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Siamo giunti a metà strada nel doppio calendario dell'avvento pagano.
In ritardo? Of course!

Con il post meno cinque si celebra un altro progetto che ha caratterizzato il 2014 di questo blog: "Un marito per caso e per disgrazia".
Capitolo dopo capitolo, post dopo post, vi ho raccontato la storia di Adelina, Augusto e tutto il familiare cucuzzaro.

Un libro online che cominciò così:
Prologo.
Ogni mattina mi sveglio presto, tiro su i capelli come piacevano al marito mio, metto l’acqua di colonia dietro agli orecchi e piano piano, con la pioggia o con il sole, mi trascino fino a qua.

Tra le pietre, le fiammelle e gli alberi dritti, siamo sempre le stesse quattro facce: un gruppo di vecchi così rimbambiti che non c’è manco gusto a parlarci assieme.
(Continua...)

Non l'avete mai letto e intendete cominciare? L'avete letto ma vi è venuto un inspiegabile desiderio di rifarlo? Bravi! Già che ci siete, se qualche link tra un capitolo a l'altro non dovesse funzionare, vi dispiacerebbe lasciarmi un messaggio di avvertimento? Così mi evito la scocciatura di ricontrollarli tutti. Grazie.
Sono una blogger pigra e approfittatrice? Sì, lo sono.

NdA: Buona lettura!
Ogni mattina mi sveglio presto, tiro su i capelli come piacevano al marito mio, metto l’acqua di colonia dietro agli orecchi e piano piano, con la pioggia o con il sole, mi trascino fino a qua.

Augusto ed io siamo stati sposati quasi sessant’anni.
Ed io racconto la storia nostra da sempre, prima alle nuore ed adesso alle nipoti. Loro sospirano e sognano per questi due innamorati bruttarelli che si sono trovati a dividere una vita intera per caso e per disgrazia. Una storia così non c’avrebbe mai posto nei libri di favole o al cinematografo. Una storia così può esistere solo nella vita vera.

Augusto ed io abbiamo cresciuto assieme sei figli: Sandro, Enrico, Luciano, Donato, Cristiano e Felice. Abbiamo messo assieme un esercito di maschi rumorosi e disordinati, ma onesti e tutti grandi lavoratori. Ad occuparmi della casa e di quel branco di selvaggi delle volte mi sono sentita peggio d’ una schiava, ma poi a guardarli negli occhi uno ad uno sono stata orgogliosa come una regina.
Io per loro, per tutti loro, sono sempre stata “mamma Adelì” e lui “lu Babbo”.

Pochi anni dopo la fine della guerra, quando mamma mia s’era già sdraiata vicino a Lucia, abbiamo cercato fortuna in città, che la poca terra che avevamo ed il ricamo non bastavano più per dare da mangiare a tutte quelle bocche.
I ragazzi li abbiamo mandati a scuola, dal primo all’ultimo, e mentre loro studiavano anch’io, con l’aiuto dei più grandi e di Augusto, ho finalmente iniziato a leggere. Non mi sono certo fatta dottoressa o scienziata ma almeno un poco meno ignorante. Ora è normale e non ci si rende manco conto di quanto sia importante. Che delle volte, a non saper leggere e scrivere, ci si sente come ciechi e sordi. O peggio ancora ci si sente stupidi.

Ma non voglio star qua a raccontar frottole. Il matrimonio nostro non è stata mica perfetto ed anche Augusto, purtroppo, c’ha avuto le debolezze sue e qualche porcheria me l’ha fatta. Che, già ve l’ho detto, i maschi so fiacchi e prima o poi ce cascano tutti. Come quella primavera del ‘62 quando gli arrivò una nuova collega in fabbrica. Una svergognata, di sicuro. Io ho passato mesi a far finta di niente e foderarmi gli occhi e li orecchi col prosciutto. Lui faceva tardi dal lavoro, aveva sempre la capoccia da un’altra parte e di tempo per me non ce ne aveva più. Non so cosa sia successo e non lo voglio manco sapere, ma un giorno di luglio Augusto tornò a casa in orario e ricominciò finalmente a guardarmi come faceva prima. Non ci fu bisogno di dirsi niente e da quella sera tutto tornò normale. E tornammo ad essere due sposi che dormivano vicini ed intrecciati per freddo, abitudine, ma anche per amore.

Non mi piace parlare di quella vecchia storia ed alle ragazze non l’ho mai raccontata, che certe cose riguardano solo me e lui, nessun altro. Augusto è tornato da me e questa è l’unica cosa importante. L’estraneo di quei pochi mesi non lo voglio manco ricordare. Preferisco pensare a quel vecchio rugoso che in ospedale, di fronte alle bimbe appena nate di Luciano, mi sussurrò con gli occhi lucidi: “Ce ne hanno messo de tempo, ma finalmente le gemelline so arrivate.”  Quelle bambine belle, sane e perfette furono come il miracolo che tutti noi aspettavamo da sempre, e per il battesimo loro le mogli di Sandro ed Enrico gli prestarono i vestitini fatti da Lucia mia. Da Lucia nostra.

I ragazzi si sono sparpagliati per tutto il mondo, mentre noi, con la pensione, siamo tornati a vivere al paese in un appartamento al primo piano con un bel terrazzino per stare all’ombra e respirare l’aria buona. Ed ogni estate abbiamo insegnato ai nipotini nostri ad arrampicarsi sugli alberi, tirare con la fionda e sputare i noccioli delle cerase.

Sessant’anni sono così tanti che alla fine non ti ricordi neanche com’era la vita tua prima. Ti sembra che debba continuare così per sempre e che un giorno passerai al Creatore assieme al marito tuo, a braccetto, come quando andavate a passeggio la domenica. Ma non succede quasi mai purtroppo. Di solito uno dei due se ne va prima e lascia da solo l’altro.

Una mattina mi svegliai all’alba, la stanza era buia e tranquilla, ma c’era qualcosa che mi dava fastidio.
Nella nostra camera da letto non c’era mai silenzio. Augusto russava, ma non russava mica in maniera normale. Soffiava, sbuffava, grufolava, uno poteva stare ad ascoltarlo per ore senza annoiarsi mai. Ma quella mattina no, quella mattina era come se nella stanza non ci fosse più.
Mi girai a guardarlo e lui era lì. Immobile.
“Augù, ma che fai? Nun sarai mica morto? Dai nun scherzare, Augù”.
Che cosa stupida da dire: Augusto mio non avrebbe mai scherzato su una cosa così. Non un’altra volta.
Era proprio morto. Morto stecchito.

Ma che si more cuscì? Senza avvertire? Senza darmi il tempo di salutarti? Di dirti quanto bene ti ho voluto e quanto mi hai fatta felice?

Vengo qua tutti i giorni per dirtelo, Augù, sei stato la vita mia.


Fine.

N.d.A. La storia di Tizzoncino, il cui titolo originale è “Spera di sole”, fu scritta da Luigi Capuana(1839-1915) ed è contenuta nella raccolta “Si conta e si racconta”(Muglia Editore, 1913; Pellicanolibri, 1985).


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Non dimenticherò mai la prima notte di nozze. Me ne stavo accucciata sotto le coperte, aspettando lo sposo mio con lo stesso animo di uno che sta nella sala d’aspetto del dentista: un poco c’avevo voglia di scappare ed un poco di farmi cavare subito sto dente e non pensarci più.
Quando finalmente lui mi raggiunse, si sdraiò accanto a me e, senza dire manco una parola, si voltò dandomi le spalle.
“Notte, Adelì.”
“Notte, Augù.”
Dopo cinque minuti già russava come un trattore.
Forse era nervoso come me oppure l’aria spaventata mia gli aveva fatto passare tutte le voglie. La verità non me l’ha confessata mai e io non ho mai avuto la faccia di chiedergliela neanche dopo tanti anni. Ma fatto sta che, per quella sera e molte altre a venire, Augusto decise di non far rispettare i diritti suoi da marito.
Ero cresciuta in campagna in mezzo agli animali e più o meno lo sapevo come funzionavano certe cose. Ma una donna non è mica una giumenta e mamma mia s’era ben guardata dal darmi qualche spiegazione un poco utile. Che, comunque, ai tempi miei il massimo che ti diceva una madre prima dello sposalizio era: “Sta ferma e fa fare tutto allo marito tuo. Che prima inizia, prima finisce.”

La relazione tra me ed Augusto non era mai stata intima, non ci eravamo mai corteggiati né baciati, figurarsi fare altro.
Di fronte al Signore ed allo Stato eravamo marito e moglie ma tra di noi continuavamo a comportarci come prima. Eravamo parenti, stavamo diventando pure amici, ma ce ne sarebbe ancora voluto del tempo per diventare amanti prima ed innamorati poi.

I bambini invece rifiorirono subito, meglio degli alberelli a primavera. Il matrimonio era stato celebrato per il bene loro ed infatti furono loro a goderne subito i vantaggi più di chiunque altro. Stavano tornando ad essere sereni sia di giorno che di notte. Erano felici di avere la nonna e la zia sempre a casa. Delle volte però capitava ancora che al buio la paura si facesse troppo grande ed allora si presentavano tutte e due in camera nostra, mano nella mano, con le canotte che gli arrivavano ai ginocchi, i nasi che colavano e le guance sporche di pianto. Così belli e dolci da mangiarseli di baci.
Mia madre dormiva sopra un lettuccio nella stanzetta loro, ma aveva il sonno pesante e non si accorgeva di niente. Invece io sentivo i piedini ignudi sul pavimento già dal corridoio. Alzavo le coperte e senza dire una parola li facevo subito intrufolare nel lettone, che tanto di spazio ce n’era in abbondanza. Altro che due bambini, i primi tempi Augusto ed io dormivamo così distanti che in mezzo ci sarebbe potuto stare comodo pure un asino bello grasso.

