Cerco tra gli scaffali il regalo giusto per il compleanno di Billy, il figlio settenne dei vicini.
Mi aggrappo alla speranza che un buon libro tenga buono quell'indemoniato per qualche ora.
"Harry Potter and the Philosopher's Stone".
Un maghetto occhialuto. Speriamo gli riesca la magia.
(1997)
Quando mi danno l'annuncio sto fumando la mia pipa.
"Congratulazioni Presidente!"
"Grazie, una partitina di scopone scientifico per festeggiare?"
(1978)
La folla.
Una testata.
L'arbitro non vede.
Un'altra testata.
I flash. La rabbia.
L'adrenalina. La rabbia.
Il sangue. La rabbia.
Un morso. Gli ho dato un morso solo. Quante storie per un morso solo.
(1997)
Pancraziuccia vostra una ne fa e cento ne pensa.
O era il contrario?
Vabbè, non voglio perdermi in chiacchiere anche se, come ormai avrete capito, gli sproloqui senza costrutto sono la mia specialità.
Desidero solo annunciarvi che, presa da un'insana e inutile smania di fare, ho realizzato una versione scaricabile di Pancrazia in Berlin.
Se ne sentiva proprio la necessità, nevvero?
Volete regalare il resoconto delle mie avventure berlinesi a vostra nonna che ha un ebook reader ma non un accesso a internet?
Scaricatelo!
Volete portare il malloppone sempre con voi pure dove non c'è campo?
Scaricatelo!
Sognate da sempre d'inserire questo capolavoro della letteratura moderna tra i vostri ebook preferiti, stretto stretto tra "Guerra e Pace" e "Cent'anni di solitudine"?
Ora potete farlo: scaricatelo!
Sì, lo so che la copertina è tristerrima. Abbiate pazienza: sono alle prime armi ma col tempo migliorerò.
Vi stupite? Non penserete davvero che, una volta scoperto questo nuovo giochino, lo lasci perdere tanto in fretta? E la mia tendenza alla monomaniacalità dove la mettete?
Ovviamente è kostenlose...aggratis!
Scaricatelo!
In ritardo. In ritardo come sempre. Brucio almeno un paio di rossi per arrivare in tempo all'aeroporto. Per fortuna ce la faccio: non perdo l'aereo e riesco a partire per Palermo.
Non ci arriverò mai.
(1980)
Oggi svelo il terzo segreto. Le interpretazioni si sprecano.
(2000)
Scelsi la Basilica del Sacro Cuore per caso, ma anche per calcolo.
Era un monumento relativamente vicino a dove stavo turisticamente sfaccendando. E, inoltre, non era tra quelli catalogati come "troppo importante per essere visto da sola".
Spiego meglio il concetto: non aspettare il mio ex per vedere la Tour Eiffel o Notre Dame mi pareva poco gentile, persino considerando l'abbandono estivo. Ma andare a vedere il Sacro Cuore, mentre lui era ancora in viaggio, non mi sembrava un grande sgarbo.
Quindi, a pomeriggio ormai inoltrato, m'incamminai serena verso la mia meta.
Non conosco la situazione attuale, ma a quei tempi lungo le scale che portano alla Basilica stazionavano molti immigrati che, tra una chiacchiera e un sorriso, tiravano su qualche soldo intrecciando braccialetti intorno al polso dei turisti di passaggio.
Io, allocca per natura e turista sfaccendata per vocazione, ai primi scalini venni intercettata dalle chiacchiere e il sorriso contagioso di un ragazzetto con gli occhi buoni. Non ricordo da dove venisse, ma ricordo il suo discreto italiano e la sua storia uguale a quella di tanti altri. Sbarcato in Italia, era rimasto nel nostro paese il minimo indispensabile, per poi raggiungere la sua famiglia in Francia.
Chiacchierammo e ridemmo per qualche minuto, poi lo salutai da orgogliosa proprietaria di un esile braccialetto di filo nuovo fiammante.
Arrivata a metà strada mi venne incontro un altro ragazzo molto più alto e meno sorridente del precedente. Io, istintivamente, cercai di evitarlo: non avevo mica intenzione di finanziare tutti gli intrecciatori di gioielli del Sacro Cuore! Ma lui mi bloccò la strada e mi afferrò il polso. Stretto.
Era grande, forte e puzzava. Puzzava di alcool. Ricordo soprattutto questo. L'odore acre dell'alcool. E la paura. La paura istintiva che mi prese. La paura nata da quelle dita salde e quell'odore. Quell'odore che significava mancanza di controllo e violenza.
Da quel momento ebbe inizio il nostro scontro di volontà.
Io, da una parte, mi divincolavo.
