La Scrittura a Tempo anche questa volta ha dato ottimi risultati, e i partecipanti al quinto esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura sono stati in grado di trasportarci in storie diverse e imprevedibili. La location è una sola: Roma. Ma i protagonisti sono diversi e, a volte, inaspettati.
Per leggere i diversi testi su Issu vi basterà cliccare qui, avrete a disposizione la "rivista letteraria" del Laboratorio con tanto di immagini azzeccate.
Se, invece, siete persone dall'esigenze semplici, trovate tutti i testi, in ordine di ricezione (il mio per ultimo, come sempre), a seguire. Nessuna immagine, solo ciccia di parole.
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi... – disse Romina avvicinandosi all’uomo – ecco la spremuta.” La donna provò disagio a disturbarlo, come se sentisse un’insistenza inesistente nel servirgli la bibita che aveva ordinato. E non perché l’uomo – sulla settantina, i capelli vistosamente tinti, il viso pieno di rughe – avesse dimostrato insofferenza. Romina era convinta che lui avesse molte cose importanti a cui pensare, lì, nella caffetteria del secondo piano di un edificio storico di via Margutta. Lui la ringraziò, dopo essersi ripreso dai suoi pensieri per un solo secondo. Scostò il portatile per far spazio al tovagliolo e al bicchiere che Romina appoggiò sul tavolo e riprese la posizione iniziale: schiena dritta, mano davanti alla bocca, sguardo concentrato sull’imminente tramonto. A Romina piaceva il suo lavoro. Incontrava molta gente nelle sue giornate, turisti per lo più ma anche artisti e galleristi. Aveva l’impressione che ognuno di loro, dietro la richiesta di un caffè o di un aperitivo, celasse un invito per lei: vieni a vedere i miei quadri, vieni a ammirare le mie opere. E lei lo avrebbe fatto. Anzi, in qualche modo lo faceva, ogni giorno. Per questo quell’uomo, dai capelli forzatamente scuri, la incuriosiva. Chi era? Un artista? Un critico d’arte? Forse un collezionista. Tornò dietro al banco ma i pensieri dello sconosciuto sembravano le tirassero delicatamente il bordo del grembiule della divisa marrone. “Mi scusi…” si trovò a ripetere. L’uomo si destò una seconda volta e si girò verso di lei. La guardava con una punta di impazienza, o almeno le sembrava. “Sì?” rispose con voce serena e un accento toscano. Ora Romina doveva inventare qualsiasi motivo per giustificare la sua nuova interruzione.
Marika De Sandoli
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi...
padre, mi scusi…”. Il prete, assorto nella preghiera non aveva sentito avvicinarsi quella giovane donna dal passo leggero.
“Mi dica, posso aiutarla in qualche modo?”
“È lei il responsabile della cattedrale? Stavo cercando notizie su di un dipinto che dicono essere stato esposto qui per lungo tempo, prima della guerra.”
“Chi le ha raccontato questa storia?”, rispose il prete stupito, la bocca semi aperta come chi proprio non si aspetta una domanda simile, in un giorno normale, assorto nella preghiera.
“Sono una studiosa di storia dell’arte, ma questa storia me l’ha raccontata mia nonna: lei era nella resistenza partigiana e, una volta che Roma fu liberata dai nazisti, era venuta qui a pregare davanti a quel dipinto, ma non l’aveva più trovato. Adesso io lo sto cercando, per lei: è mancata poco tempo fa e io sento che devo vedere quel quadro, non fosse altro che per capire questo suo ricordo ricorrente”.
Il prete abbassò lo sguardo, la bocca adesso si era stretta in una smorfia mista tra dolore e rassegnazione.
“Cara ragazza, questa è una storia che solo poche persone possono conoscere, le racconterò quello che so. Ma a nessuno è dato sapere dove sia finito quel quadro. I partigiani non venivano in chiesa proprio perché erano credenti, sa? Ma anche gli uomini di fede come me in certe circostanze sanno mettere da parte i dogmi a favore delle necessità degli uomini e così facemmo. Arrivavano, di solito giovani donne, meno sospettabili, in bicicletta o a piedi, fingendo di pregare di fronte all’altare: poi, quando nessuno guardava, lasciavano messaggi sotto la cornice…”
Letizia Battaglia
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma.