Ma giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, cominciammo a cercarci. Era la natura che ci chiamava. Se metti due giovani e sani, con tutte le cose al posto giusto, sotto lo stesso tetto e addirittura a dividere il medesimo letto è normale che la carne si risvegli. Sia quella d’Augusto che, dopo il dolore ed il lutto, sembrava finalmente ricordare la vita con i piaceri suoi. Sia la mia, che certe sensazioni ancora non le conosceva ma diventava ogni giorno più curiosa.
Delle volte, mentre lavavo le stoviglie o stavo accucciata a strofinare il bucato, mi sentivo lo sguardo di Augusto addosso. Erano solo attimi ma bruciavano come il carbone nella stufa. Quegli occhi scuri seguivano la curva abbondante dei fianchi miei o l’ondeggiare dei seni. All’inizio sembrava un ragazzino che spia dal buco della serratura ma poi divenne sempre più sfacciato. Ed io, ogni volta che incrociavo gli occhi suoi, mi sentivo tutta scombussolata come dopo una sorsata di vino caldo.

Augusto con gli occhi mi accarezzava e delle volte perfino mi spogliava, ma con le mani non mi toccava mai. Teneva quelle grandi mani sue, chiuse a pugno, dentro le tasche.
“Cuscì nun me venivano tentazioni”, mi confessò anni dopo.
Bravo. A lui non gli venivano tentazioni, ma a me continuavano a venire sempre più spesso certi pensieri strani, che a ricordarli adesso ancora mi faccio rossa come un pomodoro maturo. Mi sentivo così confusa che, se non fosse stato per la paura di essere rifiutata o di fare una brutta figura, gli avrei buttato le braccia al collo come avevo fatto con Gino. E al diavolo tutto!
A letto la distanza si faceva ogni giorno più piccola e delle volte eravamo così vicini da sentire l’uno il calore dell’altra. Fino a quando una notte la mano di Augusto si appoggiò sul fianco mio. “Si sveglia, Adelì?”, mi chiese con una voce bassa e profonda, di quelle che senti più con la pancia che con gli orecchi. Io non ebbi manco il tempo di rispondere, che dal corridoio si avvicinarono due paia di piedi scalzi.
Lui, bofonchiando una bestemmia, si girò dall’altra parte e si rimise a dormire ed io, sospirando delusa, feci salire le due pesti sul lettone. Quella fu la prima notte in cui il materasso divenne troppo piccolo per tutti e quattro.

Poco tempo dopo in paese si scatenò la festa.
Era l’estate del ’44, quando una lunga fila di camion occupò lo stradone principale come una grossa biscia. Sopra, a salutare e far festa, centinaia di giovani in divisa  sorridevano ai bambini ed ammiccavano alle femmine.
“So arrivati li americani!”, urlavamo tutti.
Che poi i nipoti miei, che so tutti studiati, m’hanno spiegato che al paese nostro ci sono venuti gli inglesi mica gli americani, ma che ne sapevamo noi a quel tempo lì? Per noi erano tutti uguali: alti, bellocci e non si capiva niente quando parlavano.
Nel giro di pochi minuti ci trovammo tutti per strada. Don Felicino con la tonaca impolverata e gli occhi rossi dall’emozione. I Casotti che ridevano e battevano le mani sognando il ritorno a casa dei figlioli loro. Annamaria che faceva girare la gonna come una bimba. Le ragazze non maritate tutte sorrisi e risatine. Ed i bambini che correvano come pazzi a fianco delle ruote dei furgoni, che erano alte quanto loro e c’era d’aver paura che qualcuno ci restasse sotto.

Quel giorno sembrò l’inizio di una vita nuova e di un mondo nuovo. Tutti noi avremmo ricordato per sempre la fame. Quella vera, che ti toglie la dignità, che ti fa litigare l’erba con gli animali e ti porta a dare la caccia ai ricci, gli uccelletti e perfino i gatti. Che se lo dici adesso la gente quasi te ne dice dietro, perché non lo sa più cosa vuol dire stare male per colpa dello stomaco vuoto.
Noi per anni siamo andati avanti con certe zuppe: tutta acqua e niente sostanza. Ed eravamo pure fortunati, perché stavamo in campagna con un poco di terra e qualche bestia, mentre quelli di città ad un certo punto non c’hanno avuto più manco gli occhi per piangere.

Tutti noi avremmo ricordato i visi e le voci di quelli che rimanevano indietro. Il bell’Emilio, che tornò chiuso in una bara di legno, lasciando la povera Costanza vedova e con tre bambini piccoli. Donato e Cristiano, fratelli di Augusto, morti talmente giovani da non avere ancora manco la barba sulla faccia. Tommaso, che era tanto bravo a fregare i frutti colorati dagli alberi in estate e a cui toccò andarsene in mezzo al freddo bianco e vuoto della Russia, e rimanerci a riposare per sempre, povero amico mio. Ed il signor Mariotti, che non tornò mai manco da morto, e che la famiglia sua piange ancora di fronte ad una targa fatta appendere dal figlio Pino, il primo giorno dei suoi vent’anni da Sindaco del paese.

Ma tutti noi ora volevamo andare avanti.
La famiglia mia aveva avuto la parte sua di disgrazie e dolori e forse anche per noi sarebbe finalmente cominciato un periodo più fortunato e lieve. Mia madre se ne stava da parte, infastidita da tutta quella confusione. Che, ormai, a lei dopo il matrimonio e la certezza di aver sistemato pure la figlia sua piccola ed i nipoti, non le importava più di niente ed aspettava solo, buona buona, di andare a riposarsi accanto a Lucia. Enrico, seduto per terra, s’impiastricciava la faccia con le cerase che gli aveva portato zia Caterina. Sandro era corso chissà dove con gli amichetti suoi.
Un ragazzotto in divisa si lisciò i baffetti sottili e mi strizzò l’occhio: “Bongiorno bela siniorina”
“E’ na signora”, gli rispose serio Augusto, stringendomi la vita con un braccio.
Mi voltai a guardarlo. C’aveva il profilo rigido e lo sguardo di un cane da guardia. Lo sguardo di un marito geloso. Lo sguardo del marito mio.
Il braccio mi stringeva con una presa che negli anni avrei saputo riconoscere pure ad occhi chiusi, ma quel giorno era ancora nuova e mi faceva bruciare la pelle attraverso i vestiti. Lasciandomi confusa e con la capoccia che girava.

Quello fu un giorno di gioia e la sera, complice l’aria di festa ed il vino, Augusto ed io facemmo all’amore per la prima volta. Furono carezze, baci e morsi. Con gli anni avremmo imparato a memoria la danza nostra ma quella prima volta, pure se confusa e faticosa, l’avremmo sempre ricordata con nostalgia.
Con le gambe ancora intrecciate gli sussurrai: “Pure la storia delli sassi era stata n’idea mia.”
“Bene, Adelì, c’hai altro da dirme? Cuscì co stanotte ce togliamo tutti li pensieri.”
“No, me sembra de no. Me sembra che t’ho detto tutto.”
“Bene.”
“Si arrabbiato?”
“No”, mi rispose lui ridendo.
“Ma che te ridi?”
“Gnente, è colpa tua.”
“Colpa mia?”
“Sì, me sa che co te me ne farò proprio tante de risate.”
“E’ na cosa brutta?”
“No anzi è na cosa bella.”

Quella notte, a più di un anno dal sì pronunciato in chiesa, cominciò realmente il matrimonio nostro.

Continua...


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Gli ultimi mesi di lutto sembrarono volare via ed io mi ritrovai la notte prima della cerimonia agitata da mille dubbi e paure che mi si mangiavano da dentro. Mi rigiravo nelle coperte peggio di un polletto allo spiedo, con gli occhi sbarrati ed il cuore che pareva impazzito.
“Che c’hai?” mi chiese mamma mia.
“Gnente”
“Allora dormi”
“Nun so capace a fare la mamma. Nun so come se fa”
“E in tutti sti mesi che hai fatto?”
“Perché volete fare crescere li bambini proprio a me? Solo pe fa sta zitta la gente?”
Per la prima volta diedi fiato alla domanda che mi girava in testa da mesi. Perché io? Il paese era pieno di femmine più adatte di me, più mature, più dolci e pure più belle. Perché Augusto l’aveva chiesto a me? Perché mia madre voleva che i nipoti suoi fossero allevati dalla figlia sua più selvaggia e peggio riuscita.
“Perché sorella tua vorrebbe a te”, fu la risposta.
Io a questo non ci avevo pensato mai e, nel giro di pochi minuti, senza accorgermene, mi addormentai.

Il nostro non fu certo quel tipo di sposalizio che sognano le bambine quando giocano con le bambole. Non fu un giorno di festa ma solo la firma di un contratto che ci avrebbe legati per sempre.
In chiesa c’eravamo solo Annamaria, zia Caterina, la mamma, i bambini, Augusto ed io. A farci da testimoni ci pensarono una delle signore della canonica ed il marito suo. A parte la zia, nessun altro parente dello sposo si presentò, avvelenati che lui scegliesse ancora una volta di legarsi a quei morti di fame dei Carretta.
Non si degnò di venire manco il signor Ottavio. Su Lucia aveva chiuso un occhio, dato che era povera ma “na vera bellezza”, ma su di me no.
“Questa c’ha le caviglie grosse e nun è certo sto granché. A questo punto te potevi sposare Angela: lu fratello mio le lascerà quel bel campo dietro la villa”, aveva commentato quando eravamo andati ad annunciargli le nozze. In quell’occasione Augusto mi aveva trascinata fuori da casa dei Parise, tenendomi per mano e sbattendo la porta.
“Te chiedo scusa pe babbo mio: è na bestia!”
“Nun te preoccupare Augù, nun me so mica offesa. Già lo so de nun essere na bellezza ma almeno io nun ce li ho i baffoni della cugina tua.”