Lui, dall'altra, mi tirava in disparte.
Io da una parte. Lui dall'altra.
In mezzo alla folla ma soli.
Sola.
Sola e sempre più spaventata.
Le mie pupille dilatate dal panico. Il suo sguardo liquido e sfocato dall'alcool.
La mia bocca aperta ma senza voce. La sua a biascicare incomprensibili parole in francese.
Alla fine, con un ultimo strattone, ebbi la meglio sulle sue dita sbronze. Sfuggii alla presa e mi allontanai velocemente.
Com'è triste Parigi.
O, meglio, com'è triste il mio ricordo di Parigi.
Una città meravigliosa il cui nome per me risveglia, però, prima di ogni altra cosa, quella paura e quella puzza.
Risveglia lo spavento. E la rabbia per tutti coloro che stettero a guardare indifferenti.
Nessuno di loro intervenne. E ciò sarebbe quasi accettabile. Io, del resto, non chiesi aiuto. Non ci pensai nemmeno, troppo concentrata com'ero nel cercare la fuga. L'istinto della fuga è innato. Quello del chiedere soccorso, forse, no. Almeno non in me.
Ma la cosa grave è che nessuno, né parigino né turista, si avvicinò per chiedermi come stessi. Dopo. Non che mi aspettassi gesta eroiche, ma almeno un poco di gentilezza a pericolo scampato.
Eppure mi videro. Mi videro in tanti. Sentii i loro occhi addosso durante e dopo l'accaduto. Soprattutto dopo. Mi guardarono salire le scale sull'orlo delle lacrime. Avevo circa 25 anni. Ne dimostravo 18. Mi guardarono e basta. Una ragazza sola ero. Una ragazza sola rimasi.
Certo, probabilmente non fui mai davvero in pericolo. E io sono solo una gran fifona.
Era giorno. Eravamo in un posto affollato. Ma fino a dove avrebbe potuto spingersi l'indifferenza di quella folla?
Mi fa una gran rabbia che una città come Parigi mi sia rimasta dentro soltanto per questo.
Potrei raccontarvi di quanto mi piacque la tanto criticata tour Eiffel, che io amai dal primo istante. Potrei dirvi come mi girò la testa al Louvre, con tutto quello che c'era da vedere, talmente tanto da essere troppo e farmi fuggire rapidamente. Potrei farvi il resoconto dettagliato della riappacificazione con l'ex tedesco, riappacificazione che si risolse nella più classica e sciapa minestra riscaldata. Potrei regalarvi un sorriso col mio tragicomico viaggio di ritorno, condotto con 40 gradi di febbre, due confezioni maxi di fazzolettini, l'orrore negli occhi degli altri passeggeri, e la vocazione da untrice manzoniana.
Potrei.
Eppure, appena mi nominano Parigi, nonostante tutto, nonostante la bellezza e la magia, il primo ricordo che mi affiora nella testa è quello della mia disavventura al Sacro Cuore. E' la puzza d'alcool. E' l'indifferenza della gente. Gente proveniente da tutto il mondo, sia ben chiaro. Questa non è un'accusa ai francesi e tanto meno alla loro meravigliosa capitale. Sfondo inconsapevole di una scena che avrebbe potuto verificarsi ovunque. Uguale.
E tutto ciò è triste. Com'è triste.
Fine.
Ballo e marcio al San Francisco pride. E per la prima volta faccio sventolare la bandiera arcobaleno.
(1978)
Dico di aver visto Kraljica Mira. Dico.
(1981)
Tutto il mondo conosce il mio impermeabile. Il mio sigaro. E persino il mio occhio di vetro.
Tutto il mondo sorride quando rifletto grattandomi la testa.
Sono un attore. Un commediante. Un pazzo. Un barbone. Un malato.
Tutto il mondo sa chi sono.
Tutto il mondo tranne me.
E ora cala il sipario.
(2011)
Non sono stato io. E' stata la Mano di Dio.
(1986)
"L'ho fatto per Jodie. Per dimostrarle il mio amore", dice John.
"Non colpevole per incapacità di intendere e volere", risponde la Corte.
(1982)
Prendiamo posto nella sala buia.
Biglietti, pop corn, e caramelle gommose. Non ci manca niente.
"Non mi piacciono i film musicali: sarà una noia!"
"Ma che dici? Belushi è uno forte!"
(1980)
Apro il giornale e, per la prima volta, ci trovo un gatto. Si chiama Garfield.
(1978)
Non ero mai stata nella capitale francese e l'occasione mi parve perfetta per rimediare alla grave mancanza. In questo modo, anche se non mi fossi rimessa col maschio volubile, avrei approfittato comunque dell'infelice momento per visitare La ville lumière.
