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Vacanze Roma amicizia

È tempo di arrendersi, oggi si torna a casa. 

Queste ferie verranno ricordate per il gran caldo, i primi piatti spettacolari e le numerose persone incontrate e riincontrate. Nel giro di una decina di giorni ha, infatti, avuto luogo il mio tour. Un po' Regina Elisabetta, un po' zia rimbambita d'America, ho avuto la fortuna di incastrare viaggi e facce amiche. 

Tutto ha avuto inizio il 14 agosto con una gita a Milano per incontrare Silvia, detta Sissi, fedele compagna di Erasmus. Chi ha letto Pancrazia in Berlin se la ricorderà. 

Sissi ha scelto l'ondata di caldo del secolo per trascorrere qualche giorno nella ridente città meneghina, sede dei suoi ricordi universitari più cari. 
Era almeno 4 anni che non ci vedevamo. E, pur rischiando la morte per sublimazione, questa occasione di rincontrarci era troppo ghiotta per rinunciarvi. 
Io ero con Marito, lei con tutta la sua truppa: Mauri, compagno storico che conosco da quando conosco lei, ossia più di 20 anni, e i loro 4 figli. A proposito, Sissi a 20 anni schifava i bambini. No, non è che non le piacessero, li schifava proprio. E niente, ora ne ha 4, questa cosa mi farà ridere per sempre. 

Sissi, per il resto, è una certezza. Non è cambiata. Perché si può crescere e si deve, ci mancherebbe, ma senza perdere il meglio di noi. Evviva Sissi! 

Pochi giorni dopo, arrivati a Roma, ha avuto luogo un altro storico incontro tra Ex Erasmus. 
Alla Garbatella, di fronte una carbonara memorabile, Renée ed io abbiamo ammorbato di chiacchiere e ricordi berlinesi i compagni, di entrambe, e il figlio, suo. 
Sì, Renée, un'altra delle famose Comari. Se non lo avete ancora fatto, dovreste proprio leggere Pancrazia in Berlin.

Lei ed io non ci vedevamo più o meno da una decina d'anni ma, nel frattempo, ci hanno tenuto unite il senso dell'umorismo e la passione per lo stalking social di ex (fidanzati e amici), senza vergogna e senza prendersi troppo sul serio. Ricordate: ciò non fa di noi due pazze persecutrici, no no, fa di voi dei tipi noiosissimi se non lo capite! 

Renée si scoccia se le ricordo che lei è sempre stata la mamma di tutti, poi si gira verso il suo bambino "stai dritto con la schiena", lo redarguisce. E allora vedi che ho ragione io? 

Ma non di solo Erasmus si è dipinta la mia estate. Sempre a Roma, Michela ed io ci siamo finalmente incontrate. 

Michela ed io ci conosciamo via internet, tramite blog e social, da un tempo indefinito pericolosamente superiore ai 10 anni. In questo periodo ci siamo lette, scritte, e viste su Skype mille milioni di volte, essendo lei, tra le altre cose, una delle frequentatrici più fedeli dei miei laboratori di scrittura online. 

Anni e anni di amicizia senza mai vedersi dal vivo, fino all'altra mattina, in cui ci siamo godute una colazione assieme. È incredibile quanto sia normale incontrare per la prima volta una persona che, in realtà, si conosce da molto tempo. Si fa quasi fatica a ricordare che, no, in effetti non ci si era mai viste prima. 

Per l'occasione eravamo noi e i nostri rispettivi consorti. Il mio già in essere, il suo (il mitico Gian) tra pochissimo. A proposito, evviva i futuri sposi! 

Il tour si è concluso a Lucca. Dove abbiamo rivisto per un aperitivo e una cena Lucia, Andrea e Leo. Quelli, tra tutti, che - tra Torino, Lucca e Firenze - abbiamo visto più spesso in questi anni. 

Lucia ed io leggiamo da una vita i nostri rispettivi blog. Tramite Lucia ho conosciuto Andrea, suo marito, che con la storia della sua famiglia di blog ne potrebbe riempire 30. E tramite loro 2 ho conosciuto il piccolo Leo, per cui, data la capacità di fare amicizia e l'invidiabile proprietà di linguaggio, prevedo un futuro da organizzatore di eventi, showman o profeta di una nuova religione. Solo il futuro potrà dirlo. 

"Non si può dire che io non conosca gente interessante" ho fatto notare, orgogliosa, a mio marito. 
"Già e hanno tutti voglia di vederti, pare incr... " 
"Mi sento generosa e scelgo di ignorare il tuo tono sorpreso. Ma tornati a casa potrei, per sbaglio, aizzarti contro il cane"
C'è una cosa che non ho mai raccontato del mio Erasmus.
Stonava troppo con il resto della storia. Non c'erano risate. Non c'era follia. In fondo, non c'era neanche Berlino.

Un giorno d'autunno Elisa, la mia amica romana, ed io incrociammo altre due ragazze italiane.
Io non conoscevo loro. Loro non conoscevano me. E, dopo quel giorno, non le avrei più riviste.
Una era di Milano, ricordo solo questo.

"Hai sentito che sta succedendo a Torino?" chiese questa ad Elisa.
"No, cosa?"
"Un disastro. Un'alluvione. Hanno interrotto l'autostrada con Milano. Torino è isolata", disse con una certa morbosa eccitazione.

-Torino è isolata- mi rimbombò nella testa.

La mia città era sola.
La mia famiglia si trovava immersa nell'acqua fino al collo.
E io, come una stronza, stavo a Berlino.

Non dissi una parola. Non so che faccia feci. Ma riuscii a zittire l'eccitata milanese che, guardandomi, si bloccò.
"Tu di dove sei?" mi chiese infine, quasi sottovoce.
"Torino"
"Vedrai che... vedrai che si aggiusta tutto"

-Si aggiusta tutto-
Non avevo internet, non avevo la televisione. Torino affogava e io non ne sapevo un cazzo. Corsi a chiamare i miei e, il giorno dopo, feci incetta di tutti i giornali italiani che riuscii a trovare.

Volevo sapere. Dovevo sapere. 

Seppi.
La mia famiglia stava bene. La mia città un po' meno.
Quei giorni furono gli unici in cui desiderai tornare indietro. Desiderai stare con i piedi nel fango e l'acqua fino al collo. 


"Va tutto bene, stai tranquilla. Goditi quest'esperienza e smettila di preoccuparti!" mi dicevano da casa.
Io un po' gli credevo e po' no.
Non parlai d'altro per giorni, nella costante ricerca di chetare il senso di colpa dato dal privilegio, dalla sicurezza, dall'ingiustizia del caso che mi voleva salva.

L'emergenza in città durò poco. Il mio Erasmus proseguii come sapete.

Ma ogni volta che in Italia la catastrofe si ripete. E si ripete sempre. Io penso a quel giorno.
Penso a quelli sotto l'acqua.
E penso anche a quelli all'asciutto. Quelli fortunati. Quelli stronzi che, però, preferirebbero stare con i piedi nel fango. Costretti, come sono, ad osservare impotenti la propria terra che annega. Senza neanche l'amara consolazione di poterla vegliare.

Questo è solo un piccolo, insignificante, privilegiato punto di vista. Ma è il mio. L'unico che possa raccontare.
(Prima parte.)

Quando si è una ragazza di poco più di vent'anni si ha il guardaroba pieno di vestiti adatti ad ogni stagione.
Attenzione, non sto parlando di abiti nati per andare bene con ogni temperatura. Ciò sarebbe saggio e utile, e non è assolutamente questo il caso!
Parlo di frivoli abitini sottoveste che le ventenni si ostinano a portare in qualunque periodo dell'anno: per il veglione di san Silvestro come per il falò di ferragosto. Indifferentemente.
E' inverno? Ci si piazzano sotto dei collant ed un paio di stivali. E' estate? Li si abbina con dei sandali.

Se poi sei una ragazzetta inglese ubriaca i sandali te li metti pure a gennaio, ma questo è un altro discorso.

Io e le mie degne amiche, in quanto ventenni, quel lontano 31 dicembre del 2000, a 1200 metri d'altitudine, tra le vette innevate piemontesi, scegliemmo un abbigliamento che sarebbe stato perfetto anche per un aperitivo ai Caraibi.
A nostra difesa voglio solo ricordare che la festa si sarebbe dovuta tenere in un caldo appartamento. Teoricamente un giaccone ed un paio di scarpe chiuse sarebbero stati più che sufficienti per superare il tragitto auto-portone. Ma così, ovviamente, non fu.

Gnocche più che mai raggiungemmo tronfie l'ingresso del party. Suonammo il campanello, l'uscio si aprì, e in un attimo fummo travolte da un branco di piumini, sciarpe, doposci e cappellacci di lana.
"Evviva: andiamo ad aspettare la mezzanotte sulle piste!", vociò gaio l'informe gruppone adeguatamente abbigliato mentre guadagnava l'uscita.
"...", rispose pietrificato il manipolo di minigonne fascianti e mocassini appena lucidati. Perché, a ben guardare, anche gli esponenti maschili della comitiva avevano optato per un abbigliamento leggero ed urbano.

Dopo interminabili minuti trascorsi sulle scale a guardarci con gli occhi persi. Il più "coraggioso", il più incosciente, il montone capo del gregge di pecoredilanaprivate cui appartenevo, si erse nel suo metro e 60 cm scarsi di altezza e, forte del calore infusogli dal limoncello bevuto prima di uscire, esclamò con voce stentorea: "Non vorremo mica farci ridere dietro da questi? Non vorremo mica fare la figura dei soliti fighetti di città? Andiamo anche noi sulle piste!", urlò precipitandosi verso l'uscita.
E noi, idioti, dietro a lui.

Ovviamente io, che mi metto il golfino anche a luglio, cercai di oppormi.
"Ma guardate che moriremo di freddo."
"Quante storie! Dovremo resistere solo pochi minuti."
Pochi minuti.
Pochi minuti un par di balle.
Stazionammo sulle piste da sci dalle 11 all'una di notte.
Voi avete idea di cosa voglia dire stare due ore vestiti da sera in piedi su una pista da sci? Io sì.
Voi avete idea di cosa voglia dire avere talmente freddo da desiderare di darsi fuoco? Io sì.
Voi avete idea di cosa si provi ad avere un vestitino leggero con sopra un cappottino altrettanto leggero e, per sbaglio, finire in mezzo ad una battaglia di palle di neve? Io no. Ma la mia amica C sì, e ancora va in analisi per superare il trauma!
Fu un vero miracolo che nessuno di noi perse per il freddo qualche falange. Io, a distanza di anni, ancora mi conto con orgoglio e commozione le mie dieci cazzutissime dita dei piedi che, nonostante l'ipotermia acuta e contro ogni legge fisica, quella notte scelsero di rimanermi fedelmente attaccate.

