Un discreto numero di partecipanti ed io, nelle due settimane precedenti, ci siamo dati da fare per raccontarvi la famiglia Larsen Lopez. Qualche personaggio è rimasto fuori ma molti hanno trovato un volto, un carattere, un contesto e, soprattutto una storia.
Partendo dalla capostipite Lola fino all'"acquisito" John Stuart, eccovi l'originale famigliola.
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Se invece vi piacciono le cose più spartane, leggete di seguito.
LOLA LARSEN
Lola era seduta accanto alla finestra del soggiorno con uno dei suoi libri preferiti nelle mani, l’Amleto che aveva letto la prima volta a 30 anni, quando da poco aveva imparato a leggere; accanto ai piedi, appoggiata scompostamente sul pavimento, c’era una lettera aperta.
Aveva preso quel libro perché sperava riuscisse ad allontanare la mente da casa e a riportarla ad un periodo della sua vita che ricordava come essere dei migliori, ma non aveva funzionato. Ad un certo punto si era trovata infatti con lo sguardo perso fuori dalla finestra mentre ripensava a tutta la sua vita e al susseguirsi degli eventi.
Lola era nata il 1 gennaio del 1916, ad Oslo, ma una serie di vicissitudini famigliari l’avevano portata a vivere in Spagna dove aveva conosciuto Pedro.
I suoi ricordi migliori iniziavano in quel periodo anche se la loro non era stata una storia fatta di comodità e agio.
Lei e il suo compagno di una vita, infatti, erano andati via di casa in una notte d'inverno: aveva appena sedici anni e aspettava un bambino e il terrore della reazione dei genitori aveva spinto lei e Pedro a partire.
Pedro era più grande di lei, era un buon lavoratore e dirigendosi verso l'Italia avevano pensato che non avrebbero avuto molte difficoltà a sistemarsi.
In effetti fu così, Pedro trovò impiego presso un piccolo carpentiere e Laola poté occuparsi della figlia senza doversi preoccupare di lavorare. Non appena la figlia crebbe però, Lola iniziò a sentire il bisogno di cambiare e di fare qualcosa che le permettesse di avere la propria indipendenza, così cercò un piccolo impiego presso un ristorante dove fece la cameriera e decise che avrebbe frequentato le scuole dell’obbligo nonostante i suoi 30 anni. Scoprì di avere un talento particolare per le lingue e bruciando le tappe completò le scuole dell’obbligo, si laureò in lingue e inizio a tradurre piccoli testi per case editrici indipendenti. La sua seconda vita iniziò allora, e non fu priva di gioie e dolori, le soddisfazioni professionali si intrecciarono alla sofferenza per la morte di Pedro e della figlia, il primo in un banale incidente sul lavoro, la seconda, anni dopo durante una vacanza con amici: annegò trascinata via da una corrente improvvisa, mentre faceva il bagno in un punto poco sicuro del Po.
Nonostante tutto Lola continuò a vivere: leggere, tradurre testi in spagnolo, norvegese e inglese. Iniziò anche a viaggiare guardando il mondo col suo sguardo curioso e alla fine, quando l’età non le permise di viaggiare fisicamente, iniziò a scrivere romanzi d’avventura.
Nel tempo era riuscita a mantenere contatti solo parziali col resto della sua famiglia, sentiva periodicamente i nipoti, forse i soli che erano riusciti a comprendere davvero la sua scelta di non fermarsi mai.
Ma come fosse lo scherzo di un Destino beffardo, il quale aveva deciso che lei sarebbe dovuta essere l’ultima della sua famiglia a sopravvivere, uno dopo l’altro vide morire tutti i suo parenti: quelli prossimi e quelli meno.
Aveva compiuto da poco 104 anni, era tornata a vivere in Norvegia, laddove era nata, e sembrava la vita non la volesse lasciare, quando ricevette la lettera che le comunicava la morte dell’ultimo dei suoi nipoti: accolse la notizia quasi con rassegnazione, prese l’Amleto dallo scaffale , sperando riuscisse a riportarla a quando la sua vita scorreva via avvolta dagli impegni e dagli abbracci di Pedro e Costantia, ma infine si perdette dentro tutta la sua lunga vita e dentro tutti gli eventi che la avevano toccata, dalle due guerre, alle difficoltà economiche alla felicità, fino all’attuale pandemia, piombata sulla sua vita e su quella del mondo intero all’improvviso: alla fine stava pensando, “a me è andata bene, sono stata una donna fortunata”!