I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi...”
“Arrivo subito” esclamò il giovane, non senza una certa stizza nel tono.
Sapeva a cosa stava andando incontro. Quattro mesi prima gli era stato conferito il compito ingrato di far fronte all’inquinamento dilagante nella capitale con un’idea da lui stesso sviluppata: un enorme macchinario che, utilizzando una tecnologia solo a lui conosciuta, poteva ripulire l’aria ed addirittura arricchirla di ossigeno.
I primi esperimenti erano andati magnificamente, così bene che la giunta della capitale gli aveva dato carta bianca per avviare la produzione del macchinario.
E così, dopo solo tre mesi dall’inizio della costruzione, il macchinario mangia smog era entrato in azione. Tutto bene, il primo periodo: l’aria era diventata decisamente più pulita, si respirava meglio, non era più presente quel nauseabondo odore di sottofondo che si percepiva distintamente quando si usciva di casa.
Poi, accadde. La tecnologia utilizzata dalla macchina si basava su un composto chimico che assorbiva lo smog e lo intrappolava nella sua gabbia molecolare. Ma nessuno sapeva che, una volta che il composto si fosse saturato di agenti inquinanti, avrebbe cominciato a funzionare al contrario, immettendo nell’atmosfera una quantità enorme di agenti inquinanti concentrati e mortali. Il vero problema è che non era possibile spegnerlo, perché le reazioni a catena che si sarebbero innescate avrebbero trasformato il macchinario in una pericolosissima bomba chimica.
E così, dopo più di un mese dalla messa in servizio del macchinario, Roma si ritrovò in una situazione peggiore di quella iniziale. E lui, il giovane e brillante scienziato, venne additato come unico colpevole di tutto questo disastro.
La sala consiliare del Municipio Roma I era gremita di gente che aspettava di vedere in faccia il colpevole di questo disastro, già pregustando le parole di odio e di rimprovero che sarebbero uscite dalla bocca del sindaco.
Ma non sapevano che tutto questo non sarebbe mai successo. Uno spaventoso boato fu percepito in tutta la città, seguito da un’onda d’urto che spazzò via la quasi totalità dell’abitato. Il macchinario aveva collassato, riducendo la città ad un ammasso di macerie, silenzio e morte.
Beppe Carta
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi...dottor Fioravanti?"
Un attimo di silenzio a lei sembrava un'eternità. Il suo viso pallido sentiva il calore sulle guance. I suoi capelli biondissimi non riflettevano la luce come lui sembrava assorbisse la luce. Nello studio la musica di Chopin rendeva tutto più delicato.
Lui si girò lentamente, con il comando vocale abbassò il volume della musica.
"Buonasera, lei chi è? Non avevo appuntamenti a quest'ora. Questa è l'ora di Chopin" un sorriso sornione si dipinse sul suo viso.
"Mi scusi tanto dottore, sono la dottoressa Tetti. L'infermiera mi ha detto che potevo entrare" le sue mani sudavano.
"Ahhh dottoressa Tetti! Prego si accomodi". Con un cenno della mano le indicò la sedia davanti alla scrivania.
"Sono venuta per ringr..."
"Per favore non dica nulla", la interruppe lui socchiudendo gli occhi.
"Dottore davvero ci tengo a ringraziarla"
"Non lo deve fare, ho fatto solo il mio dovere, ciò che anche lei avrebbe fatto"
"No!" Insistette Monica.
"Lei ha fatto molto di più"
"Non esageri la prego" controbatté lui seriamente.
"Lei mi ha restituito la fiducia nell'essere umano".
Lui non pronunciò altre parole. Rimase solo Chopin, rimase il tramonto oltre !a finestra e la gratitudine nella stanza. La porta si chiuse in silenzio.
Patricia Scioli
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi, Presidente: è ora.”
Giuseppe Conte era ancora assorto nei suoi pensieri e impiegò più di qualche secondo a rassicurare il suo interlocutore di aver recepito il messaggio. Stette alla finestra a osservare la città vuota, avvolta da un silenzio surreale: non l’aveva mai vista così. Eppure si sforzò di associare tale panorama ad un pensiero positivo, nonostante la drammaticità del momento: il popolo lo aveva ascoltato. La gente aveva capito che le limitazioni imposte alla propria libertà erano finalizzate a preservare le proprie vite: niente passeggiate, niente turismo, niente gladiatori davanti al Colosseo, niente cacio e pepe nei ristoranti del centro e della periferia, niente assembramenti di alcun genere: la guerra al virus si combatteva così.