Del resto, la praticità in certi frangenti non mi ha mai fatto difetto.
Il tempo per piangere e disperarmi l'ho sempre trovato. Ma anche quello per cavar qualcosa di buono da ogni situazione.
Arrivai in città di pomeriggio. Scesi dal TGV e vissi in solitudine il mio primo approccio con Parigi.
"Il mio amato bene", nel frattempo, affrontava la transumanza dalla Germania alla Francia in autobus. Stretto tra passeggeri molesti, rumorosi e maleodoranti. Allietato dalla vicinanza di un bambino iperattivo e della sua trombetta. Trombetta che,
ovviamente, risuonò gioiosa per tutto il tempo.
Che si sappia, se spezzi il cuore di
Pancrazia in un bar dell'isola di Krk, mentre ella sta sorseggiando tranquillamente una bibita e quasi rischia di strozzarsi per la sorpresa e il dolore, il
minimo che ti possa capitare è che il destino cinico e baro ti presenti il
conto. O almeno t'infastidisca un poco.
Che si sappia, a futura memoria di chiunque decida di ritentare l'impresa.
In attesa dell'arrivo del mio compagno di vacanza, mi tuffai nella capitale francese con molti dubbi e una certa ansia. Il fatto di non conoscere la lingua indigena mi faceva sentire in difetto e inadeguata, talmente tanto che anche le cose più semplici mi parevano complicatissime.
Fu per questo motivo che ci misi 30 minuti per decidere quale linea di metropolitana prendere.
Fu per questo motivo che per 30 minuti studiai la mappa dei treni regionali scambiandola per quella della viabilità urbana.
Fu per questo motivo che per 30 minuti ebbi lo sguardo vacuo di una mucca a un passaggio a livello.
Superata questa prima impasse, raggiunsi l'albergo. Un'infima bettola. Legai un vezzoso foulard al collo. Molto francese. E mi buttai alla scoperta delle strade parigine. Et voilà.
Girai viali e viuzze, con il naso all'insù o il naso all'ingiù, con calma e con capriccio.
Feci la turista sfaccendata. Il mio tipo prediletto. Quella che ha solo una vaga idea di cosa farà, di cosa vedrà, di dove andrà e, seguendo l'ispirazione del momento, manda i piedi in avanti e prende confidenza col luogo. Manda i piedi in avanti e ad ogni passo si sente un poco più a casa. Manda i piedi in avanti e il cuore a seguire.
Forse avrei dovuto continuare a sfaccendare allegramente. E questa storia sarebbe stata diversa.
Invece decisi di prendere la cartina, la distesi ben bene e scelsi il primo monumento da visitare.
Il mio dito indice puntò il Sacro Cuore.
Le Sacré-Cœur.
Continua...
Trovo il corpo sotto il Blackfriars Bridge.
Suicidio. Dicono.
(1982)
Andai a Parigi molti anni fa.
L'occasione fu unica.
Il mio ex tedesco non aveva trovato niente di meglio che mollarmi durante le nostre vacanze estive in Croazia, per poi pentirsi un minuto dopo il ritorno nelle rispettive patrie, e iniziare una lenta e inesorabile manovra di riavvicinamento.
Ne erano seguite una serie infinita di telefonate fiume e trattative diplomatiche, degne di un summit mondiale per la legalizzazione dell'allevamento della cinciallegra zoppa o di una riunione familiare pre-natalizia per decidere vicino a chi far sedere lo zio con la fiatella.
Dopo tante parole, innumerevoli promesse e un patrimonio di scatti alla risposta, io decisi unilateralmente:
"Ci vedremo in autunno. Torneremo assieme o ci lasceremo per sempre"
"Vengo io da te?", chiese lui, disponibile e servizievole come solo uno macchiatosi della colpa di averti mollata durante le vacanze può essere.
"No", gli risposi, "ci troveremo in territorio neutrale"
"Dove?"
"A Parigi"
Continua...
Sono uno dei volti più amati della televisione italiana.
Mi arrestano.
Inizia il calvario di un innocente.
(1983)
Divento presidente dell'Unione Sovietica.
Sono Brežnev.
(1977)
Lo scandalo mi ha travolto.
Mi dimetto dalla carica di sesto presidente della Repubblica Italiana.
(1978)
Ho lavorato alla sua progettazione per anni.
Ho trattenuto il respiro al momento del lancio.
E ora la Pioneer 10 lascia il sistema solare.
Buon viaggio.
(1983)
Mio figlio è sequestrato da 17 mesi.
Io m'incateno sulla piazza di Locri.
(1989)
Sono una parlamentare norvegese.