Annalisa Melas
PEDRO LOPEZ
Ogni mattina alla stessa ora l’uomo usciva per una passeggiata, e poi si fermava a sedere su una panchina del parco Tivoli, sempre la stessa, per godersi il tiepido sole di Copenaghen. E ogni mattina alla stessa ora vedeva passare quel giovane, la massa di capelli scuri trattenuta a stento dal berretto dell’uniforme, che camminava faticosamente aiutandosi con le stampelle, la gamba destra dei pantaloni ripiegata sotto il ginocchio, dove il polpaccio non c’era più. Quella mattina il giovane soldato si sedette sulla panchina accanto, e l’uomo vide una lacrima che gli scendeva lungo la guancia. Provò ad avvicinarsi, e poi a sedersi, e con la cautela imparata dall’esperienza, con parole calme e lente gli chiese cosa non andasse.
Perdonatemi signore, sono un soldato e non sono avvezzo a mostrare le mie lacrime. Ma oggi signore, oggi sento una tristezza come non l’ho sentita neanche quando ho perso la gamba. Sono stato ferito per difendere il mio re, signore, durante gli scontri nello Schleswig-Holstein. Il mio nome è Pedro, Pedro Lopez, ma sono danese come voi signore. Mio nonno arrivò con l’ambasciatore spagnolo alla corte del re, ma si innamorò di mia nonna e rimase. Mia nonna era di Odense, la conoscete, signore? Sposò mia nonna, e rimase al servizio del re. E anche mio padre ha servito il re, è stato in guerra con lui contro l’imperatore dei Francesi. E anch’io appena ho potuto sono entrato nel regio esercito per servire il mio re, e l’ho servito, e ho perso una gamba per lui. Ma in quel momento signore la sicurezza del re e della Danimarca erano più importanti della mia gamba, e io l’ho sacrificata volentieri. E anche il chirurgo che me l’ha tagliata è rimasto impressionato dal mio coraggio, e anche i miei compagni. Il re mi ha premiato con una medaglia, e con una pensione, per cui, signore, posso vivere una vita tranquilla. Ma la mia vita è finita signore, perché lei non mi ama più. Non me l’ha detto signore, ma io l’ho capito. Lo vedo da come mi guarda che non mi vuole più, lo vedo quando guarda la mia gamba, e io capisco che le fa orrore. Io la capisco la mia Lola, signore, quando sono partito per lo Schleswig-Holstein era così fiera di me, e il suo sorriso così caldo quando mi guardava. Volevamo sposarci, signore, e lei era così felice «sposerò un eroe!» diceva la mia Lola. Poi sono tornato, e non ero più l’eroe dei suoi sogni. Lei è una ballerina signore, forse la conoscete, Lola Larsen si chiama. Danza nella compagnia del balletto reale, è una ragazza colta, ama la danza e ama leggere, quanti libri legge, sapeste! Ma nei suoi libri non ci sono soldati senza una gamba.
Il giovane si alzò faticosamente.
Perdonatemi signore se vi ho annoiato, siete stato molto paziente ad ascoltarmi, vi ringrazio.
L’uomo tornò a casa, si sedette al suo tavolo e si mise a scrivere.
La mattina dopo, col frutto del suo lavoro in una borsa di cuoio saltò la passeggiata quotidiana, e andò a sedersi direttamente sulla sua panchina al Tivoli. Passò del tempo, tanto tempo, ma finalmente il giovane soldato arrivò, arrancando con le sue stampelle; lo vide e lo salutò con un sorriso.
Buongiorno signore, vi ringrazio per la pazienza che avete avuto con me ieri, posso offrirvi una birra?
Si sedettero e ordinarono, poi l’uomo tirò fuori il suo lavoro dalla borsa e lo posò sul tavolo fra di loro, spingendolo verso il soldato.
Prendi Pedro, l’ho scritto per te, e per Lola. Ora esiste un libro con un soldato senza una gamba.
Un po’ incerto il soldato prese il dono e lo aprì. Sul primo foglio era scritto:
Il Soldatino di stagno
Di Hans Christian Andersen
Maria Paola Pennetta
MARIO CACCIALUPI
Oxford, 20 aprile 1956
Carissima madre, come state?
Spero che questa lettera vi raggiunga in buona salute.
Qui la vita all’Exeter prosegue come sempre. La primavera finalmente è giunta e con essa, ahimè, il momento di mettersi a studiare con buona lena per gli esami di metà corso. Non preoccupatevi, però. Ho inserito “ahimè” perché la natura, in questa stagione, è così invitante e lussuriosa che, di certo, non invoglia a rimanere chiusi in biblioteca chini sui libri. Voglio rassicurare voi e il caro padre riguardo alla regolarità degli studi e alla soddisfazione dei professor per i miei voti. Devo però confessarvi che sono sempre più convinto che l’economia e la finanza non saranno mai miei amici. C’è una novità: ieri mattina è arrivato un nuovo compagno di stanza, simpatico come solo gli italiani possono esserlo. Si chiama Roberto, ha 17 anni e la sua famiglia possiede diverse industrie siderurgiche nel nord Europa. Tra noi è nata, in breve tempo, un’amicizia molto stretta, sebbene riconosca in lui aspetti caratteriali alquanto eccentrici. È una persona interessante, aperta al mondo in un modo così nuovo per me che mi pare del tutto originale. Uno spirito che io sento affine, nonostante sia molto lontano dal mio carattere. Mi parla con nostalgia del suo Paese ed è rimasto molto stupito del fatto che, nonostante il mio nome, io non sia propriamente italiano. Ho quindi raccontato la storia di come voi, con enorme generosità, avete accolto me, figlio di un boscaiolo, nella vostra stirpe. So, madre, che la vostra tempra nordica vi potrebbe far irrigidire di fronte a siffatta confidenza. Vi assicuro che Roberto è un amico fidato e, non solo non racconterebbe ad alcuno le mie origini ma, dopo la confessione, ha espresso tutta la sua ammirazione per la mia storia definendola “un romanzo d’appendice”.