Erano passati pochi minuti da quando aveva dato l’annuncio ai cittadini a reti unificate, nel quale si era raccomandato di stare a casa e di non uscire per alcuna ragione.
Uscì dai suoi pensieri e si ricordò dell’incombente da fare: lo odiava. Aveva il terrore di dimenticarsi sempre qualcosa, qualcosa di importante: scese, salì sull’auto blu e si fece accompagnare dall’autista al supermercato, sperando di riuscire a portare a termine l’arduo compito assegnatogli: fare la spesa per due mesi rispettando la lista datagli dalla moglie.
Fabrizio Cardaci
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi il ritardo. E’ molto che attende”. Lui si voltò a guardarla con un movimento meccanico e poi si alzo di scatto prendendole la mano. Sfiorò appena con la labbra il guanto immacolato che era stato del corredo di sua madre. “Si sieda e non si preoccupi del ritardo. L’aspetto da una vita”. Arrossì leggermente, per non sembrare sfrontata e si abbandonò sulla sedia mantenendo una posizione eretta. Badava a fatica a tutte le buone maniera imparate troppi anni addietro nei tre anni di collegio femminile. Poi lo guardò mentre lui la fissava. I loro sguardi si fecero intensi. Era sconveniente, lo sapevano ma continuarono ancora per qualche secondo. Era una donna bellissima anche se non più in età da marito. E la foto ingiallita recapitata con l’ultima missiva non le rendeva giustizia. Questo pensò mentre prendeva dalla tasca una carta sgualcita. “È andato bene il viaggio?”. Ma avrebbe voluto chiederle. “È sicura che vuole sposarmi?”. “Sì” – lungo e rassicurante – “la nave ha impiegato un giorno in più perché il vento non voleva saperne di placarsi mentre ci avvicinavamo alla costa ma io non soffro il mare”. Aveva sofferto la terra. Quella che ti inghiotte un marito nelle sue viscere. Quella che ti ruba gli affetti e ti fa credere che non ci sia un futuro. Senza genitori, con una dote ancora intatta ma senza futuro. Eppure ora che era davanti a sé aveva la sensazione che quel futuro avrebbe potuto essere migliore di quanto avesse mai pensato negli ultimi anni.Anonimo
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi...
… potrebbe per cortesia indicarmi dov’è il bagno?”
“Certo, signore. Dopo quella porta in fondo, giri prima a destra e poi a sinistra, troverà le indicazioni.”
Mannaggia, pensò, che approccio cretino. Se non fossimo a una mostra almeno gli avrei potuto chiedere una sigaretta. Offrirgli un drink, che ne so. Tutti difficili me li trovo: non poteva fare il barista?
Si diresse nella direzione indicata. Voltato l’angolo, si portò la mano sulla fronte, fermandosi.
Sono stato troppo impulsivo. Avrei dovuto pensare meglio a come approcciarlo. Adesso si ricorderà di me, ho bruciato la magia del primo incontro. Spontaneità ce n’era, romanticismo poco. A meno di feticismi per i bagni pubblici…
Continuò in direzione del bagno. Una volta entrato, si sciacquò la faccia per rinfrescarsi le idee.
Per lo meno la mostra è interessante, potrei visitarla veramente, magari trovo l’ispirazione.
Il primo piano era dedicato a Monet e i suoi contemporanei. Salendo, di piano in piano il tempo procedeva fino ad arrivare a Picasso. Si gustò tutti i quadri, uno a uno, con un sapore misto tra interesse storico e curiosità sui particolari delle vite raccontate. E delle vite che raccontano. Arrivato alla fine, invece di prendere l’uscita, tornò indietro. Lo ritrovò al secondo piano, nel post-impressionismo. Un’espressione assorta lo rendeva ancora più affascinante.
Strano, di solito i guardiani stanno seduti su una sedia, sempre nella stessa sala, con un’aria annoiata. Sembrano sempre un po’ dei bruti.