Durante la cerimonia Enrico dormì come un angiolo tra le braccia di mamma mia. Sandro all’inizio rimase tranquillo seduto in un angolo ma poi si alzò e si mise in piedi accanto a me.
“Torna a sederti!” lo sgridò Don Felicino.
“No, lasciatelo stare qua”, replicai io.
“Questo non è il posto suo”
“Si, che lo è”, chiuse serio Augusto.
Al mio “Sì” avevo alla destra Augusto ed alla sinistra Sandrino. Mi ero sposata con tutta la famiglia di Lucia. Ed era giusto così.

All’uscita dalla chiesa mi avvicinai all’orecchio dello sposo mio e gli sussurrai: “Quella volta t’ho detto na bugia”
“Quando?”
“Lu cane, la bonanima de Puzzo, te l’avevo mandato dietro io”
“E perché me lo dici proprio adesso?”
“Mo che siamo sposati me pareva brutto tenere sto segreto”
“E lu gioco dei sassi è stato n’idea tua?”
“N’idea mia? No! Ma che fai scherzi? Che pensi che so cuscì cattiva? Quella è stata colpa de quella carogna de Teo”

Dopo la cerimonia andammo tutti a casa, dove mamma mi fece trovare la tavola apparecchiata con una tovaglia di lino bellissima.
“E questa da dove esce?”
“Dal corredo de nonna Ada. Nun credevo te saresti sposata mai, ma nun me pareva giusto dare tutto a Lucia e a te lasciarte senza gnente, e cuscì te l’ho conservata.”

Un giorno, quando sarò anch’io dall’altra parte, preparerò un buon pranzo per tutti quanti e mangeremo tra i melograni ed i tralci d’uva di quella stoffa meravigliosa. I piatti saranno ricchi, i sapori deliziosi e l’acqua fresca come quella della fontana della piazza. Nonna Ada ci coccolerà tutti come bambini. Mamma sarà serena e sorridente come non l’ho vista mai. Forse ci sarà anche il babbo che, a forza di prendere mazzate dai diavoli, si sarà raddrizzato, diventando finalmente un capofamiglia come si deve. Lucia sarà giovane e bella come l’ultima volta che la vidi. Ed io le chiederò quello che voglio sapere da più di sessant’anni: “Ho fatto bene? E’ stata la scelta giusta? Avresti scelto davvero a me?” e lei, se Dio vorrà, mi risponderà di sì, chiudendo la boccaccia per sempre a quella vocina maligna che ogni tanto, nei momenti più difficili come in quelli più felici, mi ha sussurrato all’orecchio: “Sei na ladra. Questa nun è la vita tua.”
Ed ovviamente a capotavola ci sarà Augusto.
Da una parte quello giovane che aveva fermato Lucia lungo la strada e si era presentato a chiederne la mano a mia madre. Sarà seduto tra le due gemelline e potrà finalmente guardarsele con tutto l’amore del mondo per l’eternità.
Dall’altro lato ci sarà il marito mio. L’uomo diventato vecchio e spelacchiato ma ancora capace di farmi arrossire con una strizzata d’occhio ed un sorriso.


Continua...


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Dopo una giornata così, c’avevo solo una gran voglia di buttarmi nel lettone e dimenticare tutto almeno per qualche ora, ma prima dovevo andare da qualcuno che forse aveva passato un giorno persino peggiore del mio.

Appena si aprì la porta mi trovai davanti l’ultima persona che m’aspettavo: “Che ce fate voi qua, zia Caterina?”
“Le ho portato una zuppa. E tu?”
“Pur’io, ma de sicuro la vostra è meglio”
“La tua la teniamo pe domani, intanto io finisco co questa”, e si rimise ad imboccare Annamaria.
La Pazza se ne stava buona buona seduta al tavolo con un gran fazzoletto annodato al collo. Lei e la zia c’avevano praticamente la stessa età ma l’amica mia, con quella foresta di capelli bianchi e la faccia rugosa come una prugna secca, sembrava più vecchia ancora.

Annamaria mangiò tutto, fino all’ultimo boccone, senza dire manco una parola poi, come le aveva insegnato la Vedova del Dottore, si mise subito a letto.
“La Signora è andata dalli angioli”, mi disse.
“L’ho saputo”
“Pensi che nun torna proprio più, più, più?”
“No, nun torna più”, le risposi, mentre gli occhi suoi diventavano ancora più grandi e lucidi. E per distrarla aggiunsi: “T’ho portato questo, guarda”
“Ma questo è tuo, te l’ho dato io”
“Lo so, ma mo serve de più a te”
Annamaria mi sorrise e poi si ranicchiò nel letto, stringendo il nastro giallo tra le mani sue.
Io mi ci accucciai accanto e l’abbracciai stretta stretta, come avevo fatto tante volte in quei mesi coi piccoli miei: “In un paese tra le montagne ce stava na fornaia co na figlioletta nera come lu carbone”, cominciai.
Quella volta non ci fu neanche bisogno che arrivassi alla fine perché l’amica mia, stracca e triste, si addormentò molto prima.

“Sei brava a raccontare le storie”, mi disse zia Caterina.
“Ne so solo una, racconto sempre la stessa”
“E’ na bella favola. Come finisce?”
“Tizzoncino e Reuccio se sposano. Annamaria dice che fanno pure na bambina. Pe Sandro ed Enrico invece fanno du bei maschietti e Reuccio ammazza n orso cattivo co la spada sua.”
Ormai era ora che me ne andassi ma prima le chiesi: “Ce pensate voi adesso a lei?”
“Sì, l’ho promesso alla madre mia”
“Alla madre vostra?”
“Prima de morire m’ha fatto promettere che, dopo la Vedova del Dottore, c’avrei pensato io ad Annamaria”.

E la zia Caterina mi raccontò finalmente tutta la storia. O almeno tutto quello che avevano raccontato a lei, che certi segreti se li sarà portati nella tomba la Strega e là ci rimarranno per sempre.
Una storia che pare una favola, dove ci sta tutto: l’amore, la morte, i cuori cattivi, quelli boni e pure lo dimonio con tutto l’inferno suo. Una storia con un principe, una principessa, un re prepotente e due fate madrine. Una storia che sarebbe piaciuta tanto all’amica mia.

Mariuccia veniva da una bella famiglia della bassa Italia. Era giovane, carina e c’aveva tutto quello che voleva: una vita facile e un amore con gli occhi di fuori come un ranocchio, ma che a lei pareva bello come un principe. Se Dio avesse voluto loro due sarebbero potuti essere tanto felici ma, chissà perché, il Signore c’aveva un disegno diverso nella capoccia.  E così il fidanzato s’ammalò e nel giro di pochi giorni lasciò Mariuccia da sola.
Sola con una pagnotta nella pancia: la piccola Annamaria.
Il babbo di lei, che c’aveva il core grande quanto una nocciolina e gli piaceva tanto urlare ordini e comandi manco fosse un re con tutti i servi, dopo aver bestemmiato ed insultato quella svergognata della figlia sua, la fece chiudere in un Istituto, una Casa dei Pazzi, un manicomio. Un palazzo brutto e scuro come il castello d’un mago cattivo, dove ci stava di tutto, dagli orfani alle femmine sole, da quelli che si credevano Garibaldi ai bambini poco svegli e un poco strani. In un posto così pure quelli sani, e ce n’erano tanti, diventano matti sul serio.
Ma Mariuccia c’aveva la capoccia fina e, lo sa solo il diavolo come, entrò dalla porta, uscì dalla finestra e dentro quell’inferno in terra non ci passò manco una giornata intera. E scappò subito verso l’alta Italia.
Tanto su, veramente, non c’arrivò mai ma si fermò dalle parti nostre, stracca e grassa, a mettere al mondo la creatura sua nel convento delle suore della valle.

Un anno dopo tutte e due, madre e bambina, finirono per caso in paese da noi. Cercavano solo un posto dove fermarsi qualche giorno ma alla fine questi quattro contadini ignoranti e le strade piene di polvere diventarono la famiglia e la casa loro. Mariuccia divenne La Strega che faceva filtri e salvava matrimoni. Annamaria crebbe in un mondo tutto suo di canzoncine sgangherate e animali parlanti.

Quando poi la Strega s’ammalò chiese alle migliori amiche sue, la Moglie del Dottore e Parise Agnese, di occuparsi della piccola, di aiutarla e di non farla finire, per nessuna ragione al mondo, in uno di quei castelli dei maghi cattivi.
La signora Agnese c’aveva già sei figli ed un marito ancora lontano ma la Vedova del Dottore, che a quei tempi ancora vedova non era, figlioli non ne aveva avuti mai e non vedeva l’ora di poter finalmente fare pure lei la mamma. Ma certe favole non sono fatte per finire proprio nel modo più giusto e facile, ed infatti il medico si rifiutò di prendersi in casa una bimba che non era sangue del sangue suo ed in più non era manco tutta apposto con la testa. E la Signora questa cosa non glie l’ha perdonata mai e da quel giorno non gli ha voluto più il bene che gli voleva prima.