È mia intenzione inviare una missiva anche al caro padre sperando che le mie notizie giungano presto fino alla sua dimora. Voglio dirgli che mi piacerebbe raggiungerlo sull’isola di Margarita e trascorrere le vacanze estive lì. L’aria di mare, il sole, le splendide spiagge e l’atmosfera di libertà e avventura mi faranno bene dopo il duro anno accademico. Sono sicuro che ne sarà contento, anche se, quasi certamente, i suoi affari lo porteranno ancora in mezzo all’Oceano. Se voi lo consentite, vorrei invitare in Sud America anche Roberto, sono sicuro che si innamorerà anche lui di quei paradisi.
Perdonatemi, madre, se scrivo questa missiva in italiano ma tanta è la presa che costui ha avuto sul mio spirito che appena lo conobbi iniziai a parlare, scrivere, pensare e persino sognare nella sua lingua.
In attesa di nuove, prego il buon Dio per voi e per il caro padre e vi abbraccio.
A presto,
vostro figlio Mario.
Madre,
vi scrivo questa lettera dal mio scrittoio, quello dove fanciullo, voi mi insegnavate a disegnare i fiori del vostro bel giardino.
Io non riesco a esprimere quello che provo se non con le parole scritte.
So che mi considererete un figlio ingrato e forse avrete ragione. Ma quello che è accaduto mi addolora in maniera sì profonda che non credo dimenticherò per tutto il corso della mia vita.
Ora che non sono più alla Oxford University, pensate che forse il mio animo sia cambiato? Che non abbia più sete di conoscenza del mondo, che non sia più bisognoso di crescere e di fare esperienze di vita con le anime affini che il destino mi ha posto di fronte?
Pensate che lo splendore e l’energia del sole diminuiscano, solo perché esso scalda con una diversa inclinazione?
Prima di salire sull’auto che voi avete mandato per prelevarmi nell’alloggio nel cuore della notte, come fossi colpevole di qualche reato, io e Roberto ci siamo scambiati una promessa. No, non ve la rivelerò, madre, così come non racconterò più nulla della mia vita intima, dei miei desideri, dei miei progetti per i prossimi anni. Ho scritto a mio padre e sono certo che lui, se non l’ha ancora fatto, saprà aprirvi gli occhi di fronte al fatto scellerato che avete commesso. Mi permetto di usare queste parole perché strappare ad una vita illuminata e ricca di stimoli, di conoscenze, di nuove sensibilità, di affetti puri, vostro figlio, che nella sua condotta mai aveva mostrato un atteggiamento irrispettoso o irresponsabile, questo, madre è un atto scellerato.
La mia decisione è presa. Non avrete più mie notizie. Sparirò da voi così come dalla vita di mio padre, sebbene senta la sua vicinanza morale come un grande conforto.
Addio, madre, che Dio abbia pietà di voi.
Mario.
Marika De Sandoli
Perdonatemi, madre, se scrivo questa missiva in italiano ma tanta è la presa che costui ha avuto sul mio spirito che appena lo conobbi iniziai a parlare, scrivere, pensare e persino sognare nella sua lingua.
In attesa di nuove, prego il buon Dio per voi e per il caro padre e vi abbraccio.
A presto,
vostro figlio Mario.
Kongens Lyngby, 8 giugno 1956
Madre,
vi scrivo questa lettera dal mio scrittoio, quello dove fanciullo, voi mi insegnavate a disegnare i fiori del vostro bel giardino.
Io non riesco a esprimere quello che provo se non con le parole scritte.
So che mi considererete un figlio ingrato e forse avrete ragione. Ma quello che è accaduto mi addolora in maniera sì profonda che non credo dimenticherò per tutto il corso della mia vita.
Ora che non sono più alla Oxford University, pensate che forse il mio animo sia cambiato? Che non abbia più sete di conoscenza del mondo, che non sia più bisognoso di crescere e di fare esperienze di vita con le anime affini che il destino mi ha posto di fronte?
Pensate che lo splendore e l’energia del sole diminuiscano, solo perché esso scalda con una diversa inclinazione?
