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La torinesità è uno stato d’essere. 
Una serie di abitudini, tradizione e repressione psicologica che gli altri non possono capire. Non perché gli altri siano fessi ma perché sono ignoranti, nel senso che ignorano. 

La napolinesità, romanità, toscanità, sicilianità, e via discorrendo, sono tutti concetti chiari ma della torinesità nessuno ne parla e nessuno la conosce. Nessuno, tranne i torinesi, ovviamente. 
Eppure, sarebbe interessante conoscerla e analizzarla dal punto di vista sociologico sì ma, soprattutto, da quello psicologico. 

Il perno su cui si basa tutta la torinesità è quello del NonMiOso. 
Un mantra, una scelta di vita, una certezza e anche un limite. L’elemento più castrante tra tutti gli elementi castranti. 

Da fuori sembri un algido indifferente. Mentre dentro ti fai tanti di quei problemi di educazione, moralità e opportunità di comportamento, manco ti avessero cresciuto in un collegio svizzero/luterano/nippo… torinese, appunto. 

Un mese fa ero in metro, stavo andando al Salone del Libro. La carrozza era strapiena ma io ero riuscita a ritagliarmi un posticino al fondo, compattata tra seduti e non. 

Ero là che rimuginavo tra me e me su quanti soldi investire al Lingotto, quando un uomo e una donna, presumibilmente marito e moglie, dall’età approssimativa di sessant’anni, hanno cominciato a parlare tra di loro. 

“Abbiamo dimenticato i biglietti in albergo!” ha detto lui rovistando in una borsa. 
“Oh no” ha risposto lei. 
“È troppo tardi per tornare indietro” 
“Magari ce li faranno stampare in biglietteria dal cellulare” 
“Speriamo, altrimenti ci toccherà ricomprarli” 
“Cavoli… no” 
“E vabbè, che dobbiamo fare?” 
“Niente, ma sei sicuro? Hai controllato anche nelle tasche della giacca?” 
“Sì, sono sicuro, li ho lasciati sul tavolo” 
… 

Loro parlottavano e io, seduta a un palmo, non facevo che chiedermi: “Che faccio glielo dico?” 

Ci ho messo due fermate - giuro! - per convincermi che no, non sarebbe stato un comportamento invadente ma utile da parte mia, che no, non stavo prendendo un abbaglio e che sicuramente parlavano davvero dei biglietti per il Salone come pensavo stessero facendo e, infine, che sì, probabilmente l’avrebbero scoperto da soli in biglietteria ma se per caso non avessero chiesto? Se non si fossero informati? Se avessero deciso di riacquistare i biglietti e stop? 

Insomma, due fermate di: “Che faccio? Mi oso? O NOnMIOso?” 

Alla fine l’ho fatto. 
Li ho interpellati direttamente. 
Sono intervenuta nella conversazione privata tra due sconosciuti. 
Mi sono osata. 

Ho esordito con un “Scusate se mi permetto”, impicciona ma comunque beneducata. 
Per poi spiegare loro che non c’era bisogno di stampare i biglietti e che, se avevano il QR code sul cellulare, quello sarebbe stato sufficiente. 

Loro mi hanno ringraziata. 
Io sono arrivata al Salone già psicologicamente provata.

Ho raccontato tutto a Marito. 
Dice che non sono solo torinese, sono proprio strana. 

Lo so.

Io vengo da una famiglia numerosa. 
Mia madre ha quattro sorelle e tre fratelli. Mio padre: una sorella e tre fratelli. 
Agli zii sono da aggiungersi i loro consorti, i cugini e ora anche i figli dei cugini. 
Molto numerosa, appunto. 

E chi, come me viene da una famiglia numerosa, si sarà reso conto che, a questa grande massa di facce e ricordi, appartengono anche i nonni. Non i propri, quello è ovvio, ma i nonni degli altri. Nel mio caso specifico, le nonne. 

Le nonne dei cugini, tutte vedove, che da bambina vedevo periodicamente alle feste e che mi hanno vista crescere alla periferia della vita dei loro nipoti. 
Io ho avuto due nonne molto ingombranti, per motivi diversi, ma le nonne degli altri non sono comunque sfuggite al mio occhio, guadagnandosi uno spazio nei miei ricordi. 

Negli anni se ne sono andate, chi prematuramente, chi attaccata alla vita con le unghie e con i denti fino all'ultimo. È successo anche l’altro giorno, se n’è andata la mia ultima “nonna degli altri” e, per questo, ora mi trovo a fare i conti con queste figure sfocate ma presenti. Voci timide o stentoree, mani grandi o piedi piccoli, dame uscite da una pellicola o paesane cresciute nei vicoli. Personaggi secondari della mia infanzia come io lo sono stata della loro vecchiaia, ma non per questo meno evidenti e caratteristiche. 

Una di loro avrebbe potuto insegnarmi l'eleganza, una pareva aver segreti che non voleva condividere, un'altra ancora mi avrebbe aspettato con il motore acceso se glielo avessi chiesto e dell'ultima, pur se non parlava ormai da anni, non dimenticherò mai la voce forte mentre chiamava le mie cugine o sua figlia. 