Grazie care, approfitto di questa occasione per ringraziarvi pubblicamente.

Furono le 2 ore più lunghe della mia vita e, ad onor del vero, non solo della mia. Ben presto lo sconforto ci travolse tutti e, con l'ultimo briciolo di orgoglio e folle irrazionalità rimastoci, decidemmo di non ripresentarci davanti all'uscio dei simpatici montanari che ci avevano tirato un pacco sì grande e sì gelido. E prendemmo a vagare sconsolati per il paese, cercando riparo in ogni locale, ogni baretto, ogni pertugio dell'amena località sciistica.
Ormai eravamo in giro e il capodanno l'avremmo festeggiato così: a membro di segugio!

Ogni posto era strapieno e noi eravamo troppi: mentre il primo riusciva a raggiungere il bar e ordinare qualcosa, due terzi del gruppo erano ancora fuori a spingere, spintonare, e cercare con poca fortuna di entrare.
Nel disperato ed inutile tentativo di scaldarci ci attaccammo ad ogni forma di alcool disponibile. Qualcuno vi dirà di avermi vista addirittura sfondare a spallate la vetrina di una profumeria e scolarmi una confezione da mezzo litro di Just Cavalli Parfume. Costui mente sapendo di mentire.
Era Chanel numero 5. Sono una donna di classe io.
La mia amica S, fino a quel momento astemia, in stato di evidente alterazione alcolica, mi costrinse ad accompagnarla in bagno. Nel senso che la dovetti proprio accompagnare fino a dentro il cesso, e tenerle la manina mentre lei, colta da un attacco di ridarella, cercava di mantenere l'equilibrio su una turca e non farsela sulle scarpe.
Che bei momenti.

Alla fine tornammo stremati, bagnati e incacchiati come bisce nel nostro monolocale. Ci insaccammo come cacciatorini nei sacchi a pelo e perdemmo i sensi su ogni superficie utile: letti, divani, tappeti, vasche da bagno e tavoli da pranzo.

Io e il fedele amico O scappammo a valle appena si fece giorno. Senza guardarci indietro. E con Michele Zarrillo e la sua stracacchio di rosa blu a farci da colonna sonora.
Tornai dalla Germania per passare le vacanze di Natale in terra natia.
Trascorsi il 24 ed il 25 nel caldo soffocante abbraccio parentale.
Azzardai un 26 davanti ad un piatto di tagliatelle al ragù insieme al mio ex. Per dimostrare che potevamo essere amici, che l'andare all'estero mi aveva fortificata, che non soffrivo più per lui e che, mentre l'infingardo guardava con rinnovato interesse la nuova cosmopolita versione di me, io sarei stata in grado di mantenere il controllo e non buttargli le braccia al collo nel tentativo di sedurlo oppure strangolarlo.

Infine venne San Silvestro. Una festa in montagna con una trentina di amici a cui piaceva sia la vecchia sia la nuova versione di me. E che non si offendevano quando dicevo loro di voler ripartire ma, anzi, programmavano gite per venirmi a trovare e fare un poco di sana bisboccia crucca assieme.
Tanti mesi di lontananza però avevo finito col farmi dimenticare o sottovalutare qualche insignificante particolare riguardo al simpatico gruppo con cui solitamente mi accompagnavo.
Avevo dimenticato, per esempio, che alcuni di loro fossero degli emeriti deficienti con cui uscivo solo in quanto amici di amici di amici di amici.
Avevo dimenticato che S e B, fino a poco tempo prima amiche morbosamente indivisibili, ora non si parlavano più e avevano trasformato la comitiva in una sabauda versione della Guerra Fredda, con tanto di muro di Berlino a forma di gianduiotto.
Avevo dimenticato che E non sarebbe venuta alla festa perché P si era innamorato di un'altra, e lei stava ancora a raccogliere i cocci. Che, per quanto volessi bene a P, l'avrei volentieri preso a mazzate per tutto il male che aveva fatto alla povera E.
Avevo dimenticato persino che il mio caro amico O, con cui mi trovai a fare tutto il viaggio in macchina dalla pianura fino alla vetta, avesse come indiscusso mito musicale Michele Zarrillo. E, infatti, mi toccarono due ore filate di "Una rosa blu" senza soluzione di continuità.

Ma tutto ciò non aveva importanza. A Capodanno le cose vecchie e brutte si buttano dalla finestra e si tengono solo quelle belle che ci accompagneranno per tutto l'anno nuovo.
Tutto si supera.
Tutto o quasi.

Ognuno di noi aveva generosamente contribuito a costituire un importante tesoretto da spendere in salatini, bevande varie e soprattutto alcolici. Tanti alcolici.
Arrivati tra i monti, mentre io ed altre giovani nonne Papere esibivamo orgogliose i dolci preparati per l'occasione, mi accorsi che tutto quello zuccheroso ben di Dio avremmo dovuto mandarlo giù con l'acqua del rubinetto. Sul tavolo, infatti, facevano bella mostra di sé solo una bottiglia striminzita di Limoncello ed una di Vodka scadente. Nient'altro.

"E la birra?"
"Non l'abbiamo presa"
"Davvero un colpo basso per una che è appena arrivata dalla Germania. Vabbè, vi perdono. Ma il resto della roba da bere dov'è?"
"Da nessuna parte: è tutto qua."
"State scherzando, vero? Ma che c'avete fatto con tutti quei soldi?"
E a quel punto gli occhi dei quattro mentecatti responsabili dell'approvvigionamento brillarono di lucida follia. "Guarda che meraviglia", mi dissero orgogliosi, esibendo una vera e propria santa barbara: petardi, tric e trac, bombe a mano e altre fesserie simili.

Partiamo dal presupposto che io odio i cosiddetti "botti" e che quindi magari non sarò proprio obiettiva, ma a voi sembrerebbe normale per una spesa di 30 persone comprare solo un pacchetto di patatine sbriciolate, appena un litro e mezzo di bevande, ma una quantità tale di petardi da far venir giù una valanga?

Superato lo shock della spesa e della mia conseguente crisi isterica, tutti noi, giovani e belli, procedemmo alla vestizione.
La festa vera e propria si sarebbe tenuta in un appartamento poco distante e molto più grosso, dove ci aspettava un altro gruppo di amici di amici di amici di amici di amici.

Continua...
Il breve ritorno in Italia in occasione delle feste natalizie rappresenta un importante spartiacque per lo studente Erasmus tipo. Seppur per pochi giorni, si torna a casa. Si torna da mamma e papà. Si torna a godere di tutti gli inutili e intossicanti comfort a cui si è dovuto e potuto facilmente rinunciare pochi mesi prima.

Io lasciai Berlino una fredda e grigia mattina, salutata dai miei internazionali amici con la passione e lo struggimento che si dovrebbe a un giovane soldato diretto al fronte. Partii con il cuore pieno di malinconia e lo zaino vuoto per poter fare incetta di generi di prima necessità: la mozzarella di bufala, il parmigiano reggiano, cd, libri e qualche top sexy. Il minimo indispensabile per rendere più confortevole la seconda parte della mia permanenza in terra germanica. Del resto era solo quello che importava.
I parenti mi aspettavano in Italia e non vedevano l'ora di riabbracciarmi ma io, in quanto studente Erasmus tipo, me ne fregavo altamente. Desideravo solo che i giorni italici volassero via in fretta per poter tornare alla mia estera esistenza.

Atterrata a Torino provai fastidio per tutto: colori, odori e rumori. L'accento torinese? Orribile! Gli abiti italiani? Tristi! Ed il profumo del Curry Wurst? Dov'era finito il profumo del Curry Wurst?
Appena le porte automatiche del gate si aprirono venni travolta dall'amorevole e stritolante abbraccio dei miei familiari. Io all'inizio reagii riottosa e infastidita da tanto latino e chiassoso amore ma, appena tornata a casa, mi abituai rapidamente al trattamento di riguardo che mi era riservato. Divano, televisione, patatine, il tutto condito dal lusso di non aver nulla di urgente di cui occuparmi. Un rientro nell'accogliente bozzolo dell'infanzia prolungata. Il benvenuto all'emigrante che torna a casa, alla figliola prodiga, alla ragazzotta che in Germania non mangia abbastanza, "guarda come ti sei fatta magra, ci pensa mamma tua adesso a te".

E' strano però, come pochi mesi lontani dalla mia patria, mi facessero sentire un'aliena. Ero partita a settembre e a dicembre amici e parenti mi sembravano estranei e vagamente fuori di testa. MammaCole su tutti.
"Cristina ha fatto questo", diceva, "Cristina ha fatto quest'altro. Cristina è tanto brava."
Tutto ciò mentre io allibita mi chiedevo chi cacchio fosse questa Cristina. Pur avendo una famiglia numerosa, anche indagando fino alla terza generazione di cugini, a me di "Cristina" non ne risultava neanche una.
"Scusa, madre cara, non per essere indiscreta, ma sta Cristina chi cazz è?"
"Come non lo sai? Dove hai vissuto finora? E' una delle concorrenti del Grande Fratello!"
Avevo lasciato una nazione più o meno sana e, al mio ritorno, mi trovai in mezzo ad un branco di teledipendenti completamente folli.
Persino l'alternativa AmicaMeri sentì il bisogno di avvertirmi: "Guarda che qua sono diventati tutti pazzi. L'unico modo per sopravvivere è lasciarsi assimilare. Ormai esiste un solo argomento di conversazione: il Grande Fratello. Pure se non lo guardi ne devi conoscere le dinamiche, altrimenti sei destinato alla solitudine e all'isolamento sociale."
"Come quando in prima superiore eri un Paria se non guardavi Beverly Hills 90210?"
"Peggio. Molto peggio."

Ma io mi sentivo troppo internazionale e cool per occuparmi di tali facezie. L'inizio della fine del mio paese come l'avevo conosciuto fino ad allora non era più importante della mia nuova pettinatura da tedesca, del mio nuovo appartamento a Prenzlauerberg, e dei messaggi dei miei nuovi amici Erasmi che, ritornati in patria anch'essi, ululavano alla luna in attesa del ritorno all'amata Berlino.