I miei colleghi ed io abbiamo appena approvato una legge che legalizza il matrimonio fra persone dello stesso sesso.
(2008)
Mi chiamo Thomas Sutherland.
Sono preside della facoltà di
agronomia dell' Università Americana di Beirut.
Oggi vengo rapito
dalla Jihad.
Verrò liberato 2353 giorni dopo.
(1985)
Quando non si scrive per un po' di tempo le dita si arruginiscono, i pensieri si confondono e anche l'umore peggiora.
Io scrivo tutti i giorni. Scrivo per lavoro e per diletto. Scrivo di cose interessanti e di cose di cui non mi frega nulla. Scrivo. Scrivo. Scrivo.
Ma sono quasi due settimane che non scrivo un post sul blog.
Certo, continuo ad aggiornare Il Mio Progetto, ma quello è altra cosa.
Ciò che non scrivo da quasi due settimane è un post di quelli in cui racconto cosa mi è successo oggi, ieri o vent'anni fa.
Un post in cui sproloquio allegramente o approfondisco pesantemente.
Un post dove filosofeggio o psicanalizzo.
Insomma, un normale, banalissimo, post alla Pancrazia.
Dopo quasi due settimane in cui il lavoro, la casa nuova, la febbre e i timidi tentativi di avere una vita sociale degna di essere vissuta hanno avuto la precedenza, oggi ho deciso finalmente di riprendere in mano la penna, o meglio di riprendere a pigiare sulla tastiera.
E appena ho deciso, ovviamente, nel mio cervello si è creato il vuoto pneumatico.
Nessuna idea nuova.
Nessuna idea vecchia.
Nessuna idea. Punto.
Faceva tutto schifo.
Gli appunti sparsi? Porcherie.
I racconti appena abbozzati? Abomini.
Gli spunti scritti negli angoli di vecchie agendine? Deliri di una folle.
I miei neuroni oggi non si parlavano tra loro. E anche se lo avessero fatto, probabilmente, si sarebbero solo insultati.
Ma, nonostante tutto ciò, io non mi sono arresa.
Alla faccia del BloccoDelloScrittore, ignorando lo SpietatoCensoreInterno, ho scelto di fare l'unica cosa che può funzionare in questi momenti: ho aperto una pagina bianca e ho cominciato a scrivere senza pensare.
Senza pensare a quanto fosse inutile questo post.
Senza pensare alle critiche interne e neanche a quelle esterne.
Senza pensare alla necessità di mettere giù "qualcosa di veramente buono".
Senza pensare. Ma con l'unico obiettivo di rimettermi a camminare lungo questa strada. Un passo dopo l'altro. Una parola dopo l'altra. Prima piano. Poi sempre più velocemente.
Perché la scrittura è così. Per me è così. All'inizio mi sembra di dover affrontare una salita con una pendenza impossibile. Poi mi ritrovo a ridere, mentre rotolo giù da una collina ricoperta da erba alta e soffice.
Che poi magari quello che ho scritto, a rileggerlo, fa schifo.
Ma non importa.
Ci sarà sempre tempo e modo di scrivere qualcosa di meglio.
Intanto conservo i quadrifogli rimasti impigliati tra i ricci, faccio tesoro degli ultimi scoppi di risa ingiustificati e incomprensibili ai più, e mi rimetto a lavorare di buona lena. Nuovamente carica di energia e voglia di fare.
E voglia di scrivere. Ancora.
Nasco oggi.
Sono il Telefono Azzurro.
(1987)
Sono in piazza a Padova.
Vedo Enrico stare male.
Fa fatica a parlare, tossisce, si aggrappa al leggìo.
Quattro giorni dopo muore.
(1984)
Mio padre è Alexey Pajitnov. Ma a credere in me è soprattutto Henk Rogers.
Nasco oggi e faccio giocare un'intera generazione.
Mi chiamo Tetris.
(1984)
Stendo un comunicato ufficiale: cinque giovani californiani gay sono affetti da un
rarissima forma di polmonite.
Un anno dopo nasce l'AIDS.
(1981)
Ho solo 41 anni e sono all'apice della carriera.
Il mio cuore si ferma dodici ore dopo l'ultimo ciak de "Il Postino".
(1994)
Siamo più di 10.000. Siamo studenti. Stiamo protestando in piazza da quasi 50 giorni.
Noi siamo a mani nude. Il nostro governo ci manda contro i carri armati.
(1989)
Da oggi riprendono ufficialmente a festeggiarmi.
Sono io: la Repubblica Italiana.
(2000)
Accendo la televisione.
Un nuovo canale inizia le sue trasmissioni. Si chiama Cable News Network. CNN.
(1980)