Ora se ne sono andate tutte. 
Questo non è il mio lutto ma loro apparterranno per sempre ai ricordi della me bambina e ragazzina, perché di nonni non ce ne sono mai abbastanza.

N.d.A: in foto ci sono due dei miei nonni... quelli regolari.
Negli ultimi mesi mi è sbocciata un'inspiegabile passione per le lingue. 

Io di base parlerei italiano, inglese (discretamente) e tedesco (strarrugginito!). Per farvi capire, non ho difficoltà a guardare film o serie in inglese, ma ho provato a guardare Dark in tedesco e mi volevo sparare.

Comunque, da qualche mese a questa parte, sto ripassando l'inglese e rispolverando il tedesco ma anche riprendendo da capo il francese, di cui avevo fatto solo un inutile corso regionale anni fa, e affrontando per la prima volta pure lo spagnolo. Già che ci sono. 

Ho tempo di fare tutto ciò? No. 
Lo faccio comunque? Certo! 
Volete mettere il piacere di scoprire che in spagnolo "il topo" si dice "el raton". Cioè "el raton", vi rendete conto? Io, nei momenti di sconforto, ci penso e rido tantissimo.

"Ragazzi, mi dispiace ma sono positivo". 
Sono iniziati così, con questo messaggio in un gruppo whatsapp, 16 giorni indimenticabili. 

Niente di originale, ci sono passati in molti durante le feste. Ma Marito ed io abbiamo vinto il bonus di trascorrere i suddetti 16 giorni nella nostra tanto desiderata casa nuova, talmente nuova da essere ancora senza cucina, senza porte e con il citofono fuori uso. 

Dal 29 dicembre al 14 gennaio. 
Isolamento preventivo da contatto con positivo, diversi test rapidi negativi, "Va tutto bene", due giorni di febbre, "Sarà solo una banale influenza", improvviso mal di gola bastardo, "Staremo isolati qui per sempre e non riusciremo mai a finire la casa, il mondo ci odia!”. 
Due test molecolari (1 a testa) fatti in mezzo al nulla nebbioso e malaugurante di Orbassano. Positivi. "Te l'ho detto che il mondo ci odia!". 
Di conseguenza,10 giorni di isolamento obbligatorio. Intanto passa tutto, per fortuna, mai stati così in forma, mai stati così annoiati. 
Ordiniamo la spesa online, non funziona il citofono, non si apre il portone, "La lasci lì, arrivoooo" urla Marito bardato come in CSI. Non c'è il frigorifero, "Tutto sul balcone". Mangiamo pane formaggio e prosciutto oppure pane prosciutto e formaggio. 
Il mio compleanno agli arresti domiciliari, "Tanti Auguri!". Ci vuole qualcosa di caldo, mamma Cole cucina, papà Cole (ultraottantenne) consegna, non funziona il citofono, non si apre il portone, "Lascia tutto lì, non ti avvicinare, per l'amor di Dio!" intimo da dietro la FPP2, che mi rende innocua ma in cambio mi manda in cancrena le orecchie. 
Passati 10 giorni dal molecolare, ci mettiamo in coda davanti alla farmacia. Entro dopo Marito, "Le ha pagato lui il tampone" fa ammiccante il farmacista. Sono definitivamente passati i tempi in cui gli uomini mi offrivano da bere. Quanta amarezza. 
Test fatti, attendiamo i risultati, "Ci vorrà un'oretta". Arriva un'email molto prima, "Non si apre, cellulare maledetto!", un'ansia che neanche ai tempi dell'università. Negativi! "Siamo liberi! Vai a prendere il cane! Non rientrerò mai più a casa, metti in moto e giriamo per la città, guarda com'è bella Torino, c'è anche il sole, la vita è meravigliosa!" 

È passato un mese abbondante, ora abbiamo la cucina, un citofono funzionante e persino le porte. Ma che esperienza indimenticabile è stata. 

Questo testo è dedicato a cuggi, l'untore inconsapevole divorato dai sensi di colpa, e a Elena, costretta in pochi metri quadri a un passo dall'esaurimento nervoso. 

(*) Il cane ha approfittato del nostro isolamento per soggiornare dalla nonna. 
(**) Sì, i virgolettati più isterici sono tutti miei.

Rubianastrasse o anche via Romualda. 
La mia vecchia casa era così speciale da essere dotata persino di nomignoli appropriati. 

Io ci ho vissuto 8 anni, i primi da sola e i secondi con Fidanzato e Marito. Fidanzato e Marito, lo preciso per i più distratti, sono la stessa persona. 

Dentro quella casa ci sono state risate, amore ma anche lacrime. Dentro quella casa ci sono stati amici, nipoti, cugini e colazioni abbondanti. Ma anche laboratori di scrittura, prove di cabaret, pranzi, cene, un lock down e, naturalmente, un cane (Emilia) e tutti i suoi peli. 

In quella casa sono rinata, personalmente e professionalmente. Da quella casa sono partita e tra quelle mura sono tornata. Ho ricevuto notizie bellissime e altre terribili, ho vissuto gioie ma anche lutti. Mi sono innamorata e ho fatto cadere a terra tutto il riso incastrato tra capelli e abito da sposa. 