Prima di salire sull’auto che voi avete mandato per prelevarmi nell’alloggio nel cuore della notte, come fossi colpevole di qualche reato, io e Roberto ci siamo scambiati una promessa. No, non ve la rivelerò, madre, così come non racconterò più nulla della mia vita intima, dei miei desideri, dei miei progetti per i prossimi anni. Ho scritto a mio padre e sono certo che lui, se non l’ha ancora fatto, saprà aprirvi gli occhi di fronte al fatto scellerato che avete commesso. Mi permetto di usare queste parole perché strappare ad una vita illuminata e ricca di stimoli, di conoscenze, di nuove sensibilità, di affetti puri, vostro figlio, che nella sua condotta mai aveva mostrato un atteggiamento irrispettoso o irresponsabile, questo, madre è un atto scellerato.
La mia decisione è presa. Non avrete più mie notizie. Sparirò da voi così come dalla vita di mio padre, sebbene senta la sua vicinanza morale come un grande conforto.
Addio, madre, che Dio abbia pietà di voi.
Mario.
Marika De Sandoli
CONSTANTIA LOPEZ
Nata a Buenos Aires l'8 gennaio del 1930, Costantia Lopez era l'unica figlia di Lola e Pedro. La donna più bella e il notaio più stimato della città argentina.
Miracolo venuto al mondo quando sua madre aveva già 45 anni e si era rassegnata ad una culla vuota da almeno 10. Figlia unica e tardiva. Constantia crebbe libera ma coccolata dall'affetto incondizionato dei suoi genitori. Chiara come la madre ma appassionata come il padre, attraversò l'infanzia in uno sfarfallio di giornate di sole, corse a perdifiato e pastelli di cera con cui colorava muri, tappeti e raramente anche fogli bianchi e disegni dentro i margini.
A scuola non brillava per la condotta ma la mente sveglia le permetteva voti eccellenti e le gambe lunghe di eredità materna ottimi risultati negli sport, in particolare salto in alto e corsa campestre.
Per il suo tredicesimo compleanno, i genitori, che fino a quel momento le avevano regalato tutto il mondo e anche di più, le fecero dono di una macchina fotografica, una Leica. Lei la prese tra le mani con reverenza, come un tesoro e, da quel momento, prese a guardare il mondo attraverso l'obiettivo. In breve tempo, lo studio del padre, il salotto e persino la toeletta materna furono tappezzati delle immagini in bianco e nero frutto dell'occhio vigile e curioso di Costantia. Il gatto dei vicini, la bicicletta del postino, i sorrisi delle cugine, gli sguardi corrucciati degli sconosciuti, le compagne che saltavano la corda, un cane che rincorreva un pallone, nulla sfuggiva a Costantia e a quello che, con gli anni, si rivelò essere un innegabile talento.
A 20 anni partì per l'Europa, voleva vedere il mondo e voleva che le sue fotografie fossero viste dal mondo. Dopo essere stata prima a Madrid e poi a Parigi, andò infine in visita alla famiglia materna, due zii della madre che abitavano nei dintorni di Oslo. Agnes, una cugina, la invitò a vedere una gara di sci. Costantia si portò dietro la macchina fotografica. “È una gara importante?" chiese mentre scattava foto ai visi tirati degli atleti. "Sì, sono i mondiali di fondo". Un signore con un grande cappello rosso e due piccoli occhi azzurri si avvicinò alle ragazze parlando loro in norvegese. "Cosa vuole?" chiese Costantia ad Agnes. “È un editore, il suo fotografo non si è presentato. Vorrebbe acquistare le tue foto".
L'indomani il quotidiano locale pubblicò diverse foto di Costantia. Una, la più grande, ritraeva il vincitore. Mario Caccialupi, diceva la didascalia.
Fu l'inizio di una carriera e non solo.