Una donna gli si avvicinò e da lontano sembrò chiedergli dov’è il bagno. L’indicazione però questa volta non finiva mai. Pietro si avvicinò.
“… pensi che l’ha dipinto mentre era disperato per la morte del suo amante. È come un urlo disperato di invocazione alla gioia, affinché tornasse a riempire il suo cuore. Era un uomo molto razionale, anche se allo stesso tempo incredibilmente passionale.”
Cazzo, che idiota! Facendo finta di niente, sbirciò il badge che aveva appeso al collo. Curatore. Fantastico. Ho chiesto dov’è il bagno al curatore della mostra. Ottimo inizio.
Attraversò di nuovo le sale tra Cezanne a Picasso. Uscito sulla strada, si guardò intorno. Gli occhi si fermarono sul bar Lavanda dall’altra parte della strada. Decise di prendere tempo. Ordinò un caffè e, subito dopo, una birra. Erano le cinque, la mostra avrebbe chiuso in mezzora. Decise di aspettarlo, sperando che quella mezzora e un po’ di alcol portassero la fantasia e il coraggio di un approccio se non più intellettuale, se non altro meno barbarico.
Passata un’ora e tre medie, eccolo finalmente uscire dal portone. Pietro, finalmente pieno il cuore di sicurezza di sé, gli andò incontro.
Eviterò riferimenti a bisogni fisiologici, ma eviterò anche l’argomento mostra. Vedrà centinaia di visitatori ogni giorno, sicuramente non si ricorderà della mia gaffe.
“Buonasera.”
“Oh buonasera, l’ha trovato il bagno?”
“Oh sì, la ringrazio molto, le sue indicazioni sono state proprio utili, l’ho trovato subito.”
“Ne sono lieto. Anzi, la ringrazio di avermi rallegrato la giornata. Parlare sempre di arte e artisti dalla vita estremamente interessante e accattivante dopo un po’ mi annoia mortalmente.”
“Non c’è di che, non c’è di che davvero. Se vuole, ho molte altre domande a metà tra il fisiologico e il rozzo che la potrebbero salvare dall’abisso esistenziale. Le andrebbe un aperitivo?”
Si incamminarono verso il bar Lavanda.
Benedetta Bianchi
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. “Mi scusi…”Non fece in tempo a finire la frase che Glauco sussultò, riducendola al silenzio. Non fu proprio un sussulto, a dire il vero. Fu più una sorta di ruggito, un boato, uno sconquasso rinofaringeo, un… insomma, Glauco russò. Prepotentemente.Neva rimase a guardarlo affascinata. Come sempre, aveva interpretato male i segni. Glauco non stava ammirando il cielo, non era perso in profondi pensieri filosofici sulla condizione umana ma, semplicemente, era sopraffatto da una lenta digestione. Questo particolare le fu confermato dall’inserviente: “si è mangiato un piattone di pasta e poi è svenuto!”Sorrise e decise di non svegliarlo. Sarebbe tornata il giorno dopo, e senza dubbio lo avrebbe trovato di nuovo alla finestra.“Cara Neva, non potrei mai stancarmi di guardare il cielo. È imprevedibile, anche se sappiamo sempre come va a finire.”“Come?” chiese Neva, sempre pronta a sollecitare le sue opinioni e le sue confidenze.“Nel blu profondo della notte, cara Neva. Il cielo finisce sempre in un blu profondo.”L’inserviente li osservava, appoggiato allo stipite della porta. La relazione tra quei due era per lui un curioso diversivo nella routine alienante della residenza per anziani. Glauco, con i suoi 80 anni, era tra gli ospiti più giovani. Il tempo aveva lavorato bene su di lui e l’unica nota stonata del suo aspetto era frutto di un deliberato vezzo vanesio: tingersi i capelli di nero corvino. Tuttavia, quell’incongruenza era il comune denominatore con Neva, giovane donna di bassa statura e fisico morbido, la cui pelle diafana era messa in risalto da una lunga chioma rossa. Mirko li aveva soprannominati belli capelli e non perdeva occasione di origliare le loro conversazioni e commentarle con gli altri inservienti.“Oggi le ha tirato una supercazzola di mezzora sui cumulonembi e lei stava lì a bersi ogni parola! Quella è matta! Sai che sono i cumulonembi? Nuvole. Mezz’ora a parlare di nuvole!”“Oggi è arrivata, gli ha portato un pomodoro. Un pomodoro! E lui le ha baciato le mani e poi le ha messo il pomodoro sulla testa. Le diceva “Visto che il colore è lo stesso?”. E lei rideva, dovevi sentirla come rideva!”“Oggi gli ha portato un libro e lui non l’ha neanche voluto prendere in mano. Sai che glielo ha fatto portare via? Poverina, mi ha fatto pena.”“Oggi sono stati in silenzio per un’ora a guardare il cielo. Quando si è fatto buio, lei gli ha sorriso e se ne è andata. Oh, non si sono detti una parola…”Sulla metro che la portava a casa, Neva accarezzava le pagine di un libro. La signora accanto a lei ne sbirciò la dedica: “A N., luna della mia notte”. “Certa gente scrive un sacco di fesserie” pensò tra sé e sé, scendendo in tutta fretta alla fermata Tiburtina.La Peppa
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi”, disse alle sue spalle.