Quando nel 2013 arredai la casa un pezzo per volta, tra Ikea e mercatini, sapevo che probabilmente sarebbe stata solo di passaggio e che poi sarei andata oltre ma non avrei mai osato immaginare che avrebbe significato così tanto per me e che sarebbe stata testimone, muta ma presente, di momenti bellissimi. 

Fra poco (sperando che i lavori finiscano presto) ci sarà una cosa tutta nuova, ci andremo io, Marito e il cane. Chissà quante altre avventure potrò raccontare. Ma l’accogliente appartamento di via Rubiana – o meglio, l’alloggio, come lo chiamiamo qui – con i suoi colori, il suo divano e il suo quadro con l’anguria, occuperà sempre un posto speciale nel mio cuore. E, credo, anche in quello di tutti coloro che vi hanno passato dei bei momenti. 

Un augurio a chi ci vivrà dopo di me. 
Buon viaggio e trattamela bene!

Cara Emilia, 
l'anno scorso, di questi tempi, marito ed io eravamo alle prese con una decisione importante. 
"Vorremmo adottare un cane adulto" dicemmo all'impiegata del Rifugio di Torino. 
"Adulto?" e lei quasi si commosse. 

Dopo diverse visite e valutazioni, ti scegliemmo il 25 agosto. Venimmo a prenderti il 27. Quello stesso giorno, guardando i tuo documenti, scoprimmo che eri nata il 24 agosto 2015. 

Ti abbiamo, quindi, scelta il giorno dopo il tuo compleanno, un regalo in ritardo. Un regalo per una cagnetta meravigliosa di quattro anni, di cui due passati in canile. "Al gabbio", come piace dire a me, perché sono un po’ scema e perché mi piace pensarti come una dura. Perché tu, in effetti, sei una dura. 

Il tuo nome ufficiale, ai tempi, era Littorina. Converrai con me che il nome era parecchio bruttino. “Possiamo cambiarlo o si traumatizza?” chiesi alla volontaria. 
“No, tranquilla, non le dispiacerà affatto” 
Decidemmo di chiamarti Emilia, in onore di Emilia Clarke, l’attrice che interpreta la regina dei draghi di Game of Thrones. In modo che ti fosse subito chiaro che stessi per entrare a far parte di una famiglia di nerd. Emilia, nata dai croccantini, regina dei cagnetti, signora delle salsicce, protettrice degli ossi, principessa del condominio, imperatrice della pancia all’aria, figlia dei Pica, la non-dimagrita, distruttrice di toelettature appena fatte. 

La prima notte l'hai passata sdraiata a terra, di fronte al nostro letto, un occhio aperto e uno chiuso, sempre all'erta. Non ti fidavi un granché, e come darti torto? Non ci conoscevi. Ma da allora è passato praticamente un anno: tu hai imparato a fidarti, prima, e a volerci bene, dopo. Noi ci siamo innamorati di te, di tutte le tue sfaccettature. 

Tu non sei una tenerona, ma ti piacciono le persone. Ami tutti i bipedi (adulti) e a tutti fai le feste e su tutti ti strusci, dimostrando anche una certa leggerezza di costumi. Ami tutti, tranne quelli in moto, quelli li odi di una rabbia viscerale e ingiustificata, da ottantenne malmostoso che ce l’ha coi giovani d’oggi. Verso i bambini non hai mai mostrato un particolare slancio, se un piccolo umano viene ad accarezzarti, tu rimani immobile, una statua di sale, e non si capisce se lo fai per non spaventare il piccolo o nella speranza che questi si allontani in fretta. 

Le tue cose preferite sono la salsiccia, i palloncini, i grissini, il pouf al fondo del letto, i balconi, il parco della Tesoriera, la pallina ma solo dopo il tramonto, perché hai il metabolismo lento e, a correre prima delle 18, ti pesa il sedere. 

La tua persona preferita in assoluto è marito, tuo padre, lo ami di un amore puro e sdolcinato, al secondo posto il macellaio, diventato il tuo migliore amico grazie a una polpetta volante durante il lock down. Io credo di occupare un misero terzo posto. Terza sempre, tranne quando piove. Se piove forte, infatti, ti attacchi alle mie caviglie, o mi guardi preoccupata accucciata accanto al letto. Questo mi fa sentire speciale ma mi riempie anche il cuore di tristezza perché penso a tutte le notti che avrai passato in canile, nella tua cuccia, mentre la pioggia forte spazzava il tetto e tu spaventata aspettavi che finisse. 
Sono così contenta che tu ora sia al sicuro con noi, ma mi dispiace tanto non poter far nulla per quei brutti ricordi. 