Le due amiche, per mantenere comunque la promessa fatta a Mariuccia, portarono via la piccola Annamaria e la nascosero nel convento, lo stesso dov’era venuta al mondo dieci anni prima e dove rimase fino a quando si fece una signorina.
E una volta divenuta grande, una femmina con la capoccia piena di farfalle colorate e favole, le due fate che non erano state capaci di fare magie la riportarono in paese.
La Signora, che ormai Vedova c’era diventata, provò a fare vivere Annamaria in casa con lei, ma la principessina svitata non ne voleva sapere di stare in un posto diverso dalla casa sua e non voleva nessuna compagnia oltre alle bestie.
“E cuscì la Vedova del Dottore s’è dovuta accontentare di aiutarla come ha potuto. L’ha tenuta pulita e le ha portato da mangiare tutti li giorni negli ultimi trent’anni”
“E mo ce penserete voi?” chiesi a zia Caterina.
“Sì, pure io so vedova e nun c’ho figli. Per questo mamma mia l’ha chiesto a me”
“Nun ve peserà troppo?”
“Lei c’ha bisogno de na mamma e io de na figliola”
Già sulla porta mi girai a chiederle l’ultima cosa: “Me la fate na promessa?”
“Dimme”
“Se avete di bisogno me chiedete aiuto?”
“Te lo prometto. Croce sul core. Ma tu nun te devi preoccupare pe me e l’amica tua, noi staremo bene. Tu c’hai li figli de Lucia da guardare. E’ quello lu destino tuo”, mi disse e mi augurò la buona notte.
  
Appena in strada tornai da Augusto quasi di corsa. La casa era già tutta buia, ma io bussai lo stesso. Non sono mai stata beneducata e quello non era certo il momento giusto per cominciare.

Quando la porta si aprì dissi solo: “Sì”

Quella primavera nella chiesetta del paese si sarebbe celebrato un matrimonio d’amore. Non quel tipo di sentimento che lega un uomo e una donna. Ma quello che ci legava tutti e due ai bambini e a Lucia nostra.

Continua...


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Ancora me la ricordo, come se ce l’avessi davanti in questo momento, la faccia di mamma che mi dice che devo sposare il vedovo della sorella mia.
A sentire queste cose adesso ai giovani gli vengono i brividi ma una volta era quasi normale. Normale per gli altri, perlomeno. Non tanto per me, perché a me i brividi vennero eccome. Mi sembrava che il mondo stesse andando alla rovescia e che fossero diventati tutti pazzi.

Me la presi col Signore, la morte, mia madre, Augusto e pure Lucia che mi aveva lasciata in un pasticcio così grande. Mamma mi fece sfogare e poi aggiunse senza manco battere gli occhi: “Se nun ce pensi tu, Augusto cercherà quarghidun’altra per crescere li figli de Lucia.”
Quella donna, pure mo che dormiva poco e niente e quando stava sveglia c’aveva la capoccia quasi sempre da un’altra parte,  riusciva comunque a capire quale fosse il punto preciso da colpire. A me sposare Augusto sembrava una cosa assurda, una cosa sbagliata, una cosa sporca. Mi sembrava di rubare la casa, la famiglia, la vita della sorella mia. Ma l’idea che un’altra donna crescesse i nipoti miei era più brutta ancora.
“E chi?”
“Le Zaccaria ce stanno facendo più d’un pensiero.”
“Ma che stai scherzando?”
“No, te parono cose da scherzare queste?”
“Ma tu come le sai tutte ste chiacchiere che nun esci mai de casa?”
“Lo conosci sto paese com’è. Le voci passano pure le porte chiuse a chiave.”

Quella notte non dormì neanche un pochetto e la sera dopo, con una nottata in bianco ed una giornata di lavoro, a tenermi su erano solo i nervi che sentivo nello stomaco come un gomitolo tutto ingarbugliato.
Avevo bisogno di parlare con Augusto. Non era cosa che i figli di Lucia venissero educati da qualche estranea, magari qualche zitella stagionata, che nessuno aveva voluto fino a quel momento, o qualche approfittatrice, a cui importasse solo portare il cognome Parise. Una delle Zaccaria magari, non ci potevo manco pensare.
Ma, del resto, non c’era mica vero bisogno di sposarsi, le cose potevano continuare tranquillamente così. Forse.

Finalmente, dopo aver messo i bambini a letto, Augusto ed io fummo soli. Non sapendo da dove cominciare, dissi la prima cosa che mi passava per la capoccia in quel momento: “Hai sentito che è successo?”
“La Vedova del Dottore?”
“Già.”
“Me dispiace.”
“Pure a me. L’ha trovata stamattina lu farmacista.”
“Ne lu letto sua?”
“Già.”
“Nun se sarà accorta de gnente.”
“Dallu sonno allu paradiso. Me mette tristezza sapere che se n’è annato nu core bono.”
“E’ vero, era proprio na brava persona.”
“Quelli cattivi invece restano sempre.”
“Sì.”
“Come la Zaccaria.”
“Chi?”
“La Zaccaria.”
“E che c’entra? Nun è manco tanto vecchia quella.”
“Che fai? La difendi già?”
“A chi?”
“A quel core cattivo della Zaccaria!”
“Ma de che stai a parlà? Nun te capisco mica.”
“Lassa perdere. Fa finta che nun t’ho detto gnente.”

Io tenevo le mano sul tavolo e mi fissavo li diti, non ce l’avevo proprio la forza di cominciare quel discorso lì.
“Adelì, noi dobbiamo parlà”, iniziò Augusto che s’era scocciato d’aspettare e c’aveva più coraggio di me.
“Lo so.”
“L’altro giorno ho visto mamma tua.”
In quel momento tutti i propositi miei andarono a farsi benedire e scoppiai peggio della pentola a pressione di  Lisuccia lo scorso Natale.
Sarà stata la stanchezza, la morte della Signora, il pensiero della Zaccaria o lo sguardo serio serio d’Augusto che mi metteva a disagio ma fatto sta che, buttando alle ortiche il buon senso, mi alzai di scatto dalla sedia e iniziai a vomitargli addosso tutta la rabbia che c’avevo.
“Tu co me dovevi parlare mica co lei!”
“M’è sembrato giusto prima vedere come la pensava lei.”
“E certo! Tu e lei decidete mentre quella fessa d’Adelina aspetta. Io so bona pe lavorare come na bestia ma poi, pe decidere della vita mia, ce deve pensare quarghidunaltro.”
“Sei tu che decidi mica li altri. Io a mamma tua ho chiesto solo nu consiglio. E mo siediti.”
“Nun me dire che devo fare, che sto già abbastanza incazzata cuscì. Quella nun è più manco bona a trovarsi lu culo co le mano e tu le vai a chiedere consigli?”
“Adelì, te voi calmà? Nun urlare e smettela de dire porcherie, che nella bocca d’una femmina nun ce stanno bene.”
A quel punto non lo so manco io che mi prese, gli piantai in faccia il muso mio arrabbiato e con la voce bassa e velenosa gli dissi la cosa più brutta di tutte. Gliela dissi nonostante avessi ormai imparato a conoscerlo e rispettarlo. Gliela dissi perché ero arrabbiata ed in quel momento godevo nell’essere cattiva: “Pensavo che volevi davvero bene a Lucia mia e invece nun vedi l’ora de metterte n’altra serva a pulirti casa e a scaldarti lu letto.”
Lui non alzò la voce, non mi insultò come avrei meritato, ma mi guardò con degli occhi severi e delusi che mi fecero sentire l’ultimo dei vermi sulla terra: “Per me Lucia è stata na benedizione. Ringraziavo lu Signore ogni mattina per quell’angiolo che m’aveva messo accanto. Ed ora che nun c’è più, penso a lei tutti li giorni e me la sogno tutte le notti, ma ai figli mia nun possono bastare li ricordi: loro c’hanno bisogno de na madre.”
Dio solo sa quanta fatica deve essere costata una dichiarazione così ad Augusto, sempre riservato e geloso dei sentimenti suoi.

E’ passata una vita intera da quella sera ma io ancora mi vergogno di avere insultato lui e l’amore che provava per la sorella mia. E me ne vergognai talmente tanto anche in quel momento che abbassai gli occhi, ricaddi come un sacco sulla sedia e iniziai a singhiozzare come una scema.
Piangevo perché mi mancava Lucia. Perché non sarei mai stata all’altezza sua. Perché questa vita nuova piena di responsabilità mi pesava più d’una pietra attaccata al collo.
“So cuscì stracca, Augù.”
“Lo so, te lavori come na mula.”
“E nun è abbastanza?”
“Che fai, scherzi? Se nun era pe te, noi stavamo tutti persi. Ma la gente parla.”
“Ma che ve frega a tutti quanti se la gente parla?”
“Che me frega? L’ho promesso a Lucia e pure a te, te lo ricordi? Nisciunu ve deve mancare de rispetto.”
Augusto mi guardava mentre io frignavo e sospiravo accartocciata sulla sedia come una bambola de pezza.
“Facciamo cuscì, Adelì. Tu stai serena e te prendi nu poco de tempo pe pensarce. Se decidi che nun te la senti, va bene uguale e ce parlo io co mamma tua: le dico che è colpa mia, che so stato io a cambiare idea.”
Quella sera vidi per la prima volta l’uomo che la sorella mia aveva imparato ad amare. Non era uno di niente come il babbo, una testa fresca come Emilio o uno tutto zucchero e poca sostanza come Gino. Lui era forte ma pure gentile. Sapeva essere un marito, un padre, un fratello ed anche un amico. Augusto era un uomo.