L’uomo si voltò. Le sopracciglia alzate in un muto fastidio mentre gli occhi, da dietro una montatura leggerissima e alquanto costosa, la osservavano spietati dall’alto in basso, dalla testa corvina ai piedi calzati in un paio di sneakers.
“Mi scusi” ripeté.
“Cosa vuoi ragazzina? Non ho soldi da darti”
Lei lo guardò stupefatta e offesa. Aveva impiegato ore a decidere cosa indossare per l’occasione. Niente di nuovo o elegante dato che non poteva permettersi nulla del genere, ma comunque tutto pulito e stirato con cura. E, invece, lui l’aveva appena scambiata per una stracciona.
Le cose non stavano andando come se le era immaginate mille volte.
“No, non ho bisogno di soldi” disse cercando di non lasciarsi scoraggiare. “Ma di qualche minuto della sua attenzione. Dovrei parlarle…” lui agitò una mano in cerca di una cameriera che l’aiutasse a scacciarla, ma lei non si sarebbe fatta mandare via né tantomeno interrompere. Aveva studiato il piano da settimane. Sapeva che era impossibile prendere appuntamento con lui in ufficio. Ci aveva provato, eccome se ci aveva provato, ma la sua segretaria altezzosa l’aveva respinta diverse volte, minacciando persino di chiamare i carabinieri. Si era quindi decisa a cercare di avvicinarlo in un ambiente neutro ma anche in quel caso pareva difficile trovarlo da solo, circondato com’era sempre da autista, guardia del corpo, o giornalisti. Difficile ma non impossibile. Nelle settimane precedenti, osservandolo con attenzione, aveva scoperto che, ogni giorno alla stessa ora, si recava per un bicchiere e un piattino di deliziosi dolcetti in un esclusivo Circolo in una zona più che esclusiva. Lei ci aveva messo giorni ma alla fine era riuscita a fare amicizia con il lavapiatti del locale, un tale Giulio con un florilegio d’acne che si poteva giocare a unire i puntini. “Hai solo un’occasione”, le aveva detto il ragazzo, dopo essere stato adeguatamente corrotto con una pulizia viso nel salone dalla miracolosa Estetista Lirica. Vecchia amica della madre di lei, per fortuna. “Domani te lascio aperta la porta del retro. Ma, ricorda, se te beccano tu non me conosci, me raccomanno!”. Ed era stato così che lei, lavata e profumata, era riuscita ad infiltrarsi in un ambiente che così poco le apparteneva.
“Mi scusi” ripeté per la terza volta in una manciata di minuti, aggiustandosi sul naso i suoi spessi occhiali rosa, “Volevo solo dirle che lei è mio padre”.
Un delizioso bignè di San Giuseppe – curioso delle volte il destino – si bloccò tra esofago e trachea, gli occhi di lui si fecero rossi e lucidi mentre prese a tossire convulsamente, briciole e saliva si sparpagliarono ovunque, una cameriera accorse con un bicchiere d’acqua mentre lei – Maria si chiamava– prese posto su una poltroncina scarlatta accanto al tavolo. “Tranquillo, Onorevole, non è poi così grave” gli disse dandogli amorevoli pacche sulla schiena.
No, le cose continuavano a non andare come se l’era immaginate.
Jane Pancrazia Cole