"Non l'ho mai raccontato a nessuno" era questo l'incipit da cui partire per l'undicesimo esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura.
Un incipit evocativo che ci ha regalato grandi soddisfazioni. Grandi storie, autobiografiche o meno, non è importante questo, quanto le emozioni profonde che emergono da ogni singola riga. Un grazie speciale a tutti i partecipanti e un augurio di buona lettura a tutti gli altri.
Non l’ho mai raccontato a nessuno, sa?
Quella volta che sono tornata a casa dopo il famoso lockdown del 2020, dopo la morte di mia nonna, è stata proprio difficile. Non credevo, prima di partire dalla Terra delle Montagne, di aver sofferto così tanto la solitudine ed il lutto.
Ero a pezzi. E me ne sono accorta sull’aereo.
Era il primo weekend di “libertà”, in cui si poteva viaggiare. Guardavo le facce delle persone in fila intorno a me in attesa al gate. Ho provato ad attaccare bottone, ma non c’erano grandi facce tristi. Eppure era stata una situazione difficile per tutti, non solo per me. Appena, da Roma Fiumicino, siamo partiti in direzione Pisa ho visto il mare. Ed ho iniziato a piangere. E sono scoppiata in lacrime, con la mascherina, vedendo l’Elba e la Meloria.
Il mare non è noioso, non è monotono come il fiume ed il lago. Ed è anche imprevedibile, si increspa, mescola tutto. La natura che sento anche mia.
In quel distanziamento - due persone per fila - ho sentito singhiozzare la ragazza nella mia stessa fila.
Ho fatto finta di niente per non imbarazzarla. Ma tra me e lei sembrava un concerto.
Non so se ha presente la canzone “Autogrill” di Guccini: descrive un momento di incontro tra due persone, con lui che sente l’anima della persona accanto “vicina”, ma non riesce nemmeno a dirle una parola.
Ecco: alla fine del concerto singhiozzato, appena arrivati, al momento della discesa, io ho provato quella sensazione. Volevo solo dirle ciao e farle un sorriso da sotto la maschera.
“Fila dalla 1 alla 10”. Ecco il nostro momento!
Mi sono alzata. Lei si alzata. Ma se ne è andata ad occhi bassi.
Sarà stata davvero lei a piangere? Era di lei il singhiozzo che mi accompagnava? Nell’alienazione e nell’incognito delle maschere?
Nella paura del diverso. Quanto mi ha fatto paura il diverso, ed anche a quella ragazza. Soprattutto in quel momento. Il diverso che non è empatico, che non piange per un’emozione. Quello che non mostra solidarietà, quello che ha avuto paura del contatto vero, anche solo con un sorriso. Ma anche quello che si vuole avvicinare troppo alla tua sfera, perchè in quel momento solo stare vicini era pericoloso, indipendentemente dalla natura dell’altro.
Era già quel momento evidenza della guerra che ne sarebbe venuta fuori. La crisi economica degli anni ‘20 e la Prima Guerra Fredda Sociale, dopo 2 anni di Distanziamento. Si ricorda?
Marianna Palmerini
Non l'ho mai raccontato a nessuno, nemmeno a me stessa. Quando sentivo una pulsazione in quella direzione, nei miei pensieri, la reprimevo. Era come se improvvisamente comparisse un bozzetto e io lo andassi immediatamente a schiacciare con un dito. Inizialmente faceva resistenza, poi si iniziava ad infossare sotto al peso del mio polpastrello. Sembrava quasi che il mio dito ci lasciasse l’impronta. Poi rimaneva un’aureola nella parte più esterna, sulla circonferenza del bozzetto. A questo punto ero costretta ad ingegnarmi per appianare quel rigonfiamento e allora iniziavo a spingere con il palmo della mano, con tutta la forza che avevo, con gli occhi chiusi. Credevo che chiudendoli avrei esercitato più pressione. Una volta appianato, rimanevo qualche minuto a contemplarlo, soddisfatta. Ma continuavo comunque a guardare lì, in quel punto. Anche volendo, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Solo un evento improvviso ed eclatante riusciva a farmi pensare ad altro, e poi magari non ci pensavo più per giorni, settimane, anche mesi. Se ne andava per come compariva.