Passai il Natale a scofanarmi panettoni e cannoli siciliani, e ad imboscarmi in valigia pandori da esportare oltre confine. Poi mi preparai per il capodanno: una notte di divertimento tra i monti piemontesi insieme a una ventina di cari vecchi amici. O almeno così credevo.

Continua...

N.d.A: questo post era nato per raccontarvi del mio Capodanno durante l'Erasmus ma l'introduzione mi ha un po' preso la mano e così, per il tanto atteso San Silvestro del 2001, dovrete ancora avere pazienza.
No, non l'ho mica fatto perché sono sadica. O forse sì?

N.d.A(2): nel frattempo sappiate che su SettePerUno è stata pubblicata la seconda parte del mio racconto "151°". L'avete letta? Che state aspettando?

L'11 marzo scorso in Giappone si è verificato un terremoto terribile, seguito da uno Tsunami devastante.
Questo lo sapete tutti.
In seguito al sisma più di una centrale nucleare ha riportato danni importanti.
Sicuramente sapete anche questo.

Non avevo ancora trattato la recente catastrofe perché, dal punto di vista dell'informazione, non avevo niente di originale o esclusivo da offrirvi e, dal punto di vista umano, ero in silenziosa e scaramantica attesa di una buona notizia da condividere.

Una calamità di tale portata è difficile da immaginare, il numero di morti e dispersi può sopraffare. E così, credo che faccia parte della natura umana distogliere lo sguardo dal disastro nella sua interezza e concentrarsi sul particolare.
Con la testa ed il cuore si può cercare di essere vicini ad un popolo, ma è sempre una vicinanza artefatta e quasi irreale. Loro poi sono così lontani. Noi siamo qua e loro là, dall'altra parte del mondo.
Istintivamente il pensiero si allontana dal popolo nipponico nella sua globalità, fatta di volti sfocati e stranieri, e si focalizza su visi e luoghi a noi familiari. Nelle ultime due settimane cittadini di tutto il mondo hanno cercato di rintracciare amici e parenti che si trovavano nel paese dei ciliegi. Hanno chiesto notizie e rassicurazioni.

Io, ad esempio, mi sono immediatamente attivata per contattare lui: Fumiki. Il mio compagno di Erasmus. L'uomo che confezionò per me meravigliosi origami che ancora conservo gelosamente. Il pazzo che a colazione mangiava carbonara fredda. Il samurai che si sobbarcò il mio trasloco senza bisogno che glielo chiedessi e senza possibilità alcuna che potessi rifiutare il suo aiuto.

Anche se non avevo sue notizie da anni, l' ho cercato prima sul vecchio indirizzo e poi ho setacciato la rete in cerca di un suo nuovo recapito.
Ho spedito due email ed ho atteso.
Non lo sentivo da tantissimo tempo, non lo vedevo da un'eternità, ma volevo saperlo al sicuro con le sue stramberie ed il suo sorriso timido, con la sua austerità e le sue camice improbabili, con i suoi capelli neri come l'inchiostro ed il suo cappottone color cammello.

I giorni passavano e l'ansia cresceva.
Magari non legge spesso la sua posta, mi dicevo.
Ma sta bene, deve stare bene per forza, cercavo di autoconvincermi.
Ho aspettato pazientemente.
Ho pregato anche se non credo più da tempo, ma si sa che in certi momenti uno spera di essersi sbagliato e che lassù ci sia davvero qualcuno in ascolto.
Ho ricordato i nostri discorsi su Buddha e cristianesimo, Italia e Giappone, storia e attualità. Ho pensato a quanto eravamo giovani e pieni di progetti per il futuro. E mi sono un po' commossa.
Ho continuato ad aspettare e sperare.
Anche se non dovesse rispondermi non significa mica niente, mi ripetevo, possono esserci mille buone ragioni.

Stasera, dopo quasi due settimane è arrivata finalmente l'email che tanto attendevo.
Ed ora sono felice come una bambina a Natale.

Forse il Giappone non è dall'altra parte del mondo, forse le distanze non contano, forse non importa neanche per quanto tempo non si rimanga in contatto. Molte persone entrano nella nostra vita e sono destinate a rimanerci per sempre. Molte persone distanti appartengono comunque alla stessa enorme comunità.
Fumiki non lo sa, ma anche lui fa parte della storia della famiglia Cole, altrimenti non si spiegherebbe perché Mamma, Papà, sorellaCole e Ciccio stasera abbiano gioito per lui e perché io ora stia condividendo questa bella notizia con tutti voi.

Poche righe dedicate al mio amico ritrovato ed alla sua famiglia, felice di saperli al sicuro.
Poche righe dedicate ad un popolo ed una terra che stanno là, dall'altra parte del mondo, dove sorge il sole ed inizia il giorno.
Si sta avvicinando a grandi passi il Momento.
Quale?
Come quale?
Ma è ovvio!
Il Momento in cui lo studente Erasmus medio, in partenza per il primo semestre, prende coscienza del fatto che dovrà prepararsi dei bagagli contenenti il necessario per almeno 6, e dico 6, e ribadisco 6, mesi all'estero.
Se lo studente è maschio l'impresa risulta difficile, ma se lo studente è femmina (e dunque studentessa) l'impresa assume dei contorni titanici.

Ma Jane vostra, che vi vuole bene e sa che questa arancione paginetta è spesso meta di Erasmi in cerca di aiuto, ha deciso di venirvi incontro e di condividere con voi la propria esperienza, fornendovi in questo modo qualche indicazione di massima.
Tutto ciò perché?
Ma che domande?
Non è evidente?
Perché lei vi ama, giovani ventenni in partenza.
Perché lei vi è affezionata quanto una sorella, vabbè diciamo quanto una zia. Una zia ancora giovane e piacente, però!
E soprattutto perché questo vecchio post Jane ce l'ha sul groppone da una vita ed ora ha deciso di liberarsene. Ecco.

Chiunque abbia fatto l’Erasmus lo sa: fare stare nei canonici 20 kg di bagagli lo stretto indispensabile per sei mesi all’estero è un’impresa che richiede nervi saldi, creatività, elasticità mentale ed una certa dose di lucida follia.

In primo luogo bisogna selezionare. Decidere cosa è davvero utile e insostituibile e cosa no. Le scarpe preferite? Impossibile rinunciarvi. La tinta per rimanere fintamente e sfacciatamente bionda? Più importante delle aspirine. Il top da panterona? Mai senza. La moca e il parmigiano? Certo. Sarà patetico ma ognuno ha pur diritto alle proprie perversioni.
Il secondo passo consiste nell’ armarsi di santa pazienza e procedere al riempimento della valigia con la stessa precisione che richiederebbe un’opera ingegneristica. Nulla può essere lasciato al caso, tutto deve essere incastrato al millimetro e pesato fino all’ultimo etto: bisogna piegare ed arrotolare, mettere i capi pesanti sotto e quelli più leggeri sopra, infilare i calzini dentro le scarpe e disporre ciò che avanza come un florilegio ad ornare il tutto e soprattutto ad occupare gli spazi morti.
E quando alla fine, inevitabilmente, nonostante le rinunce e i calcoli, qualcosa sembra destinato a non trovare posto, rimane l’ultima possibilità, la risorsa estrema, l’uscita d’emergenza.
Lo si indossa durante il viaggio.
Il piumino a settembre? Quattro paia di mutande? Bracciali, collanine ed anelli? Si. Si. Si.
Fino ad assomigliare all’omino Michelin bardato come la Madonna di Pompei? Certo, perché no?
Se si ha l’opportunità di vivere un’avventura fantastica come sei mesi all’estero si deve pur essere disposti a rinunciare a qualcosa: al proprio senso del ridicolo, per esempio.

Per quanto le valigie possano sembrare piene, per quanto il peso possa apparire eccessivo ed ingestibile, per quanto ci si possa sentire a disagio con dieci strati di roba addosso, bisogna star sereni e non preoccuparsi.

Al ritorno sarà peggio.

Ben un giorno annunciò: "Presto si trasferirà a Berlino il mio carissimo amico irlandese: Alan. Vi piacerà!"
L'innocente dichiarazione dell'ignaro britannico fece scattare in tutto l'Erasmico Gineceo vivide e niente affatto innocenti immagini mentali. La mia, dal basso verso l'alto, era la seguente: scarpe da ginnastica vissute, jeans stropicciati ad avvolgere un paio di celtiche gambe muscolose, maglione teso sopra ampio torace, irresistibile sorriso, barbetta incolta, occhi cerulei, capelli scompigliati e magari, giusto per non farsi mancare nulla, anche una chitarra in spalla. 
Alan divenne rapidamente il più gettonato protagonista delle nostre fantasie ed il più abusato argomento delle nostre conversazioni. Ognuna si nutriva dei deliri delle altre, fino a produrre un mostro di perfezione: bello, sexy, simpatico, arguto e sessualmente instancabile. Del resto nel momento in cui si sogna è giusto non porsi alcun limite, anzi. 
Quel poveraccio se ne stava in Irlanda a preparare i bagagli totalmente all'oscuro di essere già diventato una figura mitica a Berlino. Il tapino, probabilmente, se avesse saputo quanto fossero alte le aspettative su di lui, se ne sarebbe restato a casa sua con la porta chiusa a doppia mandata.

Una sera inaspettatamente accadde il miracolo: incontrammo per caso Ben ed Alan per strada. Ci fermammo a chiacchierare e dopo 5 minuti i due giovani andarono per la loro strada e noi per la nostra.
Rimaste sole, eccitate come dei criceti, cominciammo a parlare tutte assieme: "Ma l'avete visto???" "Si!!!" "Ma quant'è gnocco???" "Tanto!" "Ed i capelli?" "Folti e meravigliosi" "Con i riflessi ramati." "Siii, che meravigliosi riflessi!" "E la voce?" "Stupenda. Certo non che abbia parlato molto, ma quel poco è bastato" "Si. Ho sentito un brivido lungo la schiena quando si è presentato e ha detto A..." "Ha detto Alan, vero?" "Certo, almeno credo." "Io ero tutta emozionata non è che lo stessi ascoltando molto" "Ma certo che ha detto Alan. Forse." "Qualcuna di voi l'ha sentito dire Alan????" "Io no" "Neanch'io" "E poi è strano che Ben non ci abbia avvertito del suo arrivo" "Già, sembrava così desideroso di farcelo conoscere" "E l'accento?" "Era irlandese?" "Io non ho sentito nessun accento." "Neanch'io" "Parlava così bene tedesco" "Proprio come un..." "...tedesco" "Oh cacchio!" 
Eravamo state vittime di un increscioso episodio di Allucinazione Collettiva. Appena incontrato Ben con un ragazzo che non conoscevamo avevamo desunto che costui fosse Alan. Eravamo state cieche e sorde di fronte a tutti gli indizi che indicavano il contrario. Il canto ubriaco delle nostre ovaie aveva coperto il richiamo del buon senso. Avevamo fatto la figura di un gruppo di ninfomani cretine!