Svuotata e confusa, mi avvolsi nello scialle ed andai via. Quanto bisogno avevo che Lucia da lassù mi mettesse una mano sulla capoccia ed anche una sul cuore.

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Il tempo passava ed intanto tutti i giorni s’erano fatti uguali, ed io mi sentivo come una bestia che porta il peso sulla schiena senza sapere dove sta andando.
Da quando la sorella mia era volata in cielo la capoccia mi si era trasformata in un campo morto con la terra secca e dura. Non avevo più pensato a niente, manco a lei, perché avevo paura che, se aprivo quella porta lì, mi sarebbe passata pure la voglia di alzarmi dal letto la mattina.
E proprio la mattina era il momento più bello e più brutto della giornata intera. Mi svegliavo presto e, per qualche secondo, mi dimenticavo di tutto e mi sentivo contenta. Poi mi tornava in mente come stavano le cose, mi saliva l’acido in bocca e mi alzavo per ricominciare un altro giorno.

Erano ormai passati più di sei mesi dalla disgrazia, quando mamma mia mi disse: “La gente parla.”
Io ero appena tornata da casa dei bambini e lei mi aspettava seduta a tavola di fronte ad una zuppa fredda. Aveva lo sguardo presente e l’aria molto seria. Un’espressione come quella dei tempi migliori, quando usava quel tono che ci faceva stare zitte e con la testa bassa.
Ero contenta di vederla un’altra volta così, “E che dice?”, le chiesi tranquilla.
“Parla de te ed Augusto.”
La cosa non mi sorprese, avevo già sentito delle voci per il paese ma me n’ero fottuta. Con tutto il daffare che c’avevo, l’ultimo dei problemi miei erano le chiacchiere senza costrutto.
Ma mamma non si fece scoraggiare dal silenzio mio e continuò: “Passate molto tempo assieme.”
“Io nun passo lu tempo mio co lui ma colli bambini.”
“E’ lo stesso.”
“No, che nun è lo stesso!”
Ero stracca. Enrico aveva avuto la febbre e non mi s’era staccato di dosso per tutto il giorno. Sandro, con la mania sua di stare dietro alle bestie e aiutare il babbo, s’era infangato dalla capoccia fino ai piedi. Io avevo dovuto finire una tovaglia per la Barbagallo e rammendare di corsa le brache d’Augusto. E poi la minestra era fredda e sapeva solo di acqua zozza, come tutto quello che aveva cucinato mia madre negli ultimi sei mesi.
Non ne potevo più.

“Me ammazzo de fatica ogni giorno, me occupo de tutto e de tutti. Cerco de nun far mancare gnente alli bambini. Lo so che c’hanno bisogno de na mamma vera, ma Lucia sulla terra nun ce la posso riportare. Me dispiace. Ce lo so che se lo Signore se prendeva me e lasciava lei eravate tutti più contenti.”
“Nun dire fesserie!”
“Io nun sono lei.”
“Lo so, ma li bambini c’hanno bisogno de na sistemazione come se deve. E pure tu. E poi la gente parla.”
“Ancora co sta storia? E allora facciamola stare zitta: mettiamoglie na bella ciavatta in bocca e speriamo che se soffoca!”
“Troppe ciavatte ce vorrebbero pe fa stare zitti tutti. Augusto ed io abbiamo già parlato, c’è solo na cosa da fare: ve dovete maritare.”

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Dopo la morte di Lucia il peso della famiglia intera finì completamente sulle spalle mie.
Una volta si usava così: gli uomini da soli erano persi ed i vedovi non erano mai lasciati ad arrangiarsi, soprattutto se c’erano dei figli di mezzo.
Augusto, pure con una gamba mezza guasta, poteva lavorare nei campi per ore, ma non sapeva cuocersi manco un ovetto e soprattutto non era capace di pensare ai bambini suoi. Li amava con tutto il cuore, ma non sapeva proprio da dove cominciare per le cose pratiche. Ai tempi miei nessuno si sarebbe mai sognato di chiedere ad un padre di pulire il sedere dei figli. Per queste cose c’era bisogno di una femmina. E se la moglie veniva a mancare, c’era bisogno di una zitella.
Io ero quella zitella.

Se la situazione fosse stata diversa avrei potuto dividere l’impegno con mamma, ma lei purtroppo non riusciva ad essermi proprio di nessun aiuto, anzi. Dopo la disgrazia s’era fatta più vecchia, s’era svuotata come un sacchetto di farina mezzo usato. Si muoveva lentamente, strascicando i piedi con la capoccia bassa e le spalle curve. Ogni tanto la trovavo a guardare nel vuoto, con una sofferenza nel fondo degli occhi che mi faceva un gran male al cuore.
Lucia per lei era sempre stata tanto speciale. Mia sorella era venuta al mondo dopo due gravidanze finite male e poco prima della morte di nonna Ada. Per mamma, figlia unica e con un marito peggio di una disgrazia, Lucia era stata come un raggio di sole. E mo, che s’era fatto freddo e buio per sempre, lei era finita dentro una melanconia che non l’avrebbe abbandonata più. Ora la chiamerebbero depressione, allora era solo tristezza.

Anche le femmine della famiglia di Augusto non potevano aiutarmi. A parte il fatto che lui non  parlava più con metà dei parenti suoi, ma poi erano comunque tempi difficili, tanti uomini stavano in guerra e le donne si dovevano occupare dei campi, delle bestie e pure dei bambini. Tutto questo da sole, con in più l’animo pesante di chi non sa se l’amore, il babbo o il fratello suo a casa ci tornerà mai. Stavano già belle occupate così, ci mancava pure doversi preoccupare dei figli di qualcun altro.
Solo zia Caterina si faceva vedere ogni tanto, portava qualche frutto ai piccoli, puliva i loro nasi zozzi e, mentre io stavo fuori con le bestie, rassettava un poco casa e preparava delle zuppe così buone che magari non riempivano il cuore ma lo stomaco sì.
“Ve ringrazio zia Caterì, voi siete troppo bona”, le dicevo.
“Faccio metà del dovere mio”, mi rispondeva lei.
“Quando cucinate voi li bambini mangiano de gusto. Quando lo faccio io, poverini, lo fanno perché c’hanno troppa fame pe fare li schizzinosi.”
“Meglio, cuscì nun prendono vizi.”
La zia non era certo di grande compagnia ma in quei brutti giorni lì era meglio che niente.

Con la morte di Lucia mia, dal giorno alla notte, mi ritrovai a dividere solo con Augusto la responsabilità dei bambini. Dovevamo accudirli e soprattutto aiutarli ad affrontare il dolore loro. Dovevamo mettere da parte la sofferenza nostra ed occuparci solo della loro.
Enrico, il più piccoletto, cercava la madre girando per casa con l’aria persa. Noi provavamo a spiegargli che se n’era andata ed adesso era con gli angioli. Gli dicevamo che lo guardava dal cielo e lo amava tanto, ma lui non si chetava. Mi si stringeva il cuore a vederlo così confuso e spaventato, allora lo prendevo tra le braccia per calmarlo e coccolarlo ma neanche questo delle volte era abbastanza. Come quel giorno che, dopo avermi fatta diventare pazza con i capricci, lo ritrovai addormentato sul cuscino di mamma sua.
Sandro c’aveva solo quattro anni ma pareva già un ometto. Se ne stava tutto serio, dritto come un soldatino, e quando non cercava d’aiutare me, correva dietro al fratello piccolo peggio d’un cane dietro alle pecore sue.  Di giorno non lasciava capire nulla ma la notte i sogni brutti lo facevano svegliare con i lacrimoni ed i singhiozzi. Una volta accadde quando io ero ancora in casa di Lucia a rassettare. Non ebbi manco il tempo di correre da lui, che babbo suo era arrivato prima. Augusto gli accarezzava la capoccetta e lo lasciava sfogare senza dire niente. Chiunque altro, al posto suo, avrebbe tirato fuori una di quelle cose stupide che all’epoca mia sembravano tanto giuste come “nun piangere, che si grande” o “nun fare cuscì che si n’omo”, ma lui no. Lui lo cullava in silenzio. Perché sapeva che in certi momenti non c’è proprio niente da dire. Che se non è libero di piangere un bambino che ha perso la mamma sua, allora chi lo è?

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La capoccia nostra delle volte è proprio strana. Della notte in cui sorella mia se ne andò ricordo tutto come se fosse successo ieri, ma del funerale invece mi sono rimaste solo poche immagini, facce e parole. Così ingarbugliate che non sono manco sicura di cosa è successo prima e cosa dopo.

La chiesa era piena piena, questo me lo ricordo bene, perché, anche se poveraccia d’origine, Lucia era comunque diventata una Parise e quindi tutto il paese era venuto a piangere, chiacchierare, pregare la Vergine e guardare il carro nero coi cavalli. Così bello che manco una regina.
Io e la mamma eravamo arrivate fino alla prima fila, camminando piano piano e tenendoci per mano, ma posto per noi non ce n’era rimasto. Tutti i parenti d’Augusto avevano già piazzato i loro culoni sulle panche più importanti e non ci pensavano proprio a smuoverli per due disgraziate come noi. Che poi eravamo la madre e la sorella della morta era un particolare che non importava a nessuno. A nessuno tranne che ad Augusto. Lui si alzò subito e venne a prendere mamma mia, se la mise sottobraccio e la guidò fino al signor Ottavio: “Metteteve a lu posto mio”, le disse, “che tanto io seduto nun ce riesco a stare”, e poi tornò da me.
Rimanemmo tutto il tempo in piedi, uno vicino all’altra. A me mi girava la capoccia e se non fosse stato per Augusto che mi stringeva per un braccio sarei finita a terra come un mucchietto di ossi, stoffa e capelli.
“Dove stanno li bambini?”, gli chiesi.
“Nun te preoccupà, oggi li guarda Anna”, mi rispose.
“Anna chi?”
“La levatrice.”
Ero al funerale di Lucia ma l’unica cosa che mi veniva da pensare era che i nipoti miei stavano con un’estranea. Noi seppellivamo la madre loro e quelle anime candide se ne stavano con un’estranea. Chissà se c’avevano paura? Chissà che pensavano? I nipoti miei non ci dovevano stare con un’estranea. Loro una famiglia ancora ce l’avevano e ce l’avrebbero avuta sempre.