C’ho messo tanto a dirlo a me stessa. Qualche volta poi ne ho parlato al muro della mia stanza, altre volte l’ho confidato al soffitto. Dirlo guardando negli occhi qualcuno era invece un ostacolo insormontabile. Un giorno però ho trovato un’escamotage: l’ho detto al cane.
Anonimo
"Non l'ho mai raccontato a nessuno..."
Quella sensazione di inadeguatezza verso il mondo esterno che non riesco a spiegare e mi porto dentro.
A proteggermi quella corazza che mi sono creata durante il periodo dell'adolescenza. Purtroppo, questo sentimento riemerge ogni volta che la vita mi mette davanti ad un qualsiasi problema.
Come poter dimenticare quelle parole apparse sullo schermo "Faresti meglio a sparire per sempre".
La ferita più profonda è stata generata dal tradimento della fiducia data senza remore a quella persona che credevo un' amica.
Scoprire che quelle parole erano state suggerite proprio da colei alla quale avevi aperto il tuo cuore e confidato i tuoi sentimenti è stato peggio di un pugno in pieno volto.
Cosa spinge una persona, a cui non hai fatto nulla di male, a buttare su di te tanto odio immotivato. Soprattutto chi lo fa riesce a prevedere le conseguenze portate da tali gesti?
Nel mio caso sono state diciamo "solo psicologiche, e cerco di combatterle ogni giorno, ogni volta che sento del suicidio di un ragazzo o ragazza a causa del bullismo ripenso alla lettera e mi vengono i brividi... e se fossi stata io quella ragazza?
Anonimo
"Non l'ho mai raccontato a nessuno, ma era giusto fartelo sapere. Addio, figlio mio.”
Così si concludeva la lettera che Miguel aveva trovato nella tasca del pigiama di suo padre, morto quella mattina. Lo aveva portato via dall’orfanotrofio del convento di Villa Real quando aveva sette anni, e già dopo un anno Miguel aveva cominciato a pensare a lui come ad un padre.
Si chiamava Augusto Lorenzin, un uomo alto, forte e dolce al tempo stesso. La malattia l’aveva portato via nel giro di sei mesi, riducendolo ad uno scheletro. I suoi occhi, però, erano sempre gli stessi: luminosi, pieni di vita e di intelligenza, con un fondo di tristezza e di malinconia di chi ha vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra e dei campi di concentramento.
Miguel riprese in mano la lettera, si asciugò gli occhi, e rilesse quel foglio ingiallito scritto a mano.
“Figlio mio,
è da tanto tempo che avrei voluto consegnarti questa lettera, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo. Mi sto portando dentro questo peso da quando ti portarono all’orfanotrofio dopo la sparizione di tuo padre. Il tuo vero padre, intendo. Già, perché io conosco la tua storia da quando ancora avevi un padre, quando vivevi in quella piccola casa nel barrio di Puerto Madero, vicino al negozio di Pedro.
A quei tempi vivevo nel barrio Palermo, da buon italiano. Mi ha sempre fatto sorridere che un veneto come me sia andato a vivere a Palermo, anche se si parla una lingua diversa. Avevo un piccolo negozio di gastronomia che avevo chiamato “Gastronomia Italia”, un po’ per ricordare le mie origini, un po’ per attirare gli italiani che vivevano nel barrio. La mia attività funzionava bene, avevo tanti clienti affezionati che venivano a comprare un po’ di tutto. Ero finalmente sereno, dopo anni passati con la paura e l’orrore appoggiati sulla mia spalla come una scimmia arrabbiata.
Avevo sempre le maniche arrotolate fin sopra i gomiti, ed ogni tanto mi cadeva l‘occhio su quelle sei cifre tatuate sull’avambraccio. Allora distoglievo subito lo sguardo perché mi riportavano alla mente dei ricordi che ho cercato di nascondere nella parte più profonda ed inaccessibile della mia mente.
Un giorno il campanello d’ingresso tintinnò e la mia vita cambiò di colpo. Era lui, era sicuramente lui: gli occhi gelidi, il portamento militare e quell’espressione che non sono mai riuscito a dimenticare. Si chiamava Herbert Von Hurer, ed era stato il comandante del campo di concentramento nel quale avevo vissuto i tre anni più terribili della mia vita. La mia mano corse subito a coprire il tatuaggio e sentii il sudore imperlare la mia fronte. Lui non mi riconobbe.