Jane Pancrazia Cole
CONSUELO CACCIALUPI
Era una ragazza come tante, almeno vista da fuori, ma Consuelo aveva dentro tutta l’impetuosa esuberanza che la nonna Lola le aveva trasmesso. Era il DNA tipico dei latinoamericani, gentili, calmi, ma con dentro un vulcano sempre attivo a muovere cuore, pancia e cervello. Così aveva vissuto il suo ’68, studentessa modello di un liceo cittadino, che di fronte ai tumulti ed alle istanze femministe si era trovata in prima linea con il pugno chiuso a gridare “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Cosa tra, l’atro, che non era stata per niente digerita dai familiari: i Caccialupi infatti discendevano da una nobile famiglia molto legata al Vaticano e nella Roma della fine degli anni sessanta, avevano sicuramente una posizione di prestigio da salvaguardare. Quella figlia così rispettosa, così delicata, aveva finito per rompere i ponti come qualsiasi acqua cheta che si rispetti, riuscendo a mettere in difficoltà soprattutto suo padre, che oltre a motivi prettamente economici era anche molto condizionato da una religiosità beghina ed integralista. Ma niente, il cuore le batteva per le cause femministe, la pancia la lanciava indomita verso nuove contestazioni e, soprattutto, il cervello le diceva che tutto questo era profondamente giusto. Gli occhi neri, i capelli ancora più neri, la pelle lievemente olivastra, girava vestita come i ragazzi della sua età, con quei pantaloni a zampa di elefante, i top corti che lasciavano scoperto l’ombelico e soprattutto, rigorosamente senza reggiseno. Niente costrizioni per quella generazione di donne, né morali né religiose: Consuelo andava a testa alta contro tutti i dogmi imposti dalla società e tanto più, dalla chiesa. Provarono con le buone a convincerla che non si poteva discutere sull’autorità dei comandamenti religiosi, provarono con le minacce, non facendola uscire per giorni e scortandola a scuola con la scusa che non era maggiorenne: i ventun anni non erano ancora arrivati per lei che ormai li agognava come simbolo unico di indipendenza e libertà. La vita le avrebbe insegnato sulla propria pelle, che le cose non sono sempre o bianco o nero, o giusto o sbagliato, ma spesso il risultato di equilibri precari e ragionati, di convenienze e necessità. Sua madre era l’unica che la capiva, anche se mai l’assecondava, silenziosamente sapeva che era giunto per tutte le donne il momento di far valere i propri valori e non quelli che padri e mariti avevano deciso per loro fino a quel momento. Ma era una donna umile Constantia e da quando aveva fatto quel matrimonio così prestigioso, si era sempre adeguata alle volontà del marito, sacrificando sé stessa e le sue priorità a quelle della famiglia. Forse, se non fosse stata così, la figlia non avrebbe sentito pressante la necessità di esprimere le proprie opinioni. Ma era nonna Lola il suo modello: lei, arrivata giovanissima in Italia proprio nel periodo della guerra, era stata una staffetta partigiana e con i suoi racconti aveva contribuito certamente a mettere quel seme di ribellione dentro al cuore della sua nipote preferita. Conobbe proprio in quelle circostanze nonno Larsen, un bel soldato americano dagli occhi di ghiaccio e dai capelli color rame. Raccontava del suo amore, della libertà, del rischio e Consuelo ascoltava rapita: e la storia del quadro era la più avvincente, quella che prima o poi avrebbe portato a fine. Nonna Lola portava i messaggi ai partigiani in un modo molto particolare infatti: qualcuno ai vertici del governo, ma non allineato con il pensiero e la dittatura, lasciava indicazioni sui movimenti degli squadristi in modo che i partigiani potessero sapere ed attaccare evitando che gli scellerati portassero a termine le loro scorribande. Era la partigiana Argentina nonna Lola, inforcava la sua bicicletta e correva veloce a portare i messaggi che trovava dietro al quadro in quella cattedrale del centro di Roma, dove un magro cappellano sedeva spesso in preghiera con i raggi del sole che entravano dalla vetrata: non la vedeva mai, o almeno così lei pensava. Consuelo non avrebbe mai dimenticato i suoi racconti ma non immaginava, con la testa appoggiata alle sue ginocchia e la vecchia mano che le accarezzava i lunghi capelli neri, quanto questi l’avrebbero fatta diventare quella che era e che un giorno, quel quadro sarebbe diventato un regalo del destino.
Ma questa, è un’altra storia.
Letizia Battaglia
ANTONIO CACCIALUPI
Il giorno in cui nacque il primo figlio maschio della famiglia Caccialupi erano state chiamate addirittura due levatrici. Il medico era stato avvertito e si era messo in viaggio dalla città. Ma non sarebbe servito. Nessuno ricordava che un simile lieto evento fosse accaduto meno di due anni prima in quella casa, quando era venuta alla luce la piccola Consuelo. Ora però c’era nell’aria quella trepidazione propria delle cose tanto attese. Erano da poco passate le due di un tiepido pomeriggio del 21 aprile 1872 quando il pianto del piccolo Antonio aveva annunciato l’arrivo. Finalmente un maschio. Appena giunta la notizia, di lì a poche ore dalla nascita, il nonno Pedro che nella sua vita aveva toccato anche le Americhe si era deciso a mettersi in viaggio con la migliore carrozza della regione per giungere in quella casa in cui non metteva piede da anni e vedere il piccolo. Una magra consolazione visto che il figlio maschio tanto agognato la sua povera Lola non era riuscita a darglielo. Il curato del paese, venuto per la prima benedizione del piccolo Antonio, aveva disposto che le campane sarebbero suonate a festa di lì a qualche ora per dare il lieto annuncio a tutti i lavoratori sparsi nei possedimenti dei Caccialupi e così nei prossimi giorni, per ricordare la nascita.