Non mi ricordo niente del cimitero o della processione dietro a quel carro per signori. Ma sono sicura che tutti piangevano e si strappavano i capelli, perfino zia Rita: “Cuscì giovane e bella. Glie volevo bene come na figlia”, diceva. A me mi veniva perfino da ridere e pure a Lucia mia se avesse sentito. Ad Augusto no, ed infatti fece mandare via quella vecchia bugiarda in malo modo e da quel giorno si trovò litigato con mezza famiglia.

Tutti piangevano e si strappavano i capelli, tutti tranne la sorella, la madre ed il marito della morta.
Noi avevamo gli occhi asciutti ed il core caduto ai piedi.

All’uscita del camposanto mi vennero incontro zia Caterina e la Vedova del Dottore. La Signora s’appoggiava alla zia d’Augusto, aveva ancora la camicia inamidata e quel profumo buono buono di una volta ma ormai s’era fatta proprio vecchia e si vedeva che di tempo non glie ne rimaneva tanto.
Mi baciò sulla guancia e mi sussurrò: “La nostra amica non l’ho portata. C’è troppa confusione e lei si agita. Ma ti manda questo”, mi aprì la mano, ci lasciò cadere dentro qualcosa, mi baciò un’altra volta e poi s’allontanò.

Abbassai lo sguardo e lo vidi: il bel nastro giallo di Annamaria. Il suo tesoro più grande. Il suo pensiero per me ed il dolore mio.
Guardai il nastro per un attimo ma poi non lo riuscì a vedere più. Gli occhi miei non erano più asciutti e non lo sarebbero stati fino alla mattina dopo.

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Lucia quella sera parlò ad Augusto con il cuore leggero e  pesante assieme.
“So due femmine” gli disse.
“E perché fai quella faccia lì? Nun si contenta? San Giuseppe c’ha fatto la grazia!”
“Sì, ma ce sarà na bocca de più. Facciamo già fatica cuscì”
“Te preoccupi pe questo? Dove mangiano in tre, mangiano pur in quattro. Sta serena Lucia mia, che quando c’hai li pensieri te viene la faccia brutta.”
Augusto non è mai stato un tipo sdolcinato ma neanche uno che si spaventava facilmente.
Augusto era una roccia.

Il travaglio cominciò un mese dopo, al tramonto. Mamma andò da Lucia ed io tenni Sandro ed Enrico.
Mi ricordo tutto di quelle ore.
I bambini erano molto agitati e per farli stare buoni almeno un pochetto l’unica cosa che mi riuscì fu quella di tirare fuori un’altra volta Tizzoncino e la storia sua. Tizzoncino funzionava sempre. A loro però più che l’amore di Reuccio gli interessava se quello scimunito portava la spada oppure no, apriva la pancia agli animali feroci oppure no. C’è poco da fare, i maschi sono bestioline semplici che le raffinatezze non sanno manco dove stanno di casa.
Quei due mascalzoncelli crollarono addormentati solo a sera tarda, raggomitolati vicino alla stufa come due gattini. Me li presi in braccio, prima uno e poi l’altro, prima Enrico che era piccoletto e morbido e poi Sandro, alto, pieno e pesante come un vitello grasso. Li infilai nel lettone con me e rimasi al buio ad ascoltare i respiri loro. Dormirono tutta la notte, mentre io non chiusi occhio: c’avevo troppa voglia di conoscere finalmente le nipotine nuove. Me le immaginavo come Lucia, con le guanciotte rosa e le ciglia lunghe piegate all’insù. Belle come due principessine, due regine, due figlie di signori. Da grandi avremmo insegnato loro a ricamare, ed alla prima delle due che si fosse sposata avrei regalato la catenina di nonna Ada. Sarebbero state eleganti e fini come la mamma loro, ma anche capaci di arrampicarsi sugli alberi e cacciare le rane come me. I loro fratelli le avrebbero protette e rispettate, ed Augusto non le avrebbe mai spaventate o fatte scappare, perché lui non era come babbo nostro.

Scivolai fuori dal letto appena si fece un poco chiaro, mentre Sandro ed Enrico rimasero sotto le coperte a dormire quel sonno profondissimo che c’hanno solo i bambini.
L’aria era fredda, la casa silenziosa ed alla base della gola sentivo come un nodo stretto stretto che non voleva andare né su né giù.
Uscì a prendere le uova ed in cortile incontrai mia madre. Aveva la faccia bianca e gli occhi vuoti. Mi guardava ma non mi vedeva.
Mi si fece vicina e disse piano piano: “I bambini, dobbiamo pensare alli bambini”.

Non l’avevo mai vista piangere, neanche quando era morta Ines, neanche quando babbo l’ammazzava di botte, neanche quando lo stomaco le faceva male dalla fame.
Mamma piangeva e sul cuore mio si apriva una crepa che non sarebbe guarita più. Lucia, Lucia mia, se n’era andata: il Signore si era preso lei e le due gemelline sue.
Dopo tutti quegli anni d’inferno, dopo tutte le cose che avevamo passato, il Signore l’aveva chiamata proprio ora. Ora che era felice, ora che aveva una famiglia. L’aveva lasciata sulla terra quando se ne stava accucciata nella stalla tra la merda di vacca, quando lavorava giorno e notte come una schiava, quando le toccava sopportare gli sguardi sporchi degli uomini. Ed ora che stava tutto alle spalle, ora che aveva un marito che l’amava più dell’anima sua e dei figli che le riempivano il cuore, quel vigliacco se l’era portata su in paradiso, strappandole tutto e strappandola a tutti.

“I bambini, dobbiamo pensare alli bambini.”

Io sarei voluta scappare, correre fino a quando il petto mi scoppiava, per non sentire più il male e manco la paura.
Ma questa volta non potevo, non c’era più Lucia, non rimaneva lei a pensare a tutto. Ero rimasta solo io. Non potevo più andare da nessuna parte. Dovevo rimanere lì. Quello era il posto mio.

I bambini, dovevo pensare ai bambini.

Continua...

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Augusto e Lucia desideravano tanto una femminuccia e sperarono che la benedizione fosse finalmente arrivata quando Enrico aveva quasi due anni.
La sorella mia scoprì di essere di nuovo in attesa ed era talmente convinta che questa volta sarebbe stata una bimba che cominciò a ricamare dei vestitini meravigliosi, tutti lino e merletti. Degli abitini come quelli degli angioli, talmente belli che le mogli di Sandro ed Enrico li conservano ancora come dei tesori. Roba così ai giorni nostri non si trova da nessuna parte, manco a volerla pagare fior di soldi.

Il tempo passava e Lucia si faceva ogni giorno più grossa, con la pancia bella tonda e le caviglie gonfie. Un giorno, mentre passeggiava con una mano sul fianco e l’altra sull’ombelico, la Pazza la fermò per strada, le posò le mani sul ventre e disse solo: “So due pupe”.
Una volta non esistevano mica le macchine che ci sono adesso, che ti dicono se il figlio tuo è maschio o femmina, grande o piccolo, bello o brutto, sano o malato. Una volta era una sorpresa fino a quando il bambino non usciva fuori.
La levatrice lo prendeva per i piedi come una bestiolina, gli dava una bella sculacciata e poi controllava che avesse tutte le cosine al posto giusto: i diti, le mano e pure l’uccelletto.
Ma la Pazza per queste cose era una sicurezza e ci prendeva sempre.
Anche mamma sua, prima di lei, era stata uguale, anzi meglio. La signora Mariuccia era una strega, una di quelle buone però, che tolgono il malocchio, fanno arrivare i bimbi anche dove la terra sembra troppo secca e, quando c’è di bisogno, convincono i mariti, che c’hanno il vizio di correre dietro le altre gonne, a tornarsene a casa con la coda tra le gambe.

La Strega era arrivata in  paese con la creaturina sua in braccio ma senza uomo, si era piazzata in una vecchia casa mezza rotta che non voleva più nessuno e aveva fatto fruttare il  talento suo più grande: quello di saper leggere nel cuore e nella capoccia della gente. Mamma mia ci raccontava che, quando lei era ancora una bimba, a casa della signora Mariuccia ci stava sempre la coda di femmine che chiedevano qualche favore: le poveracce in cambio lasciavano quello che potevano, un ovetto o qualche frutto, mentre le signore anche un bel polletto intero. Persino nonna Ada ci andò una volta, quando il nonno aveva iniziato a fare sempre tardi e a guardare con tanto d’occhi una cugina più giovane. Una ragazza con un corpo morbido ed una bella bocca che faceva venire strani pensieri a tutti i maschi che la incontravano.
Nonno Claudio era buono come il pane ma, purtroppo, si sa che gli uomini c’hanno sto vizio qua e prima o poi ci cascano tutti. La nonna andò dalla Strega con gli occhi pieni di lacrime ed il borsellino gonfio di spicci e, nel giro di poche settimane, la bella cugina venne promessa ad un pastore che viveva dall’altra parte della valle.