Tra le cose che ti piace fare ci sono mangiare, mangiare e mangiare. Ah, quasi dimenticavo, anche chiedere il cibo a chi sta mangiando. Poi ti piacciono i grattini sulla pancia, come una vera coccolona. Ma anche fare gli agguati a Moon, il cane della nostra vicina di casa, come una vera ninja: strisci fuori in balcone tutta acquattata e, appena la vedi, le abbai contro come una pazza. Lei che, a differenza tua, è matura e pacifica, ti ignora. Tu abbai ancora un po’, poi ti cheti, e ti accucci con quell’aria compiaciuta da bulla di quartiere, che vorrei sgridarti se non fossi troppo impegnata a ridere. Allo stesso modo ti piace attaccar briga con i pastori tedeschi e altri cani random in giro per il parco, tutti rigorosamente più grandi di te. Non lo fai spesso ma quando lo fai ci metti proprio tutta te stessa, alla faccia del guinzaglio fucsia e della pettorina rosa confetto, ti trasformi in una iena, dimostrando sprezzo del pericolo e, soprattutto, un’invidiabile (ed eccessiva) sicurezza nei tuoi mezzi. Nell’area cani ti piace tanto rotolarti nel fango e nella terra e più sei pulita più ti rotoli, guardandoci poi orgogliosa, mentre io rimpiango il tuo manto bianco candido diventato beige terra lercia. Poi ti piace anche andare a trovare nonna Lucia e fare le passeggiate con lei che, ignorando con arroganza il fatto che i cani non siano bambini, ti vizia come se fossi la sua unica nipote, ti porta al bar e ti fa far la vita da signora. 

Ma la cosa che ti piace più di tutte è uscire con noi, tutti e tre. Tu, marito ed io. Che sia per andare ai giardinetti o a fare un bel giro, cominci a saltare come una matta, sfoggiando un entusiasmo travolgente, felicissima di stare tutti assieme, perché hai un forte senso della famiglia, anzi del branco. 

E oggi, per questo branco, è un grande giorno di festa, tanti auguri Emilia, buon quinto compleanno!
Causa tendinite pervicace e malevola, sono stata costretta 5 giorni al totale allettamento.
"Si alzi solo per andare in bagno" ha ordinato il medico, senza lasciare adito ad interpretazione alcuna.
E così sono rimasta sdraiata a dormire sul materasso, sdraiata a fissare il soffitto sul materasso, seduta a lavorare col portatile sul materasso, seduta a sospirare lamentosa sul materasso. E, seppur  consapevole che le disgrazie sono altre, permettetemi di dire che la faccenda è stata alquanto fastidiosa. Ma mentre io mi abbrutivo sotto le coltri, intorno a me gli altri si muovevano solerti e utili. Una su tutti: Madre Cole.

Io odio dipendere dagli altri. Cioè, lo so che, in generale, non piace a nessuno ma io non ne faccio una questione d'indipendenza e orgoglio, o almeno non solo. A me infastidisce soprattutto la posizione scomoda in cui un rapporto di dipendenza, seppur momentaneo, ti mette. La riconoscenza è un sentimento nobile ma anche una gabbia. Non guardatemi con quell'aria di rimprovero ma apprezzate, al contrario, la mia sfacciata sincerità.

Io, in occasione di questa domenica di maggio, lo devo dire. Devo confessare che, all'ottava volta che mia madre, giunta in mio soccorso,  aveva da ridire su uno qualunque degli aspetti della mia gestione casalinga, io desideravo ancora dirle "Grazie madre per essere venuta qui ad occuparti di me e del  mio domicilio" (non sono mica un arido mostro) ma desideravo anche,  e con altrettanto se non superiore ardore, tirarle dietro una delle due stampelle che usavo per deambulare verso il bagno.
"Uh quanta roba da lavare" criticava e a me iniziava a salire la carogna.
"Ma perchè tieni le pentole così? Aspetta che le metto a modo mio. Ecco, molto meglio" stravolgeva e a me si risvegliava la gastrite.
"La tua dispensa è troppo disordinata, che ci fanno gli spaghetti accanto al riso?" sgridava e io tentavo di afferrare la stampella appoggiata al cassettone.
Ma poi lei mi rimboccava le coperte, portava il minestronecomepiaceame e mi comprava le briosche dal bar sotto casa. Io allora mi chetavo, mollavo la stampella e mi sentivo pure un poco in colpa per i sentimenti precedenti. Ma solo un po', eh.

C'è questa ingiusta regola non scritta per cui, se mi stai facendo un favore, io non posso dire niente, sospirare, alzare un sopracciglio. Devo accettare tutto passivamente, sorridente e, se possibile, esibendo anche uno sguardo di devozione di cristiana ispirazione. Io devo accettare con tutto il pacchetto anche e soprattutto la sgradevolezza del samaritano, le diverse opinioni e la pesantezza. E secondo me, chi ti fa il favore, in quel momento un po' se ne approfitta, conosce il suo potere e lo esercita. Tutti siamo corsi in aiuto di qualcuno almeno una volta nella vita e tutti, un po', ce ne siamo approfittati. "E  pensare che gli sto facendo un favore... che ingrato" abbiamo  pensato quando abbiamo ritenuto il nostro gesto non sufficientemente apprezzato. Aprezzamento che può variare, a nostro insindacabile giudizio, da un sorriso sincero all'anima del primogenito di chi abbiamo aiutato.