Mario Caccialupi ringraziava Dio di averlo reso padre di un figlio maschio. Ora le sue terre ed i suoi possedimenti potevano prosperare senza il rischio di venire smembrati. Quello scricciolo d’uomo era la sua speranza e alla sua formazione si sarebbe dedicato sin da subito. Antonio non aveva ancora compiuti 3 anni che aveva già cambiato 4 balie, alla ricerca della migliore nutrice. Nel frattempo era venuto al mondo in quella casa anche il piccolo Mario, senza troppo clamore. Lui e Consuelo sarebbero stati sempre la sorella maggiore ed il fratello minore di Antonio. Quel fratello che sedeva su un gradino più altro del loro e che conoscevano a mala pena. Per lui, le ore più numerose con i precettori, i musici e i cavalieri. Per lui solo doveri. Per lui l’arte della caccia e la spada. Sopra ogni cosa avrebbe dovuto imparare a combattere e a difendersi per schivare le insidie e le guerre che minacciavano l’Europa e difendere le ricchezze della propria famiglia. Questa era e sarebbe stata la sua vita. Non vi erano altre strade da percorrere. Dalla collina dove ergeva la torre del castello si vedevano solo i campi della famiglia. Il mondo per lui era tutto lì. E così sarebbe stato fino al compimento del suo ventesimo anno.
Dopo poche settimane, gli era stato annunciato che il 1 giugno del 1892 sarebbe stato celebrato il suo matrimonio. Nel rigido mondo che aveva conosciuto fino ad ora doveva esserci dell’altro.
Dopo mesi di trattative con i ricchi proprietari dei terreni confinanti, suo padre aveva deciso che avrebbe sposato una contessa. La piccola Marina aveva appena compiuto 16 anni ed era l’ultima discendente di un nobile casato del sepolto Granducato di Toscana. La sua famiglia di origine asburgica aveva retto le sorti del granducato fino alla falcidia dell’unificazione d’Italia. Marina era arrivata su una carrozza ornata d’oro e lustrini, con due cameriere, una dama, un precettore ed il vecchio zio.
Le nozze furono celebrate all’alba. Antonio non era riuscito a scorgere il viso di Marina per gran parte della cerimonia. Le luci delle candele ed i veli che le coprivano il volto avevano dato a quell’incontro una magia inaspettata. Non si sarebbero parlati per tutto il giorno. Si sarebbero ritrovati esausti nella stanza più alta della torre dopo una giornata di banchetti e balli. La gioia dell’evento si era tradotta con una giornata di festa pagata due volte per tutti i braccianti che lavoravano nei campi di proprietà della famiglia Caccialupi. Nel poderi erano risuonati canti di ringraziamento per l’inaspettata generosità.
Erano frastornati, impauriti e stanchi. Antonio sapeva bene quello che ci si aspettava da lui. Suo padre avrebbe voluto morire sapendo di avere un discendente. Per questo erano state anticipate le nozze.
Marina, minuta e bianchissima, piangeva in silenzio, appoggiata di spalle alla finestra socchiusa. Le si avvicinò, la guardò per la prima volta e vide che la luna disegnava sulla guancia destra della sua sposa una forma solida e luminosa. La prese per le spalle e la volto verso la finestra. Le lezioni di astronomia ora sembravano avere un senso. Iniziò a parlare della luna e dei pianeti. Marina smise di piangere. Conosceva a memoria le pagine degli Elementi di Astronomia ma era come se le ascoltasse per la prima volta. Anche Antonio si rese conto che non erano semplici nozioni. Le si aprì il cuore e svanirono le paure. Entrambi sapevano che si sarebbero amati, era solo questione di tempo.
Anonimo
MARINA MARINI
Donna di grande cuore, Marina Marini i suoi splendidi cinquant’anni li porta davvero egregiamente. Dotata di un’inconfondibile chioma bianca come la neve, a volte ingestibile, è un avvocato di grande fama per la sua totale onestà unita ad un’ottima parlantina.
Vive a Torino, dove è nata e cresciuta, sposata con Antonio Caccialupi, noto finanziere del capoluogo torinese, un figlio, Paolo Ferrante, avuto in giovane età prima di incontrare l'attuale marito.
Nota nel mondo forense per le sue battaglie a favore dei minori, Marina Marini è molto stimata nel suo ambiente, dote riservata solitamente a pochi eletti.
Collabora con prestigiosi studi notarili a Torino, Alessandria e Cuneo.
Nel tempo libero adora rifugiarsi nella sua immensa ed attrezzatissima cucina, la sua seconda passione.
"Il giorno in cui non riuscirò più a sostenere la frenetica attività forense, potrò dedicarmi definitivamente al mondo culinario", ha affermato in un'intervista recentemente.
Laureata in Giurisprudenza presso l'Università di Torino con 110 e lode, una Laurea Magistrale in Psicologia criminologica e forense ottenuta nello stesso Ateneo con il massimo dei voti, numerosi articoli scritti per diverse riviste del settore.
Serena Favalli
MARIO JUNIOR
È stata una giornataccia a lavoro, quindi mi sono buttato in un pub sulla via del ritorno dalla trasferta. Avevo bisogno del primo pub e della prima birra disponibile.
Al bancone, adesso, fisso la birra ed il tipo che mi ha servito – l’unico presente nel locale - e che non ha quasi nemmeno alzato la testa. Provo ad attaccargli bottone indicandogli una foto appesa al muro alle sue spalle.
“Che bella famigliola”.
Improvvisamente mi considera, mi scruta come solo chi è a contatto con il pubblico ogni giorno può fare, riuscendo a capire in un attimo chi gli è toccato stavolta.
“Sono Marina e Mario Junior, gli ideatori dello spazio in cui ti trovi, con il loro bambino appena nato.”
Mi viene il dubbio che forse il posto dove mi trovo non sia solo un pub. Mi guardo meglio attorno e vedo un palco per suonare, frecce con su scritto “Spazio Teatro”, “Spazio di Comunità”, “Spazio di Supporto”.
“Adesso ti spiego, sembri stranito. Mario Junior è un nome un po’ del cazzo. Tra l’altro, suo padre si chiamava nello stesso modo, Mario, chi avrebbe chiamato suo figlio col suo stesso nome?” – e fa il primo sorriso della serata. Sorrido divertito anche io.
“Mario Junior è nato Maria” – continua – “Dicono fosse la più bella ragazza della città..”.
Una voce dalla cucina lo interrompe improvvisamente ed urla “Paooooloooo, non la romanzare troppo anche stavolta!”
“Scusa un attimo, eh” - mi dice – “Joohnn, farò come mi pare, non mi interrompere!!!”
“Dicevo: era la ragazza più bella della città. Figlia di Costantia Lopez, donna leggendaria. Anche la nonna, Lola Larsen, metà svedese, metà spagnola ed un poco zingara, di nazionalità e di fatto, aveva compiuto grandi imprese. Non mi dilungo, le loro sono altre storie, ma si erano distinte nella scienza e nell’impegno sociale.
Maria nasce quindi in una famiglia matriarcale, come quelle degli etruschi, o dei minoici, in cui una componente principale è la cultura ed in cui le donne sono determinate, colte e belle.
O anche come la famiglia reale degli UK, in cui le persone che contano sono le donne: Elisabetta, Kate, Meghan. E poi c’è la povera Camilla. Ecco Maria aveva due fratelli: una sorella maggiore, che assomigliava a Camilla, ed un fratello maggiore, che assomigliava a Camilla.
Anche fisiognomicamente Maria era identica in tutto e per tutto a Lola e a Costantia: era lei, dunque, che, tacitamente, doveva continuare a portare avanti la leggenda della famiglia.
Peccato che Maria, fin da piccolina, si fosse accorta di essere diversa. E se ne fossero accorti anche tutti gli altri membri della famiglia.”
Paolo si ferma un attimo compiaciuto dalla mia reazione: pendo dalle sue labbra.
“Il momento più difficile fu il suo diciassettesimo compleanno, quando sua madre iniziò a strattonarla, insultandola - “Non sei un uomo, lo vuoi capire? Smettila con questa farsa!” – e via dicendo, come nemmeno i peggiori bulli della scuola erano riusciti a fare.
Spesso nemmeno essere una donna leggendaria in molti campi permette di affrontare lucidamente le relazioni con i figli, così vicini emotivamente e così stipati con aspettiative spesso disattese.
Meno male che esistono le nonne. Nonna Lola sentenziò: “Lasciala vivere la propria vita, Costantia. Se lei si sente uomo, non puoi forzarla ad essere donna. Non potrà mai stare bene, se non è - consentimi la parola - concorde con sè stessa. Non vuoi che sia felice?”
Un urlo dalla cucina: “Queeestaaaa invece è la versione romanzata da Mario Junior!”
Paolo sbuffa e continua: “Da lì, è iniziata la trasformazione di Maria ed il suo impegno per i diritti dei transgender e di tutta la comunità LGBT.
In tutto questo marasma, Maria si innamora di Marina, moglie di suo fratello: da sempre amiche, da sempre consapevoli dell’attrazione reciproca. Marina era ricorsa alla fecondazione assistita, ma aveva voluto sapere chi era il donatore. Suo figlio/a aveva il diritto di sapere tutto, di conoscere il suo vero padre e di conoscere tutta la storia, il dolore ad essa sotteso, per poter avere anche consapevolezza di sè stesso. Senza le tipiche menzogne di comodo per protezione dei genitori.
Possibile?
Suo figlio ha preso anche il cognome del vero padre, Ferrante. Paolo Ferrante. Che sarei io!
E questo centro internazionale lo ha costruito Mario Junior, con passione, forza e dedizione.
Come solo una vera Larsen/Lopez poteva fare.”
E se è romanzata, non so se è una leggenda o una favola.
Marianna Palmerini
JOHN STUART
Mi chiamo John Stuart. Non è un nome particolarmente affascinante, direi piuttosto il contrario. Ma nel mio lavoro l’anonimato era essenziale, saper scivolare tra la gente senza che nessuno ricordi il tuo volto, la fisionomia. Un’ombra tra le ombre. Facevo parte del dipartimento di intelligence di un’agenzia governativa di controspionaggio inglese.
Quando si sente la parola “controspionaggio” ci si immagina subito un uomo con licenza di uccidere, che guida un’auto sportiva, attorniato da bellissime ragazze, ma non è così. Il mio lavoro è fatto di analisi, ricerche sul campo, verifica ed incrocio di dati finanziari di personaggi dalla reputazione poco chiara. Però ho svolto questo mestiere tanti anni fino alla pensione vivendo parecchie situazioni pericolose ed interessanti, almeno per i patiti di Fleming.
Sono nato il 14 Ottobre 1950 in un paesino ad un centinaio di chilometri da Londra. I miei genitori mi amavano come una benedizione dal cielo perché, dopo aver provato ad avere un figlio per anni, arrivai io. Crebbi circondato da amore, ma anche da regole rigide che mi diedero un carattere forte, con una morale altrettanto forte. Per me la carriera militare era l’unica via da percorrere.
Cominciai dal basso, ma già dall’addestramento nell’esercito capii ero destinato a fare carriera: ero forte, agile, sveglio e intelligente. Non lo dico io, è tutto riportato nel mio fascicolo di allora che il mio primo sergente istruttore mi volle regalare quando completai l’addestramento. Ogni tanto sfoglio ancora quel fascicolo, e con un sorriso ricordo il momento in cui me lo consegnò: “John, tu sei un diamante in mezzo a tanto carbone. Fai in modo che la tua luce splenda”.
La mia luce cominciò a splendere quando fui coinvolto in un’operazione di rastrellamento nelle campagne irlandesi, alla ricerca di un nascondiglio dell’IRA dove si riteneva che fosse nascosto un capo brigata insieme ad un ostaggio, il nipote di un ministro inglese. Le forze speciali della SAS insistevano per procedere verso sud, ma il mio istinto mi diceva che la direzione era l’opposta. Il capo brigata aveva trascorso otto anni nella SAS, sapeva come ragionavano. Contro ogni logica, presi tre uomini ben addestrati e mi diressi a nord. Li trovammo poco dopo, neutralizzammo le guardie e liberammo l’ostaggio.
Da lì al dipartimento di antiterrorismo della SAS il passo fu davvero breve e non ci volle molto perché il dipartimento di controspionaggio governativo mi notasse e mi proponesse un ingaggio. La giostra era partita: mi ritrovai a girare il mondo a caccia di terroristi, criminali internazionali e contrabbandieri d’armi. Vorrei sorvolare sui dettagli, perché molte di quelle operazioni sono ancora coperte dal segreto di stato.
Una sera giravo da solo per il centro di un paese in provincia di Modena, in Italia. Era arrivata una soffiata su un deposito d’armi di una cellula terroristica italiana ed il governo ci aveva chiesto un supporto di intelligence. Arrivato in un vicolo buio e stretto, sentii la fredda lama di un coltello appoggiata alla gola e una voce che mi diceva di dargli il portafoglio. Il mio addestramento militare ebbe il sopravvento e pochi secondi dopo avevo il suo coltello in mano. Il giovane, spaventato e disarmato, mi guardò negli occhi poi svenne. Lo portai nell’appartamento che avevo affittato e lo misi a dormire sul mio divano. Furono giorni interessanti, nei quali cercavo di ottenere la fiducia da quel giovane mostrandomi intenzionato ad aiutarlo. Poco a poco si instaurò un legame e appresi della vita difficile e tormentata di Paolo, questo è il suo nome. La mia missione era intanto terminata, le armi erano state trovate e distrutte, e mi accingevo a tornare a casa. L’ultima sera Paolo mi si avvicinò e senza dire nulla mi diede un bacio. Per me le donne non rappresentavano un vero interesse, e da quel bacio capii il perché. Rimasi altri due mesi in Italia, il tempo di sbrigare le pratiche, ed insieme volammo in Inghilterra. Paolo è un brillante artista, pieno di fantasia e creatività. Il giorno dopo la pensione ci siamo sposati in un magnifico giardino. I miei commilitoni non hanno ancora capito bene cosa sia successo, ma vedo la gioia nei loro occhi e tanto basta.
Dopo una vita dedicata alla violenza, all’inganno ed ai sotterfugi, posso finalmente godere una vecchiaia di serenità, fiducia e amore.
Beppe Carta