Molto educatamente mi chiese se avessi a disposizione dei bratwurst, perché a Buenos Aires non se ne trovavano neanche al mercato nero. Colsi l’occasione e gli dissi che li avrei potuti trovare ma che c’era bisogno di tempo, se mi avesse lasciato il numero di telefono avrei potuto procurarglieli. Il mio cuore batteva all’impazzata. Mi diede il numero e l’indirizzo con un sorriso appena accennato e sparì dalla porta. Nei giorni che seguirono mi procurai quello che stava cercando, lo chiamai e ci demmo appuntamento al negozio, verso l’orario di chiusura.
Fu fin troppo facile, lo portai nel retrobottega e gli dissi che sapevo chi fosse. Lui sbiancò, cercando di convincermi che avevo sbagliato persona, allora gli sussurrai la frase in tedesco che pronunciava più spesso, e che era sinonimo di percosse e torture: “Der letze, der in die Baracke eintritt….”. Con un filo di voce completò la frase: “…muss Pfand bezahlen”. “L’ultimo che entra nella baracca…deve pagare pegno”.
Fu facile sopraffarlo: con gli anni avevo ripreso peso e mi ero irrobustito, mentre lui era parecchio dimagrito e non faceva più esercizio fisico. Le mie dita affondarono nel suo collo e lo tennero stretto finché smise di muoversi. Avevo anche pensato a come liberarmi del cadavere, ma non voglio scendere in dettagli. Sappi solo che se vorrai ritrovare il corpo di tuo padre non ti sarà possibile.
Dopo che i vostri vicini di casa diedero l’allarme si scatenò per tutta Buenos Aires una caccia all’uomo per ritrovare tuo padre. La notizia fu riportata da tutti i giornali, i titoli parlavano della misteriosa sparizione del Barrio di Puerto Madero. Io leggevo avidamente tutti gli articoli, alla ricerca di un eventuale testimone che avesse potuto vederlo mentre entrava nel mio negozio, ma non si trovarono testimoni attendibili o tracce che potessero portare a me. Ma lessi di te, il bambino di sette anni figlio dell’uomo scomparso, orfano di madre ed ora anche orfano di padre. Senza parenti che potessero prendersi cura di te, finisti all’orfanotrofio.
Fu lì che ti trovai dopo due mesi dal fatto: triste e solo sedevi in un angolo, con quei bei capelli biondo scuro e quegli occhi tristi e grandi. Gli stessi occhi di tuo padre, la stessa tristezza dei miei. Fu lì che presi la mia decisione: prenderti con me. Le suore del convento, cui portavo periodicamente delle provviste e che mi conoscevano bene, non ebbero problemi ad acconsentire che ti portassi a casa nonostante non fossi sposato, definendomi un angelo del paradiso. Se solo avessero saputo.
Crescesti bene, figlio mio. Forte, buono, spaventosamente intelligente. Non riuscii più a batterti a scacchi da quando avevi dieci anni, è il mio unico cruccio. Col passare degli anni avevo quasi rimosso le circostanze che ti portarono a vivere con me, ed in seguito ad adottarti legalmente dopo che Rosita era entrata nelle nostre vite, con la prepotenza e la dolcezza che solo una donna argentina può avere. Ridemmo insieme al matrimonio, piangemmo insieme al suo funerale. Non riesco ancora adesso a perdonare l’automobilista ubriaco che la uccise, anche se rimase ucciso pure lui nello schianto.
Ed ora che la vita mi sta abbandonando, sento il bisogno di confessarti tutto. Perdonami per essere stato codardo e per non avertelo detto a voce, ma ci sono cose che ancora adesso non riesco ad affrontare.
Non l'ho mai raccontato a nessuno, ma era giusto fartelo sapere. Addio, figlio mio.”
Miguel prese la lettera, la piegò con cura e la ripose tra le mani del padre. Adesso sapeva tutta la verità ma non gli importava. Era diventato suo padre e l’aveva amato con tutte le sue forze, l’aveva portato via da un padre biologico che nei suoi ricordi di bambino appariva freddo e a volte spietato. Pensò che Augusto Lorenzin, un veneto approdato in Argentina in cerca di una nuova occasione, la vita gliel’aveva salvata.