La signora Mariuccia morì per una brutta febbre quando era ancora molto giovane. Annamaria non aveva manco dieci anni, ed era una bambinetta dolce ma strana, con un cuore grande grande ma una capoccetta piccola piccola. I carabinieri andarono di corsa a prenderla, per chiuderla in manicomio e buttare via la chiave, ma non la trovarono e nessuno seppe dire loro dove fosse finita.  Molti non lo sapevano per davvero ma c’era chi, come nonna Ada, dopo aver visto un carro con due Signore e una ragazzetta allontanarsi verso la valle, aveva scelto di farsi smemorato per risparmiare ad una povera creatura un destino infame. Sembra incredibile, ma pure in un paese come questo, coi muri sottili e le orecchie belle grandi, se c’è davvero di bisogno, certi segreti si riescono a tenere.

La figlia della Strega tornò ad occupare la casa della madre solo qualche anno dopo, ormai adulta. Tornò pulita ed ordinata ma sempre svitata. Fuori s’era fatta grande ma dentro non era cresciuta manco d’un minuto. Parlava con le bestie, si circondava di cani puzzolenti e cantava a squarcia gola canzoni che non conosceva nessuno tranne lei.
La Pazza aveva ereditato un solo potere da mamma sua. Non sapeva togliere il malocchio o fare filtri d’amore ma vedeva dentro le pance.

Continua...


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Per le strade del paese incontravo spesso Tommaso e Gino. Il primo era rimasto piccoletto, con le ginocchia larghe ed ancora lo stesso sorriso furbo di quando si arrampicava sui rami più alti. L’altro si era fatto lungo e smilzo, con un bel nasone da corvo messo sopra quattro peli che gli piaceva chiamare baffi.

Tommaso mi sorrideva o mi faceva solo un cenno col capo, oramai ci eravamo fatti grandi e la confidenza di quando eravamo piccoli non ce la potevamo più permettere. Babbo suo l’aveva messo a bottega e lui faceva all’amore con Rosellina, una ragazza con i denti davanti accavallati, gli occhi svegli e la risata contagiosa.  Maso le passava davanti casa e lei usciva sulla porta con la scusa di risvegliare le braci del ferro da stiro. Lui le strizzava l’occhio, lei rideva ed io mi morivo d’invidia. Quand’ero piccoletta mi ero presa una bella botta per Tommaso e, pure dopo tutti quegli anni, a vederlo fare lo scemo con un’altra femmina mi saliva l’acido fino in bocca. Non c’avevo la dote, non ero tanto bella, non mi potevo sposare, e tutte le altre cose che diceva sempre mamma mia, ma mica ero fatta di legno.

Gino invece non se l’era ancora acchiappato nessuna, ma lui aveva messo gli occhi su una femmina dal carattere dolce come il miele, una famiglia di signori alle spalle e pure una dote grande per far felice mamma sua. Quel fesso s’era preso una bella botta per me.
Quando mi vedeva arrivare dal fondo del viale, si lisciava i capelli e mi veniva incontro con un sorriso da imbambolato. Io cercavo di evitarlo, guardavo per terra, affrettavo il passo, ma lui da quell’orecchio proprio non ci sentiva ed ogni volta m’attaccava un bottone grande quanto una medaglia.
“Ciao Adelì, come stai?”
“Bene, grazie.”
“Io mo lavoro al forno del babbo. E tu che fai?”
“Le cose solite.”
“Perché nun te fermi a chiacchierare nu poco?”
“Perché so de corsa e poi nun stà bene, lo sai.”
“E perché nun stà bene? Noi simo amici da na vita.”
“Nun fare lu finto tonto. Ormai simo grandi e, se me fermo a parlare co te, nel giro di un’ora tutti dicheno che facciamo all’amore.”
Lui aveva il pudore di arrossire ma comunque non mollava, “Io però te devo dire na cosa importante”, mi diceva abbassando un poco la voce.
“Dimmela.”
“Ma no. Mica cuscì. Nun davanti a tutti. Dobbiamo stare solo io e te, core a core.”
“Stai fresco!” gli rispondevo.
Lui allora si allontanava con le mani in tasca e la faccia triste. Io ogni volta speravo che l’aveva capita, ma quel caprone il giorno dopo ricominciava da capo.
A me Gino non piaceva, non in quel senso almeno, ma mi piaceva tanto avere un corteggiatore. In fondo ce l’avevano tutte, pure quelle brutte come la fame. Tutte tranne le Zaccaria, quelle non le ha mai volute nessuno. Anche se, secondo me, Bastiano un giro con una delle due se lo deve essere fatto. Che quello era buono e caro ma mica un santo e Saretta, che c’aveva gli occhi un poco meno storti e i capelli un poco meno stopposi della sorella, con lui giocava sempre a “Cecco me tocca, toccame Cecco”. Io sta cosa a Bastiano gliel’ho anche chiesta quando eravamo già vecchiarelli ma lui, che ormai aveva seguito la strada sua e s’era fatto frate, ha avuto la faccia di rispondermi: “Ma te sembrano discorsi da farse tra n’omo de chiesa e na signora pe bene?”
Che a casa mia se uno ti dice così vuol dire solo che la risposta è sì. E bravo Bastiano!

Io, ad averci un corteggiatore, mi sentivo più grande e persino più bella. Delle volte, dopo averlo incontrato, correvo a guardarmi allo specchio del cassettone di mamma per capire cosa ci trovasse lui di tanto interessante in me. Quando non c’era nessuno mi tiravo anche su i capelli per cercare di assomigliare alle attrici che si vedevano nei cartelloni del cinematografo a valle. Ma il risultato non era mai un granché.
Per tutta la vita non mi sono mai vista bella ma, Gino prima ed Augusto poi, mi ci hanno fatta sentire spesso. E questo è uno dei più bei regali che un uomo può fare alla donna sua.

Anche se Lucia era ormai moglie e madre ogni tanto riusciva comunque a dedicarmi un poco di tempo per chiacchiere e confidenze.
“Lucì, te la posso chiedere na cosa?”
“Certo.”
“Pure se è na cosa nu poco delicata?”
“E che sarà mai? Da quand’è che te sei fatta timida? Chiedeme quello che voi.”
“Tu s’innamorata?”
“Sì”, mi rispose subito col sorriso sincero e gli occhi belli che le brillavano.
“D’Augusto?”
“E certo, Adelì, de chi se no? Dellu vecchio della vigna?”
“Ma s’innamorata d’Augusto come d’Emilio?” le chiesi tutta seria e a bassa voce, perché certi discorsi sarebbe meglio non farli proprio, ma quando si fanno bisogna sussurrarli appena appena, che le malelingue c’hanno l’orecchio più fino di quello del diavolo.
“No, è na cosa tutta diversa. Emilio me faceva sentire le farfalle nellu stomaco. So passati tanti anni, io ero piccina e lui me pareva cuscì bello.”
“Pe esse bello era bello ma pure nu stronzo come pochi.”
“Già.”
“Ma era meglio lui o Augusto?”
“Emilio era come nu cavallo, uno de quelli sempre agitati. Te cerchi de starce su ma prima o poi finisci co la faccia a terra. Augusto invece è come una de quelle bestie forti, che magari nun sono cuscì belle, ma quando ce sali sopra possono portarte fino alla fine dellu monno.”
“Ho capito: Augusto è nu mulo”, dissi non riuscendo a trattenere le risate, che io a fare un discorso serio per troppo tempo non ci sono riuscita mai.
“Adelì, si proprio scema! Pensa all’ asino tuo e lascia stare lu mulo mio!”
“Quale asino?”
“Nun fare quella faccia da santarellina, che lo sai benissimo de chi sto a parlà. Gino te gira sempre intorno. Quello s’è preso na botta pe te quando eravate du pupetti e nun gli è passata più.”
“A me li asini nun me piacciono e nun me sono piaciuti mai. Me possono girare attorno quanto vogliono ma nun me ne frega gnente.”
“Pe davvero?”
“Certo.”
“Allora diglielo, nun lo devi prendere in giro”, mi disse con la migliore vocetta da maestrina severa, che manco La Pera c’aveva na voce così.
“Io nun prendo in giro proprio a nisciunu, sa. Quello fa tutto da solo. Che ce posso fare?”
“Nun glie devi da dare corda.”
“Co la corda ce se pò appendere”, e me ne andai sbuffando. Lucia era peggio della coscienza mia. Pure se non avevo ancora fatto niente, riusciva comunque a farmi sentire già in colpa.