Qualche settimana dopo l'imbarazzante episodio, conoscemmo finalmente l'uomo che per tanto tempo avevamo atteso, l'irlandese che aveva mandato i nostri pochi neuroni in pappa, l'essere sulle cui spalle gravavano tutte le nostre aspettative.
I capelli non erano folti, le gambe non erano muscolose ed il torace non era ampio. In effetti, più che un Dio del sesso, Alan sembrava un morbido orsacchiottone. Un ragazzone simpatico e gentile con (pochi) capelli rossi, profondi occhi azzurri e un'inclinazione particolare per le tragedie sentimentali.  Ogni volta che gli piaceva una ragazza questa, nel giro di 24 ore, finiva a letto con qualche amico di lui. Perché egli, oltre ad avere un pessimo gusto nello scegliere le donne, ne aveva uno anche peggiore nello scegliersi gli amici: tutti più belli, privi di sensibilità, estranei a qualsiasi forma di empatia e soprattutto bulimici sessuali. Ed anche quando riusciva a sublimare l'innamoramento con una storia vera e propria, nel giro di poco veniva sistematicamente mollato o per un ragazzo migliore, eventualità a cui lui reagiva con una grande signorilità, o per un lavoro dall'altra parte del mondo, eventualità che lo trasformava in un cane abbandonato in autostrada, o per un'altra donna, eventualità che gli procurò un abbonamento decennale dallo psicanalista.

Alan era decisamente sfortunato in amore, ma la colpa non era solo della cattiva sorte. Se, invece di provarci sempre con le ragazze sbagliate, ogni tanto ci avesse provato con quelle giuste forse le cose sarebbero andate diversamente.

Caro Alan, 
a distanza di 10 anni è giunto il momento che te lo dica. 
Se, putacaso, invece di provarci con le altre, ci avessi provato con me: io ci sarei stata.
Pirla!!!

Con affetto,
la tua amica Jane ( quella a cui volevi bene come ad una sorella)



Continua...

Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17
Il Sedicesimo capitolo del mio Erasmus ha destato molta curiosità. O meglio l'australiano avvolto in uno striminzito asciugamano ha destato molti pruriginosi quesiti da parte, soprattutto, delle mie affatto morigerate lettrici.
Purtroppo l'incontro in cucina tra me e l'atletico giovine rappresentò di gran lunga l'apice del nostro rapporto, ma per rispondere alle vostre domande e per mio personale diletto ho deciso di proporvi tre finali alternativi. Scegliete voi quello che vi aggrada di più.

Com'è andata a finire tra Jane e Tom? Che fine ha fatto l'australiano (semi)nudo?

Opzione A. Sex, Boomerang and Spaghetti
Il primo incontro tra me e Tom segnò l'inizio di una bollente relazione. Zompavamo come canguri in ogni dove: in camera, in corridoio, sotto la doccia o dentro la stufa; ci esibivamo in rocamboleschi amplessi da koala: appesi fuori dalla finestra, avvinghiati ad un palo della luce o in bilico sul cucuzzolo della Fernsehturm; perdevamo ogni freno inibitore come due passionali ornitorinchi nel reparto materassi dell'Ikea o in metropolitana nell'ora di punta. Eravamo la gioia dei guardoni teutonici e dei fotografi del National Geographic.
Vivevamo l'uno per l'altra. Lui intagliava boomerang e me ne faceva dono: ogni amplesso un boomerang, ogni boomerang un amplesso. Io gli preparavo cofanate di spaghetti con le polpette, cantando con ardore tutto il repertorio della canzone napoletana.
Il nostro idillio continuò fino alla sua partenza.
Tom cercò fino all'ultimo di convincermi a seguirlo, ma io non me la sentì di trasferirmi dall'altra parte del mondo e decisi di rimanere a Berlino, spezzando così il tenero cuoricino australe.

Ora lui è il ricco proprietario della rinomata spaghetteria di Sidney "Sex, Boomerang and Spaghetti" e spesso lo si può trovare fuori dalla porta, mentre malinconico intona "O Sole mio".
Io sono diventata milionaria grazie al commercio di manufatti australiani.

Opzione B. "Come ho potuto????"
Tom mi corteggiò durante la sua intera permanenza in Germania. Mi riempì di fiori, mi recitò poesie, mi cantò canzoni e m'intrattenne anche con veri e propri spettacoli degni di Broadway. Io, offesa dal nostro traumatico primo incontro, rimasi cieca e sorda di fronte alla notevole avvenenza e l'indubbio talento dell'australiano ignudo.
Egli partì sussurrandomi tra le lacrime: "Come with me, pleaseeeeeeee", ma io non esitai a voltargli le spalle, infastidita da tanta melensaggine.

Ora lui lavora stabilmente negli Stati Uniti, dove si fa chiamare Hugh.
Io sono in cura da 5 psicanalisti e la mia principale attività consiste nello sbattere il capoccione al muro frignando: "Come ho potuto? Come ho potuto??? Come ho potuto????????"



Opzione C. Un australiano tra i monti.
Superato lo shock dell'incontro iniziale, Tom ed io iniziammo a conoscerci ed a piacerci. Tra una cenetta innaffiata da abbondante vino rosso ed una maratona di truculenti serial televisivi, finimmo con l'innamorarci teneramente.
Complicità, grandi risate e surreali conversazioni hanno reso unica la nostra relazione.

Lui ha mollato tutto per me, si è trasferito in Italia, ha trovato lavoro in Trentino, è ingrassato trenta kg ed ora si fa chiamare Ciccio.
Io ho aperto un blog per condividere con il resto del mondo le nostre avventure.


Quale finale preferite?
Molti giovani, che si trovano a vivere per un breve periodo all'estero, tornano in patria cambiati, non solo nello spirito, ma anche e soprattutto nell'aspetto.
Io non feci eccezione.

La prima vittima della mia smania di rinnovamento fu la capigliatura che, oltre a subire un progressivo ed inesorabile mutamento dal castano scuro al biondo VorreiEssereSvedese, venne brutalmente ridotta di volume e lunghezza dalle mie stesse mani durante una serata di solitario e sforbiciante delirio.
Mi ero scocciata dei miei capelli, da sciolti avevo un capoccione ingestibile e da legati sembravo una giovane signorina Rottermeier. Era assolutamente necessario prendere provvedimenti!
L'idea di rivolgermi ad un parrucchiere tedesco non mi sfiorò neanche per un momento e preferì fare tutto da sola.
Il risultato fu al di là delle mie più rosee aspettative. Da un insano gesto, che avrebbe potuto costringermi a girare con un sacchetto in testa per almeno un paio di mesi, scaturì invece un taglio molto carino, che avrei conservato per parecchio tempo.

Fu molto più graduale, ma decisamente più devastante l'effetto che l'Erasmus ebbe sul mio guardaroba.
I tedeschi hanno tante qualità, ma non sono certo famosi per il buon gusto nel vestire. Il loro problema, secondo me, sta nell'approccio troppo disinvolto con l'abbinamento di capi e colori differenti. Approccio che può diventare contagioso come il raffreddore.
Mi bastarono alcune settimane in Germania e gli accostamenti, che a Torino avrei definito brutti e di cattivo gusto, divennero ai miei stessi occhi mettibili, interessanti o addirittura "cool".
Questo muovermi al di fuori degli schemi e dei percorsi conosciuti mi diede un senso di vertigine e libertà. La sensazione era tanto piacevole che me la portai dietro anche al ritorno in Italia e ci misi anni per riacquistare il senso del decoro.

Ma se con capelli ed abiti ci vuole poco, se ci si pente, a ritornare sui propri passi, ci sono alcune scelte definitive che lasciano segni indelebili.
Io, ovviamente, feci anche una di quelle scelte.
Un sabato pomeriggio ci ritrovammo in tre in uno storico negozietto del centro. Lui trafficava con i suoi attrezzi, bofonchiando nel proprio idioma. Io, sdraiata sul lettino, mi guardavo attorno, preoccupata che fosse tutto realmente sterilizzato e monouso. Eli, seduta accanto a me, si occupava del supporto morale.
L'oracolo segnò anche quest'occasione con una delle sue ispirate frasi: "Una mia amica l'ha fatto in un tendone dietro ad una stalla, ma è ancora viva."
"Sticaz...ouch!", non ebbi neanche il tempo di risponderle che avevo già il mio nuovo piercing all'ombelico.

Una studentessa Erasmus con una nuova pettinatura, un nuovo guardaroba ed un piercing. Ero praticamente un cliché vivente.

Continua...

Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16
Marije era la coinquilina perfetta: pulita, affabile e sempre disponibile.
In verità, a voler essere proprio pignoli, un difettuccio ce l'aveva: ospitava continuamente gente a casa.
La sua vita randagia, divisa tra Olanda, Svizzera, Australia e Germania, l'aveva portata ad avere amici sparsi per tutto il mondo. Amici che periodicamente la venivano a trovare.
Tutto questo via vai era molto pittoresco e divertente, ma ogni tanto un po' di tranquillità non mi sarebbe dispiaciuta. Fare colazione con emeriti sconosciuti o sorprendere coppie nordiche che copulano sotto la doccia può anche essere divertente, ma dopo un po' viene a noia.
Ad onor del vero, devo ammettere che tutto questo traffico aveva un suo lato positivo. Ogni volta che doveva arrivare qualcuno, Marije si metteva a pulire casa da cima a fondo e, data la frequenza con cui arrivavano ospiti, l'appartamento era sempre lindo e splendente senza bisogno che io alzassi un dito.
Lei entrava in cucina con secchio e scopettone ed io capivo che di lì a poco avremmo avuto visite.

