristiana: "Chi vuole restare nei Sassi li deve aggiustare a proprie spese. Chi, invece, accetta di andarsene riceverà una buonuscita e una casa", decide il governo. La gente ovviamente se ne va. Olivetti, invece, aveva immaginato una ricostruzione che fosse prima di tutto culturale, la nascita di una forte identità comunitaria nei nuovi come nei vecchi preziosi borghi. Aveva immaginato dei Sassi meno affollati ma ancora vivi, abitati, pulsanti. Troppo faticoso, decide la politica. Troppo lungimirante. I Sassi si svuotano. Muoiono.
Ma la consapevolezza di un patrimonio che non si può ignorare rimane sotto pelle, coltivato soprattutto dal mondo dell'arte, primo fra tutti il cinema che, in più di un'occasione, utilizza e celebra una scenografia così unica. Da metà degli anni '80 la gente torna a vivere nei Sassi che, lentamente ma inesorabilmente, rinascono, per diventare uno dei luoghi più misteriosi e affascinanti della penisola. Matera capitale della cultura 2019 ora, ai nostri occhi, acquista ancora più significato. "Cristo si è fermato a Eboli" viene inserito immediatamente tra i libri da leggere.
Ci fermiamo per pranzare, siamo un esercito, non è una cosa facile trovare un tavolo per trenta senza prenotazione. Dopo svariati tentativi finiamo in un posto sciccosissimo, e meno male "che dovevamo cercare una cosa easy". Io ne approfitto per imparare che i primi piatti e le fave a Matera sono una filosofia di vita, una poesia, un patrimonio.
La sera siamo sempre in giro per i Sassi che risultano essere ancora più belli.
M. ed io, però, siamo anziani e provati e ce ne andiamo a dormire presto, solo dopo aver recuperato l'auto che, per l'occasione, è parcheggiata a millemila km. Perché il sabato sera a Matera, è come il sabato a sera a Torino e un po' ovunque, col cacchio che trovi un posto per la macchina!
"Scappa scappa!" si sentiva urlare per le strade del villaggio. Il drago era nuovamente sceso dalle montagne appuntite e, spiegando le sue grandi ali squamose sopra la pianura, sputava fuoco su case e animali.
Gli abitanti, vittime delle sue scorribande da molti mesi, avevano ormai imparato a prevedere il suo arrivo grazie al cambiamento del vento. Appena l'aria calda cominciava a spazzare i prati, loro correvano a cercare riparo dentro le acque del grande fiume Padus. Si mettevano a mollo, in quella che ormai era diventata per loro fonte di vita e di salvezza, portando con sé le proprie bestie spaventate. E lì restavano, a battere i denti dal freddo, fino a quando il drago non si stancava di far danni e riprendeva quota verso il suo nido tra le montagne.
Poi, zuppi ma vivi, facevano ritorno a casa. Alcuni sospiravano di sollievo nel trovarla ancora integra, altri urlavano di disperazione di fronte a un mucchio di cenere...
Noi torinesi che occupiamo lo stesso albergo, in pieno stile gita delle superiori, iniziamo a prepararci presto ma, tra il trucco e il parrucco, riusciamo a partire con auto e pulmini solo all'ultimo minuto. Per fortuna anche la sposa, com'è nella migliore tradizione, se la prende comoda e quindi arriva comunque dopo di noi.
Chi prima (M., E. ed io), chi dopo (gli altri), chi molto dopo (C. che finisce di truccarsi in auto e va a farsi l'acconciatura da una parrucchiera accanto alla chiesa, in piena cerimonia) siamo tutti bellissimi. Dopo la cerimonia è il momento del ricevimento al ristorante, dove siamo pronti a dare il meglio di noi stessi. Seguiamo come soldatini le indicazioni del nazi animatore, che ci dice cosa fare, quando farlo e con quanto entusiasmo. Ma, il poverino, non sa con chi ha a che fare e infatti, a sorpresa (*) tra un piatto e l'altro, parte la canzone "Mundian To Bach Ke" e con questa il nostro flash mob. Noi torinesi scendiamo in campo a dar spettacolo!
Finta sorpresa, aria svagata, su, giù, su, giù, saltello, saltello, gamba, shakera shakera shakera shekera, gira gira gira gira, altra gamba, shakerea shakera shakera shakera, gira dall'altra parte gira gira gira, lato, sedere, lato, sedere, a sinistra, lato, sedere, lato, sedere, preparazione... dea Kali! Aria svagata, tutti a sedere.
Ci siamo allenati per l'occasione, abbiamo fatto le prove a Torino, siamo morti di caldo sculettando in soggiorni roventi ma alla fine il nostro flash mob in stile bhollywood è un successo strepitoso! Lo sposo, noto mollaccione, si commuove per l'impegno dimostrato, come manco i nonni di fronte ai nipotini che recitano la poesia di Natale.
L'indoballetto piace talmente tanto che ce lo fanno rifare quattro volte durante tutta la serata e ogni volta si aggiunge qualcuno, sposa compresa.
Broadway aspettaci!
Ovviamente non condividerei con voi la documentazione video dell'esibizione neanche sotto tortura non ci sono video del nostro balletto, peccato...
(*) sorpresa per sposi e altri invitati, non certo per l'organizzazione. Per poterlo fare abbiamo intessuto delle trattative con la wedding planner, che manco all'ONU!
E viene l'ora della partenza per Matera, momento clou della vacanza, motivo centrale della stessa, sede del matrimonio del secolo!
Gli altri invitati torinesi si mettono in viaggio. C'è chi guida tutta la notte, c'è chi atterra a Bari e poi affitta un pulmino, e poi ci siamo noi, che siamo già nelle Marche e quindi ce la prendiamo comoda. Colazione con marmellatine e uccellini canterini, panini per il pranzo, saluti pigri alla nostra ospite e poi via verso Matera. Tempo stimato di viaggio 4 ore. Ed è, in effetti, il tempo che ci mettiamo, ma che viaggio!
Da Monteprandone a Canosa tutto bene, tre ore lisce come l'olio, ma poi a Canosa si deve uscire dall'autostrada e in quel momento mi vengono in mente tutte le volte che ho sentito dire "Matera è bellissima ma è mal collegata". Viaggiamo su strade con dossi che rischiano di farti decollare o ribaltare, oppure decollare e poi ribaltare. Buche dove lasciarci uno o più pneumatici. Asfalto così sconnesso che "sconnesso" non basta più, ci vorrebbe un nuovo termine per definirlo, tipo asfaltodimerda.
Strade deserte, abbandonate a se stesse, tanto che la vegetazione, che dovrebbe stare solo ai bordi invade la carreggiata, dando al tutto quell'aria beneaugurante da fine del mondo/attacco degli zombi imminente.
Per rassicurarci, e rassicurare, messaggiamo costantemente con una coppia di amici(*). Vengono anche loro al matrimonio, vivono a Bologna, sono partiti in mattinata e si trovano circa 100 km dietro di noi.
"Anche voi state uscendo a Canosa?"
"Sì, perché?"
"Niente, state calmi, andrà tutto bene"
"In che senso state calmi?"
"Superati i primi 20, 30, 40 minuti, le cose migliorano" "Cosa?" "Ci siete ancora?" "Oh santoiddioooo questo è l'inferno!"
Alla fine arriviamo tutti a destinazione, noi, quelli che sono partiti di notte, quelli che hanno fatto il viaggio in aereo e pure quelli di Bologna.
Giungiamo a Matera. Matera. Pieno, vero, sud. Certificato, geografico, garantito, meraviglioso, italico sud. Dove il bel tempo e il buon cibo non mancano mai! E, infatti, facciamo giusto in tempo a disfare le valigie, che si scatenano gli elementi e comincia a piovere a dirotto. Perfetto.