Non fate segno di no con la testa, non ci crede nessuno, l'avete fatto e lo fate anche voi e, se credete di no, è solo perché non ve ne siete mai resi conto. Questo fa di voi degli inconsapevoli non degli innocenti. Anzi, per quanto mi riguarda, l'inconsapevolezza è un aggravante!
"Io ti faccio un favore, io comando, tu ringrazia e taci,  puzzone!" è il sottotesto che guida certi scambi. Scambi meravigliosi, la cui unica alternativa sarebbe essere soli al mondo senza l'aiuto di nessuno, ma pur sempre scambi. Ricordiamoci la gratitudine ma smettiamo di lucidare tronfi le nostre aureole.

Ora vi saluto, devo andare a fare gli auguri a mia madre e a ringraziarla perché senza di lei non ce l'avrei mai fatta in questi giorni. Prima però vado a rimettere in disordine la dispensa, che a me piaceva di più com'era prima.

Tanti auguri alla mamme e ai benefattori... tanta pazienza a tutti gli altri.
Caro estroverso,
ti dispiacerebbe raccontarmi un po' com'è la tua vita?
Perché, insomma, io non riesco neanche ad immaginarmi l'esistenza di un NON timido.

Caro estroverso ti ricordi quand'eri piccino?
Ti ricordi di quella bimba riccia che al parco se ne stava in disparte, fino a quando ti avvicinavi tu per chiederle "Come ti chiami?"
Te la ricordi?
Ecco, io non ero quella riccia lì.
Ma ti ricordi di quella magrina vergognosa? Quella con la mamma che le gestiva le pubbliche relazioni e ti chiedeva al posto suo "fai giocare anche lei?"
Te la ricordi?
Ecco, io non ero nemmeno quella.
Io ero quella magrina e riccia che aspettava in fila all'altalena facendosi passare avanti da chiunque, quella che non andava sul girello altrimenti vomitava, quella che si faceva tutt'uno col grosso cespuglio di ortensie all'angolo.
Ecco, non ti ricordi di me, vero?
Non ti crucciare, non è mica colpa tua.
Non eri tu ad essere un bambino privo di sentimento, ero io ad aver precocemente sviluppato il dono dell'invisibilità. Un superpotere. Deleterio alla distanza ma efficace nella quotidiana sopravvivenza.

Caro estroverso,
e ti ricordi qualche anno dopo?
Ti ricordi di quella ragazzina che stava sempre sulle sue ma poi, quasi per caso, ti capitava di conoscerla e di scoprirla divertente, spiritosa e, a  tratti, persino chiacchierona.
E tu allora pensavi fosse carino dirle "all'inizio mi stavi un casino sulle palle, mi sembrava te la tirassi, ma ora che ti conosco, lo sai che sei proprio simpatica?"
E magari pensavi pure di essere gentile a dirmi una roba così, ti pareva persino di farmi un prezioso complimento. Ma no, non era un complimento, o almeno io non lo vivevo come tale. Ed anche alla distanza, a ripensarci, continua a sembrarmi solo uno sfoggio di superficiale boria. Tanto magnanimo quanto non richiesto giudizio assolutorio, che mi faceva solo scattare la carogna e desiderare di urlarti in faccia "tu, invece, fino a questo momento mi eri abbastanza indifferente ma adesso no, adesso, mi stai proprio sui coglioni!"

Caro estroverso,
come si vive nella tua pelle?
Sei corazzato contro tutto e tutti oppure anche tu ogni tanto te la fai sotto?
Io so com'è la mia vita, com'è la mia pelle, conosco le mie battaglie, tutte, soprattutto quelle perse.
So che pure adesso, a 39 anni suonati, a una lezione di Lindy hop con 50 sconosciuti c'ho un'ansia che mi si divora, e mi sento la protagonista sfigata di un brutto film adolescenziale americano.
Uno di quelli dove io sono la tizia coi brufoli e l'apparecchio, e tutti gli altri sono giocatori di football e cheerleader.
E no, io i brufoli non li ho neanche mai avuti e l'apparecchio non l'ho mai portato, ma certe immagini sono simboliche, estroverso, simboliche, essù sforzati un po'!

Caro estroverso,
scusami,
non volevo essere antipatica,
è che riscoprire certi sopiti ma mai dimenticati sentimenti è un dolore piccolino ma profondo, una puntura di spillo che pare una stilettata.

Caro estroverso,
vorrei proprio sapere, sapere come ci si trova ad essere te.
Me lo potresti spiegare?
Solo se hai voglia di farlo, ovviamente.
Non hai mai paura tu?
O forse no? Forse ce l'hai. Meno di me, certo. Ma la tua curiosità è più forte, la tua curiosità vince. Vince facile.
Mentre la mia, sottile e nervosa, si trascina dietro una paura col culo pesante e che punta pure i piedi, 'sta stronza! Anche la mia curiosità alla fine ha la meglio. Certo, per chi mi hai presa? Ma che fatica ogni volta, che gran fatica!