La prima sera nel nuovo appartamento la trascorsi a chiacchierare con un ragazzo olandese.
Preda della mia solita ansia da prestazione, desiderosa di risultare simpatica e smaniosa di fare "la donna di mondo", non trovai niente di meglio che raccontargli quella volta che, durante un viaggio in Belgio, mi ero spinta fino in Olanda.
In quell'occasione avevo visitato la cittadina di Maastricht, che non mi aveva colpito particolarmente e che quella sera definì senza mezzi termini: anonima ed insignificante.
"Io sono di Maastricht", disse lui asciutto.
Per un attimo sperai che quello fosse un esempio di ironia olandese. Una battuta. Uno scherzo.
Ed invece no.
Lui non era un olandese ironico in vena di spiritosaggini, ma io ero decisamente un'italiana cretina in vena di figuredimerda.

Un giorno aiutai Marije a preparare una luculliana cenetta per due suoi amici: una ragazza svedese ed il di lei fidanzato.
L'innamorato era nuovo di pacca, venuto fino a Berlino proprio per essere presentato alla mia coinquilina.
Lei era il prototipo perfetto della bellezza nordica: capelli color oro, occhi azzurri, zigomi alti ed un corpo aggraziato.
Lui aveva il fisico del Gobbo di Notre Dame, l'eleganza di Homer Simpson e la simpatia di Puffo Quattrocchi.
Marije, superato lo shock iniziale, esibì per tutta la sera un sorriso tirato, molto simile ad un ringhio, mentre io, zitella ma felice, capì finalmente il profondo significato del detto "meglio soli che male accompagnati".

La mia accondiscendenza nei confronti dei continui ospiti vacillò quando mi venne annunciato l'arrivo di alcune amiche.
Sette.
Sette amiche svizzere.
Nove donne ed un solo bagno. Credo che siano scoppiate guerre sanguinose per molto meno!
Il folto gruppo si fermò per una lunga, lunghissima settimana, dormendo spalmato su letti, brandine e materassini. Un accampamento in piena regola.
Questa affollata visita cadde proprio nel bel mezzo della sessione dei miei esami e più di una volta, esasperata dalla confusione ed il chiacchiericcio, ebbi la tentazione di soffocare nel sonno tutte e sette le galline starnazzanti.
Per fortuna non lo feci e la mattina di una prova scritta trovai, attaccato alla porta della mia camera, un post-it d'incoraggiamento firmato da tutto l'elvetico gruppo vacanze.
Erano molto fastidiose, ma sapevano farsi voler bene.

Ma l'ospite numero uno, l'ospite di tutti gli ospiti, fu lui: l'Australiano.
Tornando a casa un pomeriggio, entrai in cucina e mi trovai di fronte ad un bellissimo ragazzo coperto solo da un asciugamano striminzito avvolto intorno ai fianchi.
"Ciao! Io sono Tom, e tu?"
"Io sono Jane e vivo qua."
"Sei l'Italiana? Io sono stato in vacanza in Italia, mi hanno insegnato tantissime parole", e mi vomitò addosso una serie di parolacce e volgarità che avrebbero fatto arrossire la più navigata delle peripatetiche.
Alla fine mi guardò tutto sorridente e fiero di sé, come un bimbo che ha appena recitato la poesia di Natale ed aspetta l'applauso dei nonni.
Io abbozzai un sorriso e lo perdonai immediatamente. Era evidente che non fosse completamente consapevole di tutto ciò che aveva detto.
Era carino e mezzo nudo, non potevo pretendere che fosse anche sveglio.

Continua...

Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15
"Sarai l'ultima tra di noi a trovare casa, ma vedrai che sarai quella a trovare il posto migliore"
Con queste profetiche parole Eli si congedò.

Io rimasi da sola a leggere l'annuncio. Rispondeva ad ogni mio desiderio: giusto il quartiere, perfetto il periodo, onesto l'affitto.
Questa era la mia ultima occasione.
Da un lato avevo la nanetta odiosa; dall'altro il gattaro-serial killer; di fronte, splendente, una perfetta via d'uscita.

Il giorno dopo mi recai all'appuntamento.
Il palazzo era il classico vecchio edificio della Berlino est: scrostato e trascurato, ma deliziosamente bohemienne.
Venni accolta da Anja, la proprietaria tedesca e Marije, la coinquilina olandese.
La prima a gennaio sarebbe partita per trascorrere qualche mese in un'università brasiliana e voleva affittare la sua stanza dal primo di gennaio al 15 aprile. Mentre parlava del Sud America nei suoi occhi non si leggeva tanto l'entusiasmo accademico, quanto quello per le lunghe spiagge bianche e soprattutto per gli scultorei ragazzi carioca strizzati in micro costumini.
La seconda era una studentessa erasmus, olandese di nascita, svizzera d'adozione ed australiana da parte paterna. Carina e simpatica, per mettermi a mio agio dichiarò di saper parlare un po' d'italiano. In realtà risultò subito chiaro che sapesse dire solo quattro parole in croce, ma io apprezzai comunque l'impegno.

L'appartamento era fantastico, la camera meravigliosa, Anja gentile, Marije uno zuccherino.
Era decisamente tutto troppo bello per essere vero.
Le probabilità che una tale fortuna potesse capitare a me erano scarsissime.
"In quanti hanno già visto l'appartamento?", leggasi "Che posto occupo in graduatoria? Sono almeno nella top 100?"
"Nessuno, sei la prima. Abbiamo appena messo l'annuncio."
"Io avrei un po' di fretta. Quanto ci vorrà per sapere qualcosa?", leggasi "Ditemi subito che preferireste essere morse da un coguaro piuttosto che affittare la stanza a me e togliamoci il pensiero!"
"Se vuoi te lo diciamo subito: per noi vai bene tu."
"Danke", leggasi "Alleluia, Alleluia, Alleeee-luia"

Marije ed io avremmo diviso per tre mesi e mezzo un appartamento da sogno in Marienburgerstrasse a Prenzlauerberg.

Eli, la profetessa romana, aveva avuto ragione.

Continua...

Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14
Scontenta per la posizione periferica dello studentato, a Novembre compilai il modulo di rinuncia alla mia camera. Dal momento della consegna avrei avuto un mese a disposizione prima di dover andarmene.
30 giorni per trovare l'appartamento dei miei sogni, 30 giorni per cercare un nuovo posto dove stare, 30 giorni per non finire a dormire sotto un ponte.
30 giorni possono essere tanti o pochissimi.
Carica di ottimismo, ma anche di una certa ansia, mi imbarcai nella ricerca della mia nuova casa.

Lo scopo era quello di trovare una stanza in una WG (alloggio diviso tra più adulti, studenti o meno), in un bel quartiere e ad un prezzo ragionevole.
La concorrenza era agguerrita, le offerte (decenti) inferiori alle domande, l'impresa ardua.
Fatica, frustrazione e scoramento sarebbero stati i miei fedeli compagni per alcune intense settimane.

Ogni sabato mattina mi recavo in edicola a comprare i giornali specializzati, spulciavo tutti gli annunci, selezionavo le proposte più interessanti e poi telefonavo per prendere appuntamento. Il momento topico della conversazione era sempre lo stesso:
"Wie ist die Adresse?"

"Sbaragnaustrasse"

"Eh???"

"Superkazzolenstrasse"

"Wasssssss?"
Erano pochissime le volte in cui capivo l'indirizzo al volo, spesso dovevo chiedere lo spelling ed in alcuni imbarazzanti e penosi casi neanche ciò era sufficiente. Allora mi armavo di stradario e pazienza e, andando per tentativi ed assonanze, alla fine risolvevo il mistero e risalivo al nome esatto della via. Un' acuta detective? No, semplicemente una ragazza disperata e caparbia.

Nel giro di un paio di settimane vidi molti appartamenti.
Quelli migliori venivano presi d'assalto da orde di giovani. Ci ritrovavamo in fila, come all'ufficio di collocamento o ad un provino per il Grande Fratello. Non eravamo noi a "giudicare" la casa, ma i futuri coinquilini a decidere se noi eravamo all'altezza del giaciglio offertoci.
Quelli peggiori erano ovviamente molto meno ambiti. Del resto non c'è da stupirsi che non ci fosse la fila per accaparrarsi un sottoscala caro quanto un attico, per godere la gioia di un' ottantenne come coinquilina, o per provare le brezza di vivere tra simpatici spacciatori ed amichevoli Naziskin.

Alla fine, dopo settimane di appuntamenti e molte delusioni, le opzioni vagamente accettabili rimaste a mia disposizione erano solo due. Potevo scegliere se vivere con "Rosemary' s Baby" o lo "Psycho Brother".

Il primo alloggio si trovava nel mio quartiere preferito: Prenzlauerberg (ora entrato a far parte del distretto di Pankow). Vitale polo di attrazione per artisti e giovani provenienti da tutto il mondo, pieno di Caffè, negozi colorati e ristorantini etnici.
Guardai le strade ed i palazzi limitrofi con commozione, iniziai a salire le scale con una rinnovata speranza, bussai alla porta con il cuore gonfio d'attesa. Dopo un secondo l'uscio si aprì, io sfoderai il migliore dei miei sorrisi, ma davanti a me non trovai il tipico fricchettone berlinese o l'ennesimo studente Erasmus, bensì una bambina.
Una bimba con il viso imbronciato e lo sguardo rabbioso.
I miei futuri coinquilini sarebbero dovuti essere un padre single, giovane e belloccio, e la di lui figlioletta, con l'aria dolce e rassicurante della protagonista de L'Esorcista.
Mentre il papà mi mostrava l'appartamento, l'adorabile frugoletto mi lanciava sguardi carichi d'odio.
Mentre sedevamo tutti intorno ad un tavolo, l'angioletto tentava di prendermi a calci.
Mentre parlavamo di affitti e spese, la fetente lillipuziana precisava che: "Io questa in casa non ce la voglio!"
La camera da affittare era enorme e bella, l'alloggio fantastico, il quartiere il meglio che io potessi desiderare, ma l'idea di convivere con la bimba posseduta dallo dimonio mi frenava assai.

Me ne andai con un vago "Mi faccio sentire io" ed affranta arrancai verso la mia ultima destinazione: l'appartamento dello Psycho Brother.
Il quartiere era periferico, quasi quanto quello dello studentato, e l'edificio un casermone in pieno stile sovietico. Una tristezza infinita.
Ad aspettarmi trovai un ragazzo alto e smilzo, proprietario dell'immobile; una ragazza coreana, che si era appena aggiudicata l'ultimo posto decente disponibile, lasciando a mia disposizone uno sgabuzzino con lucernaio; tre gatti piscioni e lo Psycho Brother, fratello del proprietario, chiuso a doppia mandata nella propria stanza perché "preferisce stare per i fatti propri" , "non ama gli estranei" ed "è un po' strano, ma tranquillo".

La casa era carina, ma la brutta posizione, le dimensioni della mia camera e soprattutto la presenza dello strano figuro di cui sopra, mi facevano intravedere terribili quadri futuri. Che andavano dall'obbligo di dividere il mio misero giaciglio con i tre gatti piscioni fino al mio accoltellamento sotto la doccia ad opera dello Psycho Brother.



La mia calda ed accogliente stanzetta a Schlachtensee non mi era mai parsa così bella e sicura.

Tornai a casa terribilmente scoraggiata e, mentre affogavo i dispiaceri in un thè alla cannella, qualcuno bussò alla mia porta:
"Ciao Jane"
"Ciao amichetta Eli"
"Com'è andata la ricerca?"
"Un disastro"
"Non ti preoccupare, ho trovato questo numero sulla bacheca di Fisica. E' l'appartamento perfetto per te!"

Continua...

Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13
Qualche post fa avevo accennato rapidamente ad un misterioso figuro, appassionato di politica e storia italiana, rispondente al nome di Fumiki.
E' giunto il momento che gli dedichi la giusta attenzione, poiché il personaggio merita. Eccome se merita.

Dopo i primi giorni di assestamento allo studentato, iniziai a notare un ragazzo schivo e silenzioso che si aggirava sul mio stesso piano, cucinava nella mia stessa cucina e si lavava sotto la mia stessa doccia.
Io lo salutavo con un garrulo "Hallo", mentre lui rispondeva con un formale e volutamente distante "Guten Morgen".
Tale siparietto venne a ripetersi per giorni, ma io non mi arresi, la sua freddezza non mi fece desistere ed alla fine ebbi la meglio. Una mattina all'ennesimo algido saluto risposi con un sorriso ed una tazzina di caffè fumante. Lui ricambiò con una zuppa liofilizzata.
Seduti alla stessa tavola iniziammo a parlare e raccontarci.
Fu così che nacque un'amicizia.

Fumiki era giapponese e studiava economia.
Dimenticate il tipico giovane nipponico occidentalizzato, buffo e fissato con i congegni elettronici.
Lui proveniva da una famiglia umile, era nato e cresciuto in una zona rurale e cercava di costruirsi un futuro grazie all'impegno e al talento negli studi.
Anche a Berlino seguiva un regime di vita molto spartano, la sera non usciva quasi mai, sfuggiva la confusione e, se c'era abbastanza silenzio nell'Haus 17, lo si poteva sentire suonare lo shakuhachi chiuso nella propria stanza.
Era serio ed a tratti persino cupo. Educato, ma a volte scostante.

Fumiki era pieno di pregiudizi nei confronti degli studenti Erasmus,"una massa di festaioli ubriaconi", e gli italiani, "frivoli, pigri e inaffidabili".
Cercò a lungo di collocarmi in queste due categorie, ma con grande disappunto scoprì che io sballavo tutte le sue ottuse certezze. Uscivo spesso, ma non tornavo ubriaca. Facevo tardi, ma mi svegliavo presto ogni mattina. Mi divertivo, ma frequentavo l'università regolarmente.
Alla fine dovette ammettere che forse non ero io a rappresentare chissà quale rara eccezione, ma lui ad essere parecchio prevenuto.
Dovette arrendersi al fatto che anche i festaioli hanno un cervello e che gli italiani non si alzano a mezzogiorno.

Io e Fumiki parlavamo di tutto: dalla storia italiana alla cultura giapponese, dalla religione all'ecologia, dai cartoni animati alla cucina.
Lui amava il Risorgimento e mi faceva mille domande a cui spesso io, ignorante come una capra, non sapevo rispondere.
Io mi infuriavo per la caccia alle balene: orrida pratica che lui collocava tra le antiche tradizioni ed io tra le barbarie da cancellare.
Lui si stupiva dei cartoni animati nipponici, più o meno lascivi od espliciti, che in Italia venivano considerati adatti ai bambini, e neanche la mia assicurazione di una rigida censura lo rasserenava.
Io lo aiutavo a preparasi la carbonara, ma poi inorridivo scoprendo la sua intenzione di mangiarsela il giorno dopo per colazione.

Fumiki ogni tanto diventava un poco strano, ma mentre io imputavo questo suo comportamento alle diversità culturali, le mie amiche mi dicevano più o meno così: "Ma guarda che quello ce stà a provà".
Ed oggettivamente tutti i torti forse non li avevano.
Le sue attenzioni nei miei confronti col passare del tempo divennero sempre più simili a quelle di un uomo per una donna e non di un amico per un'amica.
Ogni scusa era buona per farmi un regalo, piccoli pensieri di poco valore, ma che sottolineavano il suo affetto nei miei confronti. Una fetta di torta portatami nella lavanderia a gettoni dove stavo facendo il bucato, un festone di origami fatto da tantissime meravigliose gru colorate, una tazza di Glühwein(*) da dividere in due e una targa in ottone da attaccare alla porta del mio nuovo appartamento(**), solo per citarne alcuni.

Forse per troppa timidezza o per la consapevolezza che ci dividesse un'insormontabile montagna di differenze culturali, Fumiki non disse mai niente di diretto circa i suoi sentimenti ed io ignorai sempre, più o meno consciamente, tutti i segnali indiretti.

La storia rimase così. Sospesa. Perfetta per essere ricordata a distanza di anni con un sorriso e tanta tenerezza.

Continua...

(*)La versione tedesca del Vin Brulè
(**)La ricerca della nuova casa sarà argomento del prossimo post.

Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12

(Sottotitolo: La sociologa pazza che alberga in Pancrazia) 

Vivere all'estero, anche solo per pochi mesi, ti fa comprendere un paese e la sua gente in maniera molto più profonda di qualsiasi vacanza, guida o documentario. 

Mi avevano presentato Berlino come la città dei single e dei gay. Mi trovai nel regno degli adolescenti che slinguazzano in ogni dove e dei genitori con pargoli al seguito. 

Imparai ben presto che i tedeschi respirano molto bene dal naso e sono affetti da un esibizionismo cronico: non esiste panchina, autobus, tram o metropolitana senza una coppia intenta in una funambolica pomiciata pubblica. E più pubblico c'è, meglio è. Ma ad attirare la mia attenzione furono soprattutto i bambini. 

Fin da piccoli i germanici sono diversi da noi. E fanno paura. 

I bimbi tedeschi sono fatti di gomma. Indistruttibili nel corpo e nello spirito. Li ho visti superare la barriera del suono, pedalando come pazzi sulle loro biciclette. Li ho visti appendersi ai sostegni della metropolitana, dondolandosi come glabri scimpanzé. Li ho visti tentare di spiccare il volo, lanciandosi da ragguardevoli altezze. Ho visto fare tutto ciò sotto l'occhio vigile di genitori dotati dell'autocontrollo di un monaco buddista, che si limitavano ad ammonirli con un pacato: "Così ti fai male". Mentre io trattenevo a stento la madre ansiosa, ossessiva e scassaballe che alberga in ogni donna italiana, e che avrebbe voluto urlare: "OHMARONNAAAA!!!ATTENTO, CHE TI FAI MALEEEE!!!" Puntualmente i piccoli kamikaze si schiantavano a terra e, trattenendo le lacrime, sopportavano a testa alta e senza batter ciglio il sintetico rimbrotto materno: "Te l'avevo detto." 

I bimbi tedeschi hanno lo stomaco foderato d'amianto. Mangiano qualsiasi cosa, a qualsiasi ora, in qualsiasi condizione. Li ho visti con il biberon in una mano ed un wurstel nell'altra. Li ho visti ciucciare avidi l'olio da patatine strafritte. Li ho visti divorare cheesburger con la rapidità di piraña bulimici. Li ho sentiti emettere dolci ruttini degni di un camionista bulgaro. Queste piccole idrovore, alimentate seguendo i dettami di un nutrizionista pazzo, invece di essere ricoverate per una bella lavanda gastrica, crescono grandi e forti. In grado di digerire anche la peperonata alle 6 del mattino. 

I bimbi tedeschi non esistono. Quegli angeli biondi in giro nei parchi o a passeggio nelle loro carrozzine non sono bambini, ma adulti molto molto molto bassi. Io l'ho sospettato per mesi e ne ho avuto la certezza una mattina in metropolitana. Quel giorno mi trovai seduta di fronte a due esemplari dall' età apparente di 6 e 4 anni ed assistetti allibita ad una conversazione degna di due linguisti in erba.
Il Piccolo: "T-i-e-rgarten. Che significa?" 
Il Grande: "È una parola composta: Tier-Garten. Giardino degli animali." 
IP: "Ma allora Zoologischer Garten?" 
IG: "La stessa cosa: giardino degli animali" 
IP: "Ma com'è possibile? Sono due parole diverse." 
IG: "Tiergarten è tedesco, mentre Zoologischer Garten deriva dal greco." 
IP: "Aaaah, capito."
HAo capito? Ma cosa diavolo hai capito? Avrai 4 anni!!!

Non so quando, non so come, ma è ovvio che prima o poi i tedeschi riproveranno a conquistare il mondo e stavolta ci riusciranno.
Paura, eh? 

Continua... 
Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11
Un sabato d'ottobre la Kneipe dello studentato s'inventò "L'Oktoberfest in ritardo".
Il locale era stata addobbato con festoni bianco-azzurri (i colori della Baviera) e riempito con centinaia di ragazzi a vari stadi di ubriacatura.
Quella fu la sera in cui venne coniata l'evocativa espressione "depravazione alcolica".
Ma quella fu soprattutto la sera in cui Sissi, Eli e la sottoscritta svoltammo.
Stufe di vedere sempre le stesse facce, mollammo la festa da poveracci e puntammo verso il centro.

Non ci importava che avremmo impiegato 40 minuti per andare e che al ritorno il Nachtbus ci avrebbe lasciato lontane da Schlachtensee, costringendoci a camminare in piena notte per una strada semibuia, fredda e deserta.
Il nostro posto era tra locali e confusione, non in un quartiere mal servito privo di qualsiasi attrattiva.
Il nostro Erasmus ce l'eravamo guadagnate ed ora avevamo il sacrosanto diritto di godercelo.

Mentre eravamo in attesa alla fermata del bus vedemmo avvicinarsi un gruppo di giovani, anche loro appena usciti dal pub.
C'era il gemello buono di Draco Malfoy.
Biondissimo e snello che tentò un infruttuoso approccio con la sottoscritta.
No, non era brutto.
No, non facevo la preziosa.
Ma i problemi di comunicazione mi rendevano particolarmente timida. Il mio tedesco zoppicante per i primi mesi limitò un po' la mia vita sociale e soprattutto quella sessuale. Non per niente decisi di iscrivermi a ben due corsi di tedesco contemporaneamente.
Pensavate davvero che l'avessi fatto solo per l'università?
Mafatemiilpiacere!

C'era il tipo ubriaco come una cucuzza.
Camminava incerto, sbandando ad ogni passo, con le palpebre semichiuse e l'aria di chi fosse in procinto di vomitare e stesse solo decidendo sulle scarpe di chi.
Sissi, con il suo 42 di piede, era sicuramente quella più in pericolo.

Ed infine c'era lui: il belloccio.
Si avvicinò alla cartina esposta sotto la pensilina e sentenziò lapidario:
"We're in the middle of f#cking nowhere!"

Con una sola frase era riuscito a sintetizzare settimane di nostre lamentele circa l'infelice posizione dello studentato.
Con una sola frase si era guadagnato il nostro incondizionato affetto.

Si chiamava Ben ed era inglese.
Un ragazzo carino, ma non troppo. Quel tipo di bellezza britannica rassicurante e non eccessiva.
Un manager con una carriera ben avviata, ma l'anima dell'adorabile pirla cazzaro.
Quel tipo di persona che prima è l'anima della festa, ma poi beve troppo e perde i sensi su una cassapanca e resta a dormirci sopra per tutta la notte.
Ma anche quel tipo di persona tanto sensibile da percepire il tuo cattivo umore prima degli altri e da fare di tutto per strapparti un sorriso.
Come dite? Non esiste uno così?
Evidentemente non avete mai incontrato Ben.
Una figura mitologica: metà John Belushi e metà Ricky Cunningham.

Il nostro Erasmus non sarebbe più stato lo stesso.

Continua...


Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10
Poco prima della mia partenza per Berlino, mammaCole venne colpita da uno dei suoi frequenti ed inopportuni attacchi da "chioccia psicopatica":
"E se io e papà venissimo con te in Germania? Solo i primi giorni, giusto per aiutarti?"

Io declinai gentilmente l'allettante proposta:
"Ma sei matta?"

E anche papàCole catalogò l'ideona di mia madre come: follia momentanea da ansia per l'imminente distacco.

Per farla stare tranquilla le proponemmo un viaggio in terra teutonica a novembre: sarebbero venuti a trovarmi per sincerarsi delle mie condizioni e portarmi tutte le cose che, nel frattempo, avrei sicuramente scoperto di aver dimenticato.

Quando andai a prenderli all'aeroporto, facemmo fatica a riconoscerci tra noi.
Loro, in mezzo ai tedeschi, mi sembrarono ancora più bassi del solito.
Ed io ero ormai mimetizzata con la popolazione indigena, essendo passata dallo stile "Lady Marian dei Gianduiotti" a quello "Meg Ryan Dei Poveri" ed avendo cominciato ad abbinare colori e vestiti in maniera del tutto casuale.(*)

Berlino accolse i miei genitori come, due mesi prima, aveva accolto me. Con lo smarrimento dei bagagli.
Trascorremmo due ore tra l'ufficio della Swissair ed il deposito degli oggetti smarriti: palleggiati tra una ragazzetta svizzera, simpatica come una forma di groviera andata a male, ed una coppia di operai tedeschi, decisamente più gentili, ma altrettanto disinformati. Quando ormai avevamo perso ogni speranza riuscimmo a rientrare in possesso delle valigie e, soprattutto, del mio lettore cd che tanto mi era mancato fino ad allora.

Per i tre giorni successivi, vestendo i panni della guida turistica, scorrazzai i miei genitori per tutta la città.
Per prima cosa li portai allo studentato dove, nel giro di cinque minuti, conobbero i miei vicini più surreali:
il misterioso ragazzo coreano che, causa insormontabili problemi di lingua, parlava poco e solo con pochi eletti;
il "professore" vietnamita, docente momentaneamente prestato all'Europa, che custodiva nella propria camera la strumentazione sufficiente per procedere indifferentemente alla fusione a freddo, alla costruzione di uno shuttle o alla preparazione dei tortelli di zucca;
il cinese ipercinetico, strabordante così tanto entusiasmo ed energia vitale, da essere considerato dai più molesto o semplicemente molto strano;
e "laDonnaFantasma", ragazza di ignota provenienza, che usciva dalla propria stanza solo per riempire un bollitore in cucina e poi, veloce com'era venuta, tornava a rinchiudersi in camera. Senza proferire parola alcuna e senza alzare lo sguardo dal pavimento.

Dopo essersi assicurati che non dormissi sotto un ponte e che non condividessi la mia vita con spacciatori, terroristi o serial killer, i miei genitori furono pronti per il tour de force che avevo preparato per loro.
Il tempo era poco e le cose da vedere tante.
Iniziammo con il Mauermuseum, dove potemmo osservare i numerosi e sorprendenti reperti che testimoniano i tentativi di fuga attraverso il muro.
Proseguimmo con la Nuova Sinagoga che, oltre ad essere il più grande luogo di culto ebraico in terra tedesca, è un edificio di una bellezza disarmante.
Godemmo di una suggestiva vista della città dalla cupola del Duomo.
Ci perdemmo tra le mille sale del Pergamon-Museum, dove sono raccolte imponenti opere monumentali e la riproduzione dell'uomo dei miei sogni: Attalo. (Voi non avete idea di quanto sia bello visto dal vivo!)
Passeggiammo davanti al Reichstag: il parlamento dall'avveniristica cupola trasparente.
Restammo incantati di fronte alla Porta di Brandeburgo, a cui nessuna fotografia potrà mai rendere giustizia.
E ci arrampicammo per la mitica Siegessaule, che con i suoi 285 gradini mise a dura prova la resistenza psicofisica di papàCole.

Dimostrando che lo spirito di adattamento è un tratto genetico, durante la loro breve permanenza berlinese i coniugi Cole, tra una scarpinata e l'altra, riuscirono anche a stringere amicizia con una coppia spagnola, ospite nel loro stesso albergo, e con un panettiere che aveva un negozio nelle vicinanze. Quale lingua utilizzassero per comunicare mi è tuttora oscuro.

*(promemoria: ricordarsi di bruciare tutte le foto che mi ritraggono bionda e procedere all'eliminazione fisica sistematica di tutti coloro che sono stati testimoni di quel buio periodo del mio look)

Continua...

Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
L'inizio della giornata era annunciato dalla sveglia del mio vecchio cellulare, potente quanto la sirena di una nave ed irritante quanto l'antifurto di un'auto.
Dopo averla lasciata suonare più volte, mi decidevo a sgusciare da sotto il piumone mossa a pietà dalle suppliche della mia vicina:
"Janeeeeeeee bitteeeeeeeeeee"


Avvolta in un pigiamone da Teletubbies strisciavo ad occhi chiusi fino alla cucina, dove incontravo il mio "compagnuccio di merende" preferito: Fumiki aus Japan.
Io pucciavo dei burrosissimi biscotti crucchi in un caffè macchiato, lui ingurgitava rumorosamente una zuppa liofilizzata, giunta direttamente dal Sol Levante.
Tra uno sbadiglio e l'altro ci scambiavamo le nostre quattro chiacchiere di rito:
"Quand'è nato Gramsci?
Quand'è morto?
E Mazzini?
Ma Jane non ti ricordi niente???"


Grugnendo e maledicendo i giapponesi appassionati di politica italiana, correvo ad occuparmi della mia trasformazione da informe pupazzone colorato a giovane e fascinosa studentessa. Il più delle volte però, data la mancanza di tempo, la muta non era completa ed il risultato finale lasciava molto a desiderare.

In perenne ritardo, correvo a prendere l'autobus per dare inizio alla mia transumanza, che mi avrebbe portato dallo studentato all'ospedale.
Più di un'ora tra bus, U-bahn e poi ancora bus.
Mezzi pubblici puntualissimi, a differenza di quelli italiani e pieni di adolescenti brufolosi, rumorosi e molesti, proprio come quelli italiani.

Finalmente giunta alla clinica universitaria Benjamin Franklin mi tuffavo nell' Humanmedizin, scoprendo ogni giorno nuove differenze tra la facoltà berlinese e quella sabauda.
Dal punto di vista prettamente didattico, Torino non ha niente da invidiare a Berlino, anzi.
Ma per quanto riguarda la qualità della vita degli studenti, in Germania stanno su un altro pianeta, più evoluto e civile.

A Berlino molti studenti di medicina addobbano il proprio camice con foulard e spillette. Niente di eccessivo o ridicolo, ma solo un tocco di colore adatto alla giovane età e comunque mai in contrasto con la serietà richiesta dal luogo.
A Torino, se fai una cosa del genere, nella migliore delle ipotesi uno specializzando ti cazzia, nella peggiore il primario stesso ti umilia davanti al maggior numero di persone possibile.

A Berlino gli studenti hanno a disposizione un guardaroba con tanto di gentile e paciosa guardarobiera.
A Torino, se sei fortunato puoi depositare le tue cose in un armadietto, ma il più delle volte devi abbandonare borse e giacconi sulle panche degli spogliatoi, affidandoti speranzoso all'onestà degli altri o imbottendoti il camice con portafogli, cellulare, chiavi, etc...

A Berlino gli studenti spesso mangiano a lezione davanti ai professori. Non parlo di veri e propri pasti, ovviamente, ma di snack e bibite necessari per non crollare dopo aver corso da una lezione all'altra e da un reparto all'altro, senza aver avuto il tempo di andare in mensa.
A Torino mi è capitato di assistere ad una scenata per una bottiglietta d'acqua:
"Le sembra educato bere mentre io spiego?"
"Ma avevo sete"
"E allora? Le sembra il caso???"
"Ma ci sono 30 gradi in quest'aula"
"Voi giovani non sapete cos'è il rispetto!"


A Berlino una studentessa veniva a lezione con il bimbo nel passeggino e nessuno, tranne me, sembrava trovare la cosa degna di nota.
Lei era iscritta a medicina, ma aveva anche un figlio da allattare, quindi lo portava con sé e le rare volte che il piccolo cominciava a frignare, usciva dall'aula rapida, senza disturbare nessuno.
A Torino: la gravidanza durante il corso di laurea? Fantascienza.
Durante la specializzazione? Mal tollerata.
Durante i primi anni di lavoro? Ma scherziamo?

Vi state chiedendo perché sono tornata in Italia?
Me lo sto chiedendo anch'io.



Continua...

Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8
Alla prima riunione degli Erasmus di medicina ci venne chiesto se ci fosse qualcuno in difficoltà con la lingua tedesca.
Due timide mani si alzarono, la mia e quella di un'altra ragazza, entrambe italiane. Della serie: facciamoci subito riconoscere.

Gitte (Brigitte), la nostra responsabile, ci consigliò di cercare un corso intensivo, mentre lei avrebbe organizzato gli orari delle nostre lezioni in modo da riuscire a fare incastrare il tutto.
Miracoli dell'efficienza teutonica.

In preda ad ansia da prestazione mi iscrissi a due scuole contemporaneamente.
Una si trovava nella "Berlino bene" tra le villette ed i giardini fioriti.
L'altra nella parte turco-proletaria della città.

Il primo corso consisteva in sei ore settimanali, tenute in un bel palazzo da insegnanti vistosamente incompetenti.
L'umanità che popolava la mia classe era varia ed interessante. Io ne ricordo soprattutto alcuni.
Giuseppe, studente Erasmus iscritto a veterinaria.
A suo dire egli aveva bisogno solo di un ripasso delle regole di grammatica per migliorare un tedesco già eccellente. Intanto, però, necessitava di un tutor anche per prendere un caffè alla macchinetta.
"Cosa significa mit Zucker?"
"Con zucchero"
"E ohne Zucker???????"
"Senza zucchero"
"Ah già, lo sapevo. Me ne ero dimenticato. Come sono distratto."
"Già, certo."

Thomas, au pair franco-canadese.
Dolce, carino ed educato, ma un po' molesto con l'insegnante.
"Ma davvero in tedesco si dice così? Che strano. In francese diciamo diversamente.
Ma davvero in tedesco quella cosa è femminile? In francese è maschile! Strano!
Ma davvero..."
"Taci!!! Non ce ne frega niente di come si dice in francese. Questo è un corso di tedesco: t-e-d-e-s-c-o!!!"

Susan, casalinga statunitense.
Trascinata dall'altra parte del mondo dal lavoro del marito.
Lei soffriva per la nostalgia del proprio paese, della propria famiglia e soprattutto della propria lingua e soffocava la tristezza cucinando deliziosi muffin per tutti quanti.

Wi, pittore cinese.
Si espresse a gesti per la durata di tutto il corso e ci mise due mesi per imparare a dire
"Wo ist die Toilette?"


Il secondo corso consisteva in 12 ore settimanali, tenute in una scuola elementare sotto la guida di un'insegnate fantastica, che avrebbe potuto far parlare tedesco anche ad un chihuahua.
Nella mia classe vi erano musicisti, giunti da varie parti del mondo per migliorare la propria formazione, ed un folto gruppo di donne turche, che avevano lasciato il proprio paese ed il proprio lavoro per seguire i mariti in terra germanica.
C'era Pier, bassista francese, molesto quanto il ragazzo canadese e con l'aggravante di essere simpatico e piacevole quanto un attacco di colite.

Anna, chitarrista ucraina, che sembrava avere a cuore tre cose in particolare: suonare, sposare il grande amore che la stava aspettando in patria e trovarmi un fidanzato.
"Ma davvero non hai un ragazzo?"
"No"
"E come mai?"
"Perché no"
"Ti piacciono le donne?"
"No!!!"
"Se vuoi te lo trovo io un fidanzato"
"No, grazie"
"Guarda che per me non è un problema: ho tanti amici!"
"No, grazie, faccio da sola. Se poi cambio idea ti chiamo, ok?"

Rafael, percussionista brasiliano, che sognava di portare le figlie e la bella moglie in Europa.

Aida, sempre con il velo ed un vestito nero, timida e riservata, ma con un talento per la lingua tedesca che me la faceva invidiare ed ammirare tantissimo.

E la moderna e spensierata Sibel. Un ingegnere che non vedeva l'ora di imparare il tedesco, per poter iscriversi all'università ed aver la possibilità di fare il proprio lavoro anche in Europa.

Per due mesi e mezzo seguì i due corsi, continuando anche a frequentare le lezioni all'università. Durante quei giorni intensi venni a contatto con culture diverse, conobbi persone straordinarie, capì di essere una privilegiata e , incredibilmente, iniziai anche a parlare tedesco.

Continua...
Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Prima di partire per la mia avventura Erasmus, tutti mi consigliarono di fare il passaporto. Essendo Berlino vicina al confine con la Polonia, una gitarella da quelle parti sarebbe potuta essere interessante.

Io, imperatrice assoluta della procrastinazione, rimandai la faccenda fino a quando fu troppo tardi per ottenere il tanto agognato documento.
La mancanza però non mi fece preoccupare particolarmente. Avevo tutta la Germania a disposizione. Potevo sopravvivere tranquillamente anche senza passare la frontiera.

E così fu.
Ogni giorno c'era qualcosa di nuovo da fare e un posto nuovo da vedere. Le possibilità erano infinite. Un viaggio nelle terre dell'Est era l'ultimo dei miei interessi.
Fino a quando ricevetti un messaggio da parte del mio amato Buddy. Colui che non mi si filava di pezza, colui che sembrava considerarmi solo una scocciatura, colui che a malapena si ricordava il mio nome, mi invitava a passare un week end assieme.
In Polonia.

Oh cacchio!

La mia mente, alterata dagli ormoni post adolescenziali che il bel Felix riusciva sempre a scatenare, lavorò incessantemente tutta la notte alla ricerca di una soluzione.
Come avrei potuto passare il confine?
Nascondendomi nel bagagliaio della macchina? No, rischiavo di spettinarmi.
Scavando un tunnel sotterraneo? No, mi sarei rovinata le unghie.
Paracadutandomi direttamente in terra polacca? No, me la sarei fatta sotto.
Alla fine decisi di provare con un metodo legale, semplice e che non mi avrebbe provocato un attacco di panico.
Mi sarei rivolta alle autorità.

Trascorsi il giorno successivo cercando la sede dell'ambasciata italiana.
Arrivai a due minuti dall'orario di chiusura. Arrancai per le scale e raggiunsi l'ingresso tutta sudata e stropicciata.
Già in attesa, prima di me, vi era un' elegante ed inamidata signora che mi lanciò un'occhiata di teutonica superiorità.

Venimmo accolte da un carabiniere.
In Germania, nella lontana Berlino, si ergeva in tutto il suo splendore un altoatesino in divisa, con tanto di bande rosse sui pantaloni e fiamma sul cappello.
Eravamo in Italia.

Io, con i miei capelli ricci arruffati, e la signora, con la piega perfetta, esordimmo nel medesimo momento. "Guten Tag!" disse lei, "Buongiorno" salutai io.
Il bel caramba, perché di gran bel pezzo di figliolo si trattava, si voltò verso di me, "Buongiorno, prego si accomodi" e poi, rivolto alla Frau, "Bitte, warten sie einen moment".
E le chiuse la porta sul nasino perfetto.

Dopo essermi presa la soddisfazione di essere ricevuta per prima solo grazie ai miei italici natali, avanzai a testa alta per il corridoio, elargendo sorrisi a destra e a manca.
Un solerte impiegato mi venne immediatamente incontro.

"Prego, signorina, mi dica. Cosa possiamo fare per lei?"
"Buongiorno, avrei bisogno di un'informazione. Ci vuole molto per fare il passaporto qui a Berlino?"
"No. Prima la inseriamo nelle liste degli italiani residenti all'estero. Poi le forniamo una nuova carta d'identità e un nuovo passaporto.
Qualche mese dovrebbe essere più che sufficiente."
Mossa dalla disperazione che solo una donna innamorata, o quanto meno fortemente invaghita, può provare, continuai ad insistere.
"Vede, il problema è che il passaporto mi servirebbe in fretta. Non si possono velocizzare un pochino i tempi?"
"Beh, una volta fatta la richiesta, possiamo provare a sollecitare la questura in Italia.
Per quando le serve?"
"'bato", biascicai imbarazzata, consapevole di quanto fosse folle la mia richiesta.
"Eh?"
"'abato", ripetei vergognandomi di me stessa.
"Scusi? Non ho capito"
"Sabato!"
"Quattro giorni? Vuole un passaporto in quattro giorni?"

Non mi arresi neanche di fronte all'aria scioccata dell'impiegato. Dovevo continuare a provarci: lo dovevo fare per me e per il futuro padre dei miei figli!
"Non esiste niente che possa fungere da surrogato? Un permessino speciale? Un visto a tempo?"
"No, no, no. Niente del genere", fece lui, "ma perché ha tanta fretta?"
A quel punto mi resi conto che la risposta "perché devo andare in Polonia con un gran pezzo di ragazzo tedesco che, se gli dico no questa volta, non mi inviterà mai più" sarebbe stata davvero troppo imbarazzante.
Anche per una come me, notoriamente senza vergogna.

Decisi che, se non sarei uscita da quell'ambasciata con un passaporto, almeno me ne sarei andata in grande stile!
Assumendo un'aria molto professionale e mentendo con tutta la spudoratezza di cui sono capace, dissi:
"Una conferenza (di sabato?!?!?).
Mi sto laureando in medicina (mi mancano solo 200mila esami) e mi sarebbe piaciuto allargare ulteriormente le mie conoscenze nel campo della neurochirurgia (argomento di cui non me ne è mai fregato una pippa, ma che fa sempre molto figo!).
Il prossimo week end si terrà un convegno di prestigio a Varsavia (é in Polonia, giusto?)
Ma, a quanto pare, purtroppo dovrò rinunciarvi (finirò all'inferno, lo so, finirò all'inferno)."
Il tizio abboccò.
"Mi dispiace. E' un vero peccato. Vorrei tanto esserle d'aiuto, sono mortificato."
Io tagliai corto, "Grazie lo stesso, arrivederci" e me ne andai di gran carriera, sorridendo al bel carabiniere e ignorando la crucca con la puzza sotto il naso.

Il mio motto è sempre stato: "Se devi spararla, sparala grossa"

Continua...
Prologo, 1, 2, 3, 4, 5, 6

(Per chi non avesse letto gli episodi precedenti o se ne fosse comunque dimenticato, ricordo che il mio Erasmus risale al 2000/01. A quei tempi per andare in Polonia ci voleva ancora il passaporto)
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