Beppe Carta
Non l’ho mai raccontato a nessuno nemmeno al mio amico immaginario. Sì, ho un amico immaginario. Per l’esattezza da circa 23 anni e so già cosa stai pensando. Non sono pazza. A lui confido sempre tutto: paranoie, scleri improvvisi, brutte parole. Spesso mi ritrovo a passeggiare avanti e indietro per la casa mentre aspetto il caffè salire nella moka o cerco ispirazione per uno dei miei articoli. Inizio a farmi dei discorsi degni di una sceneggiatura con botta e risposta, possibili comparsate e colpi di scena. Come se qualcuno potesse replicare, ma in realtà quella che replica ad ogni battuta sono sempre io. Sono capace di rimproverarmi da sola e subito dopo chiedermi scusa. Credo che vedere dall’esterno questi siparietti sia quasi divertente. Potrei avere un futuro da comica. Questa volta, però, è diverso. Non posso pronunciare a voce alta quello che sto custodendo gelosamente nella mia testa con la speranza che il cuore non possa percepire nulla. Ogni volta che capta una nuova emozione inizia a battere nella speranza di farsi sentire e ora non è proprio il caso di dare spettacolo di egocentrismo. Non dopo tutto questo tempo. Non sono pronta alle possibili conseguenze nell’ammettere di aver preso in giro tutti e sentirmi dire che devo
andare avanti. Effettivamente davanti alle carte di separazione consensuale, firmate da entrambi, cosa pretendo ancora? Il caffè, ho dimenticato il caffè sul gas. Sono il solito disastro.
Sabrina Marchetti
Non l’ho mai raccontato a nessuno ma lo farò ora. Non so andare in bicicletta. Sono un’adulta che, se ci provasse ora, avrebbe ancora bisogno delle rotelle. Vi sembra imbarazzante? Lo è.
Ho vissuto dagli zero ai 7 anni con i piedi felicemente piantati a terra. Poi, un lontano 25 dicembre di tanti anni fa, sotto l’albero di Natale trovai una bici. Regalo dei miei zii. Da quel momento, i piedi sarebbero dovuti finire su due pedali.
L’entusiasmo per l’inaspettato dono durò poco. Precisamente fino a quando, pochi giorni dopo, i miei genitori investirono mia sorella, 8 anni più grande di me, dell’onere di mettermi sul sellino e spingermi verso un luminoso futuro da ciclista.
L’infelice esperimento ebbe luogo in cortile e durò pochi minuti. Finì rapidamente con una bimba frustrata e in lacrime e una ragazzina al limite dalla crisi isterica. La piccola fifona tornò a casa dichiarando che a lei non interessava imparare ad andare in bici.
Io, ovviamente, avevo paura di cadere e farmi male.
Mia sorella, di soli 15 anni, non aveva la pazienza e l’autorità necessarie per imporsi e riuscire nell’impresa. I miei genitori – lavoratori incalliti, appartenenti alla generazione che vestiva nutriva, amava i figli ma sicuramente non li accompagnava ai giardinetti – misero la bicicletta in cantina e ritennero la faccenda chiusa.
E sarebbe anche andata bene così se, con gli anni, la vicenda non si fosse trasformata in un simpatico aneddoto famigliare. Il cui titolo più o meno era: “Quant’è imbranata la nostra secondogenita. Ah ah ah grasse risate”. Tirato fuori periodicamente per anni, anni e anni. Fino a quando decisi che era giunto il momento di indicare a tutti il grassoccio elefante che stazionava in cucina con noi dai tempi della mia infanzia, e che i miei genitori si ostinavano ad ignorare.
“Io sarò anche stata imbranata e fifona” dissi loro. “Ma voi prima avete scaricato la responsabilità su mia sorella. Una ragazzina. E poi avete lasciato decidere una bambina di sette anni, bambina a cui non facevate mai decidere un cazzo, solo perché eravate troppo pigri, stanchi o in fondo non ve ne fregava nulla, per alzare il culo un sabato pomeriggio e insegnarmelo voi”. Fu solo in quel momento che vidi riflesso il pachiderma negli occhi dei miei.
L’elefante così sparì e, insieme a lui, il simpatico aneddoto.
Che sia chiaro: i miei genitori, per il resto, sono quasi perfetti e io, effetti, sono un po’ rancorosa. Però, quando finalmente sputo il rospo, anche a distanza di enne anni, mi sento meglio e solo a quel punto sono pronta ad andare avanti. Con rotelle o meno.
E questo no, non l’avevo proprio mai raccontato a nessuno.
Jane Pancrazia Cole