Caro estroverso,
sappi che io non ce l'ho con te, ma t'invidio.
T'invidio disperatamente.
Altro che i soldi e la bellezza. Chi se ne fotte di quella roba là?
Io invidio la mancanza di uno stomaco annodato in situazioni che non lo meriterebbero. Invidio la leggerezza pura non rovinata dall'ansia gratuita. Invidio la capacità di guardare il mondo fuori senza i giri infiniti di guardare prima se stessi, poi l'immagine di sé proiettata sugli altri, poi quella degli altri su di sé, e poi, epoi, epoiepoi epoiepoiepoi

Caro estroverso,
nudo puro e felice,
caro estroverso se ci sei, se esisti, batti un colpo e raccontati.
Perché tu esisti, vero?

O arranchiamo tutti immersi in diversi livelli di disagio?
Per molto tempo ho avuto un pessimo rapporto con il mio compleanno. Non che mi facesse soffrire il trascorrere del tempo sul mio corpo, ma mi sentivo insoddisfatta, insofferente, protagonista di una storia noiosissima che non mi apparteneva. Una storia che non si decideva ad iniziare. Bloccata ad un eterno prologo.

Negli ultimi anni, però, le cose sono cambiate, questa sensazione è svanita, e il compleanno è tornato ad essere ciò che doveva: un'occasione come un'altra per festeggiarsi, per dedicarsi un giorno speciale. 

Oggi, poi, la situazione è mutata nuovamente, i sentimenti si sono fatti più forti, e questo nove gennaio ha risvegliato una nuova consapevolezza. Quella di essere finalmente nel posto giusto e, soprattutto, con le persone giuste. Quella di essere felice. 

E chi se ne frega se queste cose non dovrebbero dirsi ad alta voce,  tanto meno scrivere, che la sfiga si sa ha il sonno leggerissimo. I drammi si presentano comunque, e allora meglio godere dei bei momenti, meglio viverli e coccolarli, perché questo cuore pieno sarà utile nei momenti bui.

E allora buon compleanno a me. A me che mi sarebbe bastata una telefonata e invece ho auto molto di più, ho avuto il gracchiare di un citofono dopo la mezzanotte, ho avuto degli auguri veri dati dal vero, ho avuto il regalo più bello.
Ora vi racconto cosa ho fatto domenica.
No, non domenica scorsa.
Domenica 11 ottobre.
Ho i miei tempi, già lo sapete.

Domenica 11 ottobre ho dormito tutto il mattino come la più grave delle narcolettiche, poi ho fatto colazione come se non ci fosse un domani e, infine, mi sono rimessa a letto. Del resto avevo ancora da sfruttare una mezz'oretta di tutto il sonno arretrato accumulato negli ultimi 38 anni. Ora sono pari, e prevedo di stare sveglia come un grillo per i prossimi due mesi. O anche no.

Dopo tutto questo sfacciato riposo, sono andata in centro. Ci siamo andati tutti. Tutti gli abitanti di Torino e provincia stavano là. In auto. Un traffico folle che neanche a Bangkok, ci mancavano giusto i tuc tuc a fare lo slalom tra le macchine. Sembro una vera donna di mondo quando evoco tali esotiche immagini, nevvero? Ma non lo sono, ho solo visto tutte le puntate di Pechino Express.

Trovato parcheggio dall'altra parte del mondo ho raggiunto a piedi la meta tanto agognata: la Cavallerizza Reale. Cos'è la Cavallerizza Reale? Per i non sabaudi forse è il caso che lo spieghi.
La Cavallerizza Reale è un complesso antico, di stile barocco, sotto tutela dell'Unesco. Oltre che luogo di conflitto tra chi lo occupa, e cerca di farlo vivere e godere ai torinesi, e il comune che vorrebbe venderlo. 
Sappiate che ve l'ho fatta semplice ma il succo è questo.

L'altra domenica alla Cavallerizza ho assistito a: una lezione di letteratura cinese, tanto appassionata da farmi venir voglia di saperne di più; un reading, con poeti che che già conoscevo e poeti che non conoscevo, scrittori di prosa, e persino Morandazzo. Come chi? Non lo sapete? Ma fatevela una cultura cinematografica e, soprattutto, una risata: cliccate qua!

Poi sono andata a mangiarmi un hamburger in un locale che conosco da sempre. Nessuno sa quando abbia aperto, forse neanche i proprietari. Eppure esso c'è sempre stato. Dimenticabile ma non dimenticato. Tutti lo conoscono, tutti ci hanno passato almeno una serata, ma nessuno ci ha mai vissuto epiche imprese o notti memorabili. Regge inossidabile, con lo stesso arredamento e gli stessi bagni minuscoli, lascito di un tempo antico in cui gli abitanti della città erano tutti umpa lumpa custodi del segreto del gianduja.

Infine sono corsa all'apertura della stagione di Offstage, la rassegna che in primavera presenta Facce da Palco.
La responsabilità di cominciare la stagione se l'è presa Ettore Scarpa. Ottimo attore, mi piace quando recita e mi piacciono le sue freddure su Facebook. Per onestà, però, devo dire che questa volta non mi ha convinta. Ha scelto di rischiare, improvvisare, andare allo sbaraglio. Lui sa tenere il palco come pochi, ma ciò non può bastare, non deve bastare. Il patologico perfezionismo rende infelici ma fa meno danni della leggera approssimazione. Come una critica sincera è più impegnativa di un calcolato silenzio.

E comunque ho recuperato la macchina, sono tornata a casa e ora, a distanza di 10 giorni, ho nuovamente accumulato una discreta quantità di sonno arretrato. Prossimo obiettivo? Il letargo domenica 25. 
Svagata e svanita come sempre, lo dico a cani e porci ma dimentico i miei lettori. Sono proprio una brutta persona e una schifezza di blogger!

Vi ricordate che la scorsa primavera avevo avviato l'esperimento di un laboratorio di scrittura via Skype? L'esperimento continua e, fra poco, partirà una classe nuova di zecca, mentre la precedente va avanti lungo il suo percorso regalandomi manciate di goduriose soddisfazioni.

Siete interessati a buttarvi in quest'avventura?
Fate un fischio, lasciate un commento, scrivete un'email (janecole@live.it).

Potrete giocare, scrivere, leggere, confrontarvi con gli altri e, soprattutto, coccolare e far crescere un personaggio tutto vostro. 
Le persone scolpiscono la propria vita, i personaggi la propria trama.
Con questa frasona ad effetto vi ho convinto, eh? 
No? 
Strano.

Il laboratorio di scrittura è una cosa bella assai, farlo su skype ha il vantaggio di poter conoscere persone lontane e relazionarsi con nuove realtà. Se avete sempre scritto o non avete scritto mai, questa è comunque un'ottima occasione per liberare la vostra creatività senza prendervi troppo sul serio.
Vi aspetto! 
Al cinema è appena uscito il remake di National Lampoon's Vacation.
Avete presente? Quella commedia in cui una famiglia americana si sciroppa millemilioni di chilometri per raggiungere un mega parco di divertimenti. Pellicola che ebbe molti sequel e rallegrò spesso i pomeriggi estivi della nostra infanzia. Perché, anche se molti di voi giovini scellerati non ne avranno memoria alcuna, durante gli anni '80 non era davvero estate se Italia Uno non riempiva i propri caldi pomeriggi di programmazione con le mitiche commedie americane adolescenziali-familiari. Noi giovani-vecchi, che ci siamo a lungo abbeverati a quella fonte di leggero divertimento, ancora ci ricordiamo tali ore rilassate e le rimpiangiamo assai.

Io, per festeggiarne il ritorno sugli schermi e dimostrare tutta la mia devozione a quel vecchio film, quest'estate sono partita per una vacanza simile. Ho detto simile, mica uguale. Niente famiglia al seguito, niente parco di divertimenti come meta finale, niente America. Ma nove giorni tra Italia, Francia e Spagna, spostandosi in auto, macinando chilometri e inanellando una notevole serie di situazioni che "tra tanti anni ripensandoci ci faremo grasse risate".

E cosa fa una blogger che si rispetti quando gliene capitano di ogni? Scrive.
Ed è per questo che da domani parte la serie: Nove giorni Nove Post.
Un post ogni giorno.
Un post per ogni giorno di vacanza.

Siete pronti?
No? Peggio per voi.
Chi c'è c'è. Domani si parte!

 
In metropolitana. Per strada. Sull'autobus.
Immersa nei tuoi pensieri. Stanca. Sfatta.

Succede.
L'incontro casuale con un amico. Anche per pochi secondi. Anche di corsa.

Ricarica di volti familiari, parole complici, e sorrisi sinceri.
E si torna a casa un po' più contenti. Un po' più vivi.

Proseguite nella lettura a vostro rischio e pericolo, quello che segue è un post ad alto contenuto di nulla.

L'avete mai visto "Ribelle-The Brave"?
Il cartone animato.
Quello del 2012.
Agevolo locandina.

L'avete mai visto?
Io sì, l'altro giorno.
Ne vogliamo parlare?
Parliamone!
I capelli della protagonista sono FAVOLOSI!

Rossi, ricci e selvaggi, più stanno alla straca##o e più belli sono.
Li adoro!
Anzi no, li adorerei nella realtà ma li IDOLATRO in versione digitale.
I capelli di  Merida, così si chiama la fanciulla fulvocrinita, hanno un effetto calmante e ipnotico. Loro se ne stanno là, sullo schermo, fluttuanti e vivi. Sembra addirittura che respirino. Tu li osservi e ti rilassi, nulla ha più importanza, nulla può farti del male. La vista si annebbia e i muscoli si decontraggono.
Nel frattempo potrebbero svaligiarti casa, fregarti la poltrona da sotto il sedere, o cambiarti addirittura lo status su facebook, e tu neanche te ne accorgeresti!
Quei capelli sono una droga. Danno dipendenza e assuefazione.

Non c'è altra spiegazione: questo film deve essere stato confezionato dai servizi segreti, da una dittatura internazionale trasversale o dagli alieni. Questa pellicola è progettata per rimbambirci, fiaccare la nostra volontà, e renderci tutti schiavi.

Ogni resistenza è inutile.
Brindo ai conquistatori ed agito i miei ricci collaborazionisti.
Noi siamo i ricordi degli altri.

Fra sessant'anni per mio nipote sarò ancora la zia dei racconti, della grande scrivania e dell'insalata di riso.
Sembra poco e invece è tantissimo.
Fa molto caldo.

Potrei già chiuderla qui con questo argomento. Ma insisto. Fa caldo. Fa molto caldo. Un fottuto, disperato, appiccicato caldo. Di quelli che ti entrano nella testa, asciugano i pensieri, rinsecchiscono il cuore e gonfiano le gambe. Di quelli che ti tolgono le forze, avvelenano la giornata, imbruttiscono il corpo e abbrutiscono lo spirito. Di quelli che "vorrei morire". Di quelli che "forse sono già morto". Di quelli che io non ho l'aria condizionata. E lavoro da casa. E passo l'intera giornata a dormire, mangiare, cucinare, scrivere, editare, illustrare, telefonare, respirare in un dannatissimo forno. In un bilocale caldo. In un isolato caldo. In un quartiere caldo. In una città calda. Perché fa caldo. Fa molto caldo. E scrivere un post senza pause è un ottimo modo per trascinarvi all'inferno con me.



Dai stiamo sul pezzo.
Dai parliamo di Maturità.
No, non di quella iniziata oggi che, sinceramente, ma chi se ne frega!
Ma di quella che ho fatto io, millemilioni di anni fa.

L'esame era del vecchio, vecchissimo tipo.
C'era il tema. Poi l'altro scritto, diverso a seconda dell'indirizzo di studi. E, infine, l'orale: due materie. Ufficialmente una la sceglievi tu e l'altra la commissione. In realtà, a parte follie rare e improvvise di docenti accecati dal potere, le sceglievi tu entrambe.

I professori erano tutti esterni. Tutti tranne uno. Il membro interno, appunto. Il membro interno aveva il compito di infonderti fiducia, bisbigliare suggerimenti durante gli scritti e, nel caso specifico della mia classe, preparare torte per addolcire la commissione.

Del mio esame di maturità ricordo soprattutto il compito di matematica, che venne accolto da scene d'isteria, pianti a dirotto, e melodrammi casalinghi. Io, a differenza di alcuni miei compagni, scelsi di conservare la dignità: non feci scenate e non piansi. A scuola.
A casa, invece, mi esibii in una riuscitissima imitazione di Mario Merola, solo un poco più sopra le righe rispetto all'originale.

Del mio esame di maturità ricordo anche la preparazione per l'orale. Il "pasticcere" membro interno, per risollevare i voti abbattuti da derivate e integrali, strinse un patto scellerato con la commissione. "Chi vuole qualche punto di bonus sul giudizio finale, lasci ai professori la scelta della seconda materia orale. Gli interessati ne propongano due, noi comunicheremo la nostra decisione solo il giorno prima" ci venne spiegato.

Accettai la sfida.
Portai storia come prima materia, poi fisica e italiano.
Il programma di fisica poteva essere scritto su un tovagliolino da bar. Quello d'italiano sulla Treccani, edizione extra large.
La commissione scelse la Treccani.
Feci l'ultimo ripasso tutto in una notte. Arrivai all'orale senza aver dormito. Un fascio di nervi con occhiaie da panda. Passai per prima. Andò bene. Andò molto bene.
Dormii.

La maturità è un esame ricco di pathos.
La maturità è materiale per racconti, incubi e post su blog.
La maturità, per il resto, non serve a un cazzo.
E, niente, io avrei deciso di fare una cosa.
Sono mesi che ci penso, forse quasi un anno.
Niente di che, una cosa piccolina.

Uno di quei gesti d'artista col gonnellone e i fiori tra i capelli. Anche se io non sono così. Niente gonnellone e niente fiori.

Però questa cosa mi piacerebbe proprio farla. Mi piacerebbe scrivere i miei racconti, quelli più piccini, su dei foglietti di carta e poi lasciarli in giro per la città. Senza nessuno scopo. Così, solo per il gusto di farlo.

Solo per il gusto d'immaginare l'incontro casuale e involontario tra uno sconosciuto e le mie parole. Qualcuno che le trovi, le legga, e poi magari sorrida. O magari no.

Io, a fare questa cosa qua, mi vergogno come una ladra. Ma non importa, la voglio fare comunque che, se fosse per la vergogna, nella vita non avrei mai fatto nulla.
Ho attivato i miei contatti su facebook, ho pubblicato il volantino in bacheca, ho mandato un poco di email. Bene, ho utilizzato tutti i miei canali di comunicazione. Perfetto.

Ma bene de che? Ma perfetto cosa? E il blog? Mi sono dimenticata del blog!

L'ho detto a cani e porci, tranne che ai miei lettori adorati che, legittimamente, ora avrebbero il sacrosanto diritto di sputacchiarmi in pieno viso.

La prossima settimana comincia il mio laboratorio di scrittura via Skype. Ebbene sì! Mi sono inventata anche questa.

Siete interessati?
Commentate, scrivete, fatemi sapere.
C'è ancora posto ma il tempo stringe!

E non fatemi quella faccia lì. Non prendete la dimenticanza come un affronto personale. Lo sapete, sono una donna sbadata, confusa e confusionaria. Ma voi mi amate nonostante tutto, no?
No?
Ah, ecco.

Non bevo mai tè a colