Questa volta i racconti non sono in ordine di ricezione ma in ordine di personaggio scelto.
Buona lettura e a domani per il quinto esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura Creativa!
Emma è una ragazza di 12 anni in piena adolescenza, viso limpido e sempre sorridente con una smorfia leggermente burlona… “Non so quando mi parli sul serio o quando mi stai prendendo in giro” – le dice suo padre quando lei lo guarda quasi senza espressione quando lui la richiama all’ordine. Lei scappa dicendo “Ti voglio bene papino” e lui si scioglie come neve al sole.
Emma ha un frizzante fisico snello ed è sempre in continuo movimento… “Sembra che voli” – commenta sua madre ogni volta che la vede saltellare in mezzo ai rami dell’albero in giardino. Da sempre nel mondo dell’Aldiquà ha imparato a giocare fin da piccola con le fate. Sì con le fate!, perché Emma è nata con uno strano dono… un occhio magico che nasconde con astuzia dietro ai suoi occhiali da sole.
Da quando ha visto la luce Emma si è rivelata una bimba speciale, appena nata la sua testa era ricoperta da una leggera peluria grigio azzurra che crescendo man mano si è trasformata in splendidi capelli turchesi, lisci, morbidi sempre a seguire il movimento del suo corpo irrequieto. Nella sua famiglia né mamma né papà hanno i capelli turchesi ma, guardando vecchie foto, hanno scoperto che la trisnonna Ada aveva anche lei i capelli turchesi e che assieme a quei capelli turchesi aveva anche un dono un po' strano...
Oltre ai capelli turchesi Emma aveva l’occhio sinistro di un azzurro profondo che guardava un po' all’insù…per questo motivo era vittima di prese in giro a scuola e di discriminazione. Molti bambini non la volevano come amica ed Emma ci soffriva molto. Ma quell’occhio non era un occhio qualsiasi, era come quello della nonna Ada…vedeva gli esseri magici, incluse le fate, così non rimaneva mai sola. Aveva un gruppo di amici magici che l’apprezzava così com’era lei EMMA indipendentemente dalla sua apparenza e dal suo modo di essere. Il suo occhio magico aveva anche un altro immenso dono, riusciva a percepire le emozioni che provavano le persone intorno a lei. Un dono che all’inizio le faceva paura ma che crescendo l’avrebbe resa sempre più empatica e capace di capire meglio gli altri… fu grazie alla scoperta dell’empatia che Emma iniziò a scoprire quelli che poi divennero i suoi amici non magici!
Patricia Scioli
Un minuto.
Un minuto di ritardo.
Non è grave, sono sicuro che stia arrivando. È colpa mia, io sono sempre così puntuale che passo la mia vita ad aspettare gli altri. Sono sereno, già che ci sono scrivo a quel cliente.
Cinque minuti.
Cinque minuti di ritardo.
Guardo lungo la strada. Non arriva. Cerco notizie sul cellulare. Nessun messaggio su whatsapp, non un cenno su messenger, neanche un vecchio caro sms. Tranquillo. Sono tranquillo. Rido a un meme del mio socio.
Quindici minuti.
Quindici minuti di ritardo.
Cammino avanti e indietro sul marciapiede.
Spero che arrivi presto. Ma vorrei che non mi beccasse in piena crisi di ansia, vorrei avere un'aria più cool ma proprio non ci riesco. Che mi becchi pure così, che rida di me vedendomi da lontano mentre macino km sul marciapiede e armeggio col cellulare, che mi becchi pure così, basta che arrivi. Presto. O anche tardi. Basta che arrivi.
Trenta minuti.
Trenta minuti di ritardo.
Ha il telefono staccato. Riempio l'aria di parolacce assortite, una signora copre le orecchie del nipote e mi guarda con rimprovero. Giro i tacchi e faccio per andarmene.
"Scusa" sento alle mie spalle.
Mi giro.
Eccola.
"Oddìo, scusa il ritardo! Temevo di non trovarti più, il lavoro, la metro, il cellulare scarico, sono un disastro" ha l'aria arruffata, ha corso, gli occhi lucidi, sta per piangere. È davvero dispiaciuta. Voleva davvero esserci, ora c’è. Basta che arrivi, mi ero detto.
"In ritardo? Figurati anch'io sono appena arrivato".
Jane Pancrazia Cole
Me la sono fatta fare proprio così questa foto, in bianco e nero, con lo sguardo lanciato lontano, una foto quasi antica, dal sapore di cose passate. Mi hanno sempre detto che ho un profilo alla Virginia Wolf e io mi sono voluta calare nel personaggio, almeno in un ritratto da appendere al muro.
Sì, perché io poi questa cosa del flusso di coscienza ce l’ho proprio dentro, anche se non mi serve per scrivere: il pensiero parte da un punto non precisato e fluisce, gira, spazia, si ferma sui dettagli di storie fantastiche, si eleva a livelli inimmaginabili creando vortici di emozioni. Sono una donna semplice, ma dentro di me è chiusa una rivoluzionaria, poi una santa, poi una donna libera, che come diceva un’altra eccellente scrittrice, è l’assoluto contrario di una donna leggera. Tutte queste etichette mi sono sempre andate strette e forse è proprio per questo che all’apparenza io sono così normale, così adeguata ai canoni di brava persona agli occhi di chi guarda.
Poso nuovamente lo sguardo su questa foto e lì ci trovo ancora quei pensieri di bambina che si sognava archeologa e non certo una banale impiegata. Guardo il mio profilo, ormai appesantito e con i primi segni del tempo che passa, ancora non ci credo che tutto quello che ho dentro, giovane, scalpitante, ferocemente innamorato della vita, strida così pesantemente con il mio involucro esterno. Quante cose si possono nascondere in una foto. Quante emozioni. Sono lontana in quello sguardo, sono tra le braccia di un amante appassionato, sono la mano tesa all’aiuto, sono il pugno levato al potere, sono il pianto disperato, il grido di vendetta contro l’ingiustizia. Spesso la sera, quando appoggio la testa sul cuscino e chiudo gli occhi, mi chiedo cosa ne ho fatto del giorno passato: il tempo, l’unico vero tesoro che ci è dato, questo tempo come l’ho vissuto? E soprattutto, l’ho vissuto veramente? La vita sembra fatta solo di impegni, ma è davvero la vita questa? Il mio ritratto in bianco e nero sembra parlarmi anche di questo, mi racconta di mondi che vorrei aver visto, di sguardi che avrei voluto incrociare, di avventure. Mi parla di vita.
L’ho appeso al muro, senza cornice, perché almeno la foto non voglio che sia imbrigliata in spazi prestabiliti: l’ho appeso ed ho guardato le reazioni di chi l’ha visto.
Mia madre ha borbottato che sembro una vecchia, mio padre ha sorriso evitando di rimarcare che forse, lo sono.
Le mia amiche si sono divise tra quelle che lo hanno ignorato, come se fosse solo un altro oggetto di arredamento e quelle che invece hanno dato un giudizio, chi sommario, tipo “oh che bella quella foto”, chi tagliente “dai, ma non sei poi così male”, chi invece cercando un significato che andasse oltre l’apparenza. Quelle, neanche a dirlo, sono le mie migliori amiche: quelle che sanno cosa pensi anche quando non lo dici e sanno trovare anche in una semplice foto, quella che veramente sei.
Voglio immaginare anche cosa ne penserebbe l’uomo della mia vita di quella foto, se solo ci fosse; cosa vi scorgerebbe, se riuscirebbe a capire qualcosa che standomi accanto, ancora non sa. Quell’uomo sognato, desiderato, quell’uomo che non c’è proprio perché non assomiglia a nessuno ed è solo quello che aspetti. Lui vorrebbe vedere quei mondi insieme a me, quegli sguardi insieme a me, alzare con me quel pugno, lui compagno e complice, lui tenero e sicuro.
E ora basta flusso di coscienza, torno alla mia normalità, fisserò ancora il mio ritratto un giorno e forse, allora, anch’io sarò fuori dalla mia cornice, sarò libera come uno sguardo in bianco e nero lanciato nella vita.
Letizia Battaglia
Mi chiamo Flora, vestigia del lavoro di botanico di mio padre e dell'amore per le lettere classiche di mia madre.E assomiglio al nome che porto, a chi non succede... Ogni genitore dovrebbe saperlo che la prima scelta che fa per un figlio ne racconterà l'indole e la guiderà, per amore o per forza.Mi chiamo Flora e come il mondo che rappresento anche io muoio in inverno e rinasco, in questo angolo di Inghilterra, ogni volta che i daffodils tingono di giallo le piccole colline.Allora passeggio, col mio libro e col quaderno nero, dove disegno fiori, insetti, dettagli insignificanti che raccontano l'intera storia dell'universo: la nervatura di una foglia, il viola di un petalo, la radice gonfia di un ciclamino.Ogni tanto mi siedo, metto insieme i pensieri e le pagine, cercando un filo nei miei disegni.Cosa trasformi un fiore in frutto, un seme in pianta, l'aria in vita.A volte mi pare di avere tutto chiaro: il sole ci manda la luce, qualcosa, nelle foglie, la trasforma in cibo, gli animali lo mangiano, noi mangiamo gli animali, infine tutto muore e torna all'aria, alla terra, alla luce.Ho messo in fila queste idee. Non mi hanno fatto parlare, il posto delle donne d'Inghilterra non è la scuola, ma il letto, a far figli timorati di Dio, e in cucina, a rigovernare piatti sudici e mariti ubriachi, di lavoro, di birra e di noia.Già, Dio.Dio che non entra nel mio quaderno, che non racconta, non spiega, non torna.Perché Dio dovrebbe aver fatto il cancro del platano, la scoliosi e l'appendicite?Perché non potremmo solo spiegare quello che c'è con quello che da sempre sappiamo?Nulla esiste per grazia, tutto accade per caso e necessità.Bisognerà che alla prima occasione ne parli con mio cugino Charles, è l'unico che mi capisce in queste cose...
Questa è la storia di Virginia, una donna intraprendente, impulsiva ed eclettica che ha saputo abbattere alcuni luoghi comuni riservati alle donne della sua epoca. Ella visse agli inizi del Novecento a Parigi, quando allora la città era un punto nevralgico della produzione artistica internazionale, fin tanto che era possibile ascoltare conversazioni personali nelle più disparate ed inconsuete lingue, per lo più sconosciute alle orecchie di molti.
Virginia si trasferì a Parigi all’età di 25 anni, quando comprese che la sua città natale, un piccolo paese collinare, era troppo stretto e rigido rispetto alle sue idee rivoluzionarie. Nel suo paese natale Virginia viveva in una spaziosa villa in campagna insieme ai suoi genitori, con le sue sorelle ed i suoi fratelli. Nonostante questa importante compagnia, la nostra protagonista, nei suoi anni adolescenziali, si sentiva spesso isolata ed incompresa. Inoltre, durante questo periodo le successe un importante fatto che modificò per sempre la sua vita, tanto da valerle il soprannome di idiota fra i suoi amici e compagni che, nonostante volessero davvero bene a Virginia, suscitarono in lei un forte senso di
inadeguatezza, rendendo la ragazza introversa, timida ed insicura. Questo soprannome nacque in seguito allo spargersi di notizie circa la salute della nostra protagonista, una ragazza assai minuta che all’età di 14 anni fu afflitta per la prima volta da un attacco epilettico, malattia che la accompagnò lungo l’arco della sua adolescenza; questi episodi erano reputati, in quegli anni, incomprensibili ed innaturali di fronte agli occhi dei suoi coetanei. Essi iniziarono, in seguito alla lettura del libro Idiota di Dostoevskij ad associare il soprannome del protagonista del romanzo, idiota per l’appunto, a Virginia, essendo entrambi accomunati dalla stessa malattia. Ella non comprese mai questo strano
nomignolo anzi cercò in tutti i modi di rimuoverselo, cercando di ripetere più e più volte ad i suoi amici, le precise indicazioni dettatale dal medico del paese che capì che poteva trattarsi di un aspetto positivo essendo tale patologia definita in greco morbo sacro. Virginia riportava le parole del dottore ogni qual si volta veniva chiamata con quel suo orrendo soprannome che le affibbiarono i suoi amici, vuoi per auto difesa vuoi per cercare di convincersi che lei fosse non solo normale bensì dotata di alcune attitudini riservate a pochi eletti, siccome l’epilessia affliggeva, in epoca greca e romana,
personaggi illustri. Nonostante questo coraggio e questa continua lotta da parte di Virginia verso l’ingenuità e l’ignoranza dei suoi amici, ella non solo si convinse sempre più delle sue doti naturali, bensì di impegnò anima e corpo alla ricerca di un possibile riscatto personale, lontano dal suo paese natale.
Secondo il medico del paese, divenuto ormai suo complice più segreto, ella possedeva delle innate doti scrittorie, fu proprio lui, infatti, ad iniziarla a quel fantastico mondo sperimentale ed in continua evoluzione che era la letteratura francese di quegli anni. l’immaginario della nostra giovane fanciulla, sarebbe dovuta avvenire in un ambito ben specifico: la letteratura. Virginia, complice con il dottore, continuava a seguire, tramite quotidiani e riviste d’avanguardia, le innumerevoli imprese e scoperte che si consumavano quotidianamente a Parigi. In particolare modo, in quegli anni, la colpì la
possibilità di poter raffigurare visivamente il contenuto letterario di una poesia, avendo lei appena letto il testo Il Pleut scritto da Guillame Apollinaire. In seguito a questa rivoluzionaria scoperta e forte del fatto di disporre di innate abilità scrittorie decise all’età di 25 anni di lasciare la sua terra natale e di avventurarsi, senza alcuna sicurezza economica o di ogni qual altro genere, nella capitale francese.
La ragazza trovò un’insolita sistemazione sulla rive droite, proprio grazie alla frequentazione di quei celebri café di cui aveva sentito parlare nei numerosi testi da lei letti in quegli anni. Fu in questi luoghi, così tanto sognati ed immaginati visivamente, che la nostra Virginia iniziò ad interfacciarsi con nuove compagne di avventura, specialmente con tre donne a lei coetanee che le proposero, pochi giorni dopo il suo arrivo a Parigi, di vivere nella loro abitazione, una mansarda situata nei pressi di
Montmartre. Virginia accettò volentieri ed iniziò, quasi subito, a raccontare il motivo del suo approdo a Parigi, riscontrando nella sua malattia e nelle sue ambizioni personali le primarie fonti di migrazione verso quella terra promessa così tanto agognata e sognata negli anni della sua adolescenza al paese. Le sue inquiline e nuove amiche abituate a ben altri disordini e problemi che dovevano fronteggiare in quella crudele quanto affascinante città, qual era Parigi, non si sorpresero in alcun modo della dichiarazione di Virginia, anzi le diedero pieno supporto e comprensione cercando, fin tanto che gli
era loro possibile, di aiutare Virginia nell’orientarsi. La nostra giovane fanciulla seguì alla lettera i consigli delle sue nuove amiche e fu così che iniziò a frequentare abitualmente le Chat Noire e la Rotonde, café dove era possibile incontrare i massimi esponenti della rivoluzione artistica e letteraria di quegli anni. Ella iniziò a sentirsi subito a suo agio, i nuovi problemi quotidiani le permisero di scordarsi e di rimuovere per sempre vecchi mostri insiti ormai del suo passato e di una donna che non esisteva più. Il suo nuovo mondo era costituto da orari irregolari, pasti saltuari, una vita inusuale la
cui principale fonte di gioia proveniva da continue lezioni di vita, di arte, di letteratura e di musica udibili gratuitamente nei café da lei frequentati giornalmente. Tutto ciò che ella ascoltava durante il giorno lo trasportava su carta all’alba, quando le sue inquiline dormivano ancora e la città sembrava sotterrata da un leggero strato di oscurità ed incertezza utile a suscitare, nella nostra donna, un profuso senso di curiosità sulle nuove opportunità e sfide che la aspettavano l’indomani. Questa nuova vita, città e compagnia le permisero di realizzare e concretizzare, in opere letterarie di rara bellezza poetica
e sentimentale, quella donna insicura e timida abituata a sognare ad occhi aperti.
Lucrezia Pellizzola
Era l’inverno del 1923, di lì a pochi giorni sarebbe stata sulla prima pagina di tutti i giornali, gli strilloni si sarebbero trovati ad annunciare a squarciagola “Madame Lestrange regina dell’occulto!” Nei salotti di Londra, si sussurrava di come Madame Lestrange, donna dall’apparenza morigerata, di nero vestita e con espressione anonima, fosse però in grado di riportare per qualche minuto indeterminato, nell’aldiquà chi si trovasse nell’aldilà. Molti cacciatori di ciarlatani si erano cimentati nell’intento di smascherarla, ma con scarsi risultati. Chiunque avesse vissuto quell’esperienza dal sapore ultraterreno, era pronto a giurare non solo quanto avesse sentito ma soprattutto, cosa ben più difficile da inventare, quanto avesse visto! La proclamavano medium, spiritista, regina dell’occulto e, ad aumentare quell’aura di timore reverenziale, era il fatto che si veniva ricevuti, in prima battuta, in un’anticamera. Qui, all’interno di un villino liberty dalle vetrate smerigliate, Madame Lestrange ascoltava in devoto silenzio la storia del richiedente, guardava quasi sempre un punto nel vuoto, senza fissare alcuno trasmetteva la sensazione che fosse già in una sorta di trance, mentre l’interlocutore viveva nel sacro terrore del sentirsi, alla fine, negata la possibilità del “contatto”. Si, perché alla fine madame Lestrange decideva se valesse la pena o meno di utilizzare il suo dono per quel determinato caso. Superato l’esame iniziale, la diafana signora dal dono soprannaturale, faceva accomodare i richiedenti nella sua stanza attorno al tavolo della cerimonia e, mentre iniziava, faceva servire loro del tè caldo al limone. Da quel momento in poi, raccontava chiunque avesse frequentato quel posto, accadeva che la percezione della realtà di ogni presente fosse del tutto alterata e surreale. Ora, all’epoca ero io il maggiordomo al servizio che si occupava di tutto, posso spiegarvi molte cose a partire dalle abilità della Signora. Innanzitutto Madame Lestrange era una chimica e, in quanto tale, sapeva perfettamente come il potere di un veleno venisse accelerato nel momento in cui questo venisse a contatto con una sostanza acida. Proprio per ciò, al momento del tè spettava a me il compito di inserire un’infima quantità di polvere velenosa con il limone, sicché questo procurava delle piccolissime allucinazioni che, ovviamente variavano da soggetto a soggetto, facendo sì che La Signora potesse manipolare la coscienza di ognuno a proprio piacimento. Ovviamente una volta fuori, i presenti, non si azzardavano a contraddirsi ed ognuno poteva riferire alle cronache le proprie differenti e senza dubbio veritiere, esperienze! Ecco perché Madame non poté mai essere smascherata, balzando invece così agli onori delle cronache come la Regina indiscussa dell’Occulto.
Daria de Turris
Guarda, guarda come se ne va in giro. Come se nulla fosse.
Strafottente nel suo cappotto scuro. Con quell'andatura finto-incerta, guarda come studia la situazione. Sta tramando qualcosa.
Leggero come una farfalla ma preciso come un dardo, il suo sguardo aleggia sulla via. Si schianta sui lampioni, buca il marciapiede, squarcia le vetrine dei negozi. Si ficca nei passanti lacerandoli. Con gli occhi, lui condanna a caso. Tu sì, tu no.
Guarda quel vecchio come avanza sprezzante, con il cappello blu petrolio che affonda tra la gente. Si crede più alto ma è solo più visibile.
Ecco! La sua prossima mossa verso l'inesorabile! L'hai vista? È lì, concentrata sulla sua barba. Hai notato come le labbra gli tremano dalla rabbia? Vibrano in modo quasi impercettibile, come volessero colpire, anche loro, cose e persone. Ma aspettano, non è ancora il momento.
L’aria è sempre più calda, la luce accecante, l’asfalto diventa burro. Eccoli i passanti frettolosi, non curanti. Il vecchio vorrebbe trafiggerli, uno alla volta.
"Poveracci. Tutti. Ignoranti." Ti sembra di sentirlo, vero? E intanto una goccia di sudore si impossessa della sua fronte, tra i capelli e il cappello blu.
Guarda, com’è sottile il suo odio. Non urla, il disprezzo è un rumore bianco.
Ma che succede? La strada di colpo cambia ritmo, alcune persone si fermano…
Il vecchio col cappotto scuro è a terra, ansimante. Con una mano si stringe il braccio sinistro. Circondato dai bersagli umani, allarga il volto in un ghigno insoddisfatto.
Guarda, com’è sottile il suo odio. Non urla, il disprezzo è un rumore bianco.
Ma che succede? La strada di colpo cambia ritmo, alcune persone si fermano…
Il vecchio col cappotto scuro è a terra, ansimante. Con una mano si stringe il braccio sinistro. Circondato dai bersagli umani, allarga il volto in un ghigno insoddisfatto.
Marika De Sandoli