In quel periodo molti ragazzi del paese partirono per la guerra: due dei Parise, Tommaso e i tre fratelli Casotti. Quando pure Gino ricevette la cartolina mi pregò d’incontrarlo al ruscello dove ci trovavamo da piccoletti, ed io non ebbi cuore di dirgli di no.
“Devo andare in guerra, Adelì.”
“L’ho saputo. Me raccomanno sta attento e nun fare lu coraggioso, che nun si capace. Pensa solo a tornare alla casa tua tutto intero.”
“Ma allora t’importa?”
“Ma che si scemo? Certo che m’importa!”
“Allora me voi bene?”
“Nun cominciare Gino. Te voglio bene come a n’amico.”
“Solo?”
“E te pare poco?”
“No, per carità, è na cosa bella, ma io te voglio più bene ancora. Io te penso sempre e quando te vedo me viene caldo e me gira la capoccia.”
“Nun avrai mica magnato qualcosa coi vermi?”
“Eddai Adelì, stai sempre a scherzare tu! Io so serio: me piace tutto de te, li occhi che te brillano quando ridi e pure li ricci tua. Tutto.”
“Se, vabbè, da quand’è che te si fatto poeta?”
“Adelì, perché nun me credi?”
“Nun è che nun te credo, io lo so che tu certe cose le pensi, ma è che sei nu poco esagerato.”
“Se n’omo dice quello che tiene ne lu core nun è mai esagerato. E poi li complimenti alle femmine piacciono.”
“E tu che ne sai delle femmine?”
“Io gnente, ma Carlo m’ha detto cuscì e fratello mio de ste cose ci capisce.”
“Ancora retta a quello dai? Secondo me è meglio che t’impari a fare da solo, che fratello tuo dalle femmine c’ha preso solo dei gran calcioni nellu di dietro.”
“Nun è mica colpa sua, è che s’innamora sempre della femmina sbagliata.”
“Davvero? Sarà na tradizione de famiglia allora.”
“Che voi dire?”
“Gnente, nun è importante. Senti, Gino, mo devo proprio andare, tu prometteme solo de stare attento.”
“Aspetta ancora nu minuto: te devo chiedere na cosa.”
“Cosa c’è? Che voi ancora?”
“Te posso scrivere?”
“Ma che dici? No, che nun puoi!”
“Perché no?”
“Perché nun so leggere, razza de rincojonito! Avrò fatto una mesata de scola scarsa in tutta la vita mia!”
“Scusa, pensavo che avevi imparato ormai.”
“E quando? Mentre ricamavo o quando toglievo la merda dal pollaio?”
Se c’era una cosa di cui mi vergognavo tanto era proprio l’essere ignorante. A casa mia tutti sapevano leggere e scrivere solo io ero peggio d’una capra.
“Dai Adelì, nun c’è bisogno che t’arrabbi. Magari te fai leggere le lettere da quarghidunu.”
“E da chi? Noi nun simo fidanzati, te lo voi mettere nella capoccia? Ste cose le possono fare l’innamorati, mica noi.”
“E se te prometto che quando torno te sposo?”
“Certo, come no! E gliel’hai già detta a mamma tua sta grande idea? Chissà come sta contenta.”
“Che c’entra mamma mia? Sono io che devo sceglierme la moglie, mica lei.”
“Ma se nun te fa scegliere manco li calzini.”
“Nun è vero.”
“Te li fa ancora mettere i mutandoni che pungono?”
“Solo quando fa friddu. Ma questo che c’entra?”
“C’entra, eccome se c’entra! Senti, facciamo na cosa: tu pensa a tornare vivo e poi ne riparliamo, va bene?”

Forse avrei dovuto essere più sincera, come mi aveva detto Lucia mia, ma Gino stava per partire per la guerra: non gli potevo mica dire che lui ed io non ci saremmo sposati mai, che io non ero innamorata e che gli volevo bene come a un fratello. Si può dire una cosa così ad uno che sta per andare in guerra?
E poi quel pomeriggio pensai che lui poteva anche non tornare mai più, e che quella poteva essere la prima ed ultima occasione per provare ciò che provavano le altre. Quelle con la dote. Quelle con un fidanzato. Quelle che nel futuro c’avevano un marito e dei figlioletti.
Così presi coraggio, feci un passo avanti, gli buttai le braccia al collo e lo baciai. Fu una cosa da imbranati, tutta bava e denti. Io che lo tenevo per gli orecchi e lui che m’impastava fianchi e culo come se fossi un bel pezzo di pasta lievitata.
Gino non fece manco in tempo a cercare di stendermi come una focaccia che io me n’ero già corsa via.

Mamma mia, che mi vide arrivare con il fiatone e le guance rosse, mi fece gli occhiacci ma non disse niente. Io andai subito al cassettone. Volevo vedere se ero cresciuta, se dopo quel bacio m’ero fatta donna. Ma allo specchio ci stava la solita ragazzotta senza finezza e con la faccia da furba.

Quando Gino tornò dalla guerra fu molto deluso dal trovarmi già sposata. Ma se ne fece in fretta una ragione e, pochi mesi dopo, portò all’altare una ragazza di un paese vicino, che aveva conosciuto ed ingravidato alla festa del loro santo patrono. Un donnone dalle forme generose ed il carattere da generalessa.

Al figliolo del fornaio sono sempre piaciute le donne dalla crosta tosta e croccante ma dal corpo morbido come la mollica del pane.

Continua...


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Augusto si godeva le gioie del matrimonio e di una compagna dolce e morbida come un’albicocca matura.
Lucia si godeva la vita che aveva desiderato per tanto tempo e che era arrivata quando non ci sperava manco più.

A me mancava la famiglia com’era prima ma giorno dopo giorno mi abituai e poi, quando iniziarono ad arrivare i nipotini, scoprii che la nuova situazione poteva anche essere meglio della vecchia e che a fare la zia c’ero proprio portata.

Il primo a nascere fu Sandrino, grosso e scuro, con le guanciotte tonde da mordere e gli occhi grandi e neri come pozzi. Era serio e forte: un piccolo ometto responsabile fin dal primo momento passato su questa terra.
Il giorno del parto ce lo passammo tutti assieme. Lucia, la mamma e la levatrice stavano chiuse in camera da letto. Augusto in cortile faceva i buchi nella terra a forza di marciare avanti e indietro. Zia Caterina, zia Rita ed io aspettavamo sedute intorno al tavolo della cucina.

Lucia urlava come un capretto a Pasqua. Augusto pareva sul punto di vomitare dall’agitazione. Io ringraziavo in silenzio il Signore di avermi fatta troppo povera e brutta per sposarmi, avere figli, e passare un inferno così. Zia Caterina sgranava il rosario tutta seria manco si stesse avvicinando il giudizio universale. Solo zia Rita non stava zitta manco un secondo: “I giovani d’oggi nun sono forti e nun sono capaci de sopportare nu poco de dolore” diceva. “Nun ho mai sentito na femmina gridare cuscì tanto, se vede proprio che nun arriva da na famiglia come se deve”, continuava. “Lo si capiva a guardarla nella faccia, cuscì delicatina e chiara, che nun era bona pe fare figli”, malignava. 

Alla fine al posto dei gridi arrivò un pianto forte ed arrabbiato. Il primo ad andare a vedere fu Augusto, poi venne il turno mio e delle zie. La giovane tanto delicata aveva messo al mondo un torello forte e sano. Zia Rita chiuse finalmente quella ciabatta velenosa e, da quel giorno, un piede nella casa di Lucia non ce lo mise più: Augusto c’aveva l’udito fino ed era un uomo che sapeva mantenere le promesse sue.

L’anno dopo fu la volta di Enrico il Bello, chiaro come la mamma, con i capelli sottili ed i lineamenti delicati ma un carattere furbetto fin dalla culla, dove imparò in fretta come attirare l’attenzione per farsi prendere in braccio e coccolare.
Enrico è rimasto così pure da grande, capace di rigirarsi tutti intorno al mignolino suo. Ha fatto perdere la testa a molte femmine e delle volte se n’è pure approfittato quel mascalzone. Io gli ho sempre voluto un mondo di bene ma, quand’era già un uomo fatto e finito, spesso gli avrei voluto dare un paio di begli schiaffoni per raddrizzare quella capoccia leggera. Per fortuna ad un certo punto ha incontrato Lisuccia sua, una brava ragazza, intelligente e giudiziosa che gli ha saputo tenere testa e si è fatta sposare. Ed ancora adesso, che c’hanno tutti e due i capelli grigi e i denti finti, Enrico se la guarda con certi occhi innamorati che pare un pesce lesso. Ora è lui quello a girare intorno al dito piccolo.

Mentre Augusto si occupava della poca terra che avevano e delle loro bestie, Lucia continuava a ricamare da noi. Di lavoro non ce n’era molto, che nel frattempo era scoppiata la guerra ed anche i ricchi di città stringevano un poco la cinghia, ma noi riuscivamo comunque ad andare avanti con tanti sacrifici e le ossa che sporgevano.
Ogni giorno sorella mia veniva a casa nostra e si portava dietro i bambini. Loro giocavano nel cortile tra le galline e il fango mentre noi li tenevamo d’occhio dalla finestra. Quando rientravano erano sempre tutti inzaccherati, belli e zozzi come dei maialini da latte. Mamma e Lucia facevano la voce grossa e li sgridavano, e quei due mascalzoni, un poco per finta e un poco sul serio, si rifugiavano dietro di me.
L’avevano capito subito che io non ero proprio capace a resistere ai loro musetti e alle loro vocette sottili, “Zia Adelìììì” mi chiamavano ed io mi scioglievo peggio d’una scema. Per loro sarei andata a piedi fino al santuario della Madonna, per loro avrei sfidato un re a duello, per loro avrei fatto qualsiasi cosa.

Ogni volta che c’avevo una commissione o una compera da fare  me li portavo dietro: Enrico in braccio, appoggiato al  fianco mio, e Sandro che mi trotterellava accanto.
Delle volte ci fermavamo un poco lungo il ruscello dove, dopo aver preso qualche cerasa dal fondo del frutteto grande, ci sedevamo sull’erba a giocare. Il piccolo si  metteva dritto sui piedi grassocci ma non ci provava neanche ad allontanarsi: mi restava appiccicato fino a quando non gli davo la frutta. Goloso e fastidioso peggio di zia sua. Il grande faceva a gara con me a chi sputava gli ossi più lontano. Io ogni tanto lo lasciavo persino vincere, e da questo si capisce il bene grande che gli dovevo volere fin da quel tempo lì.

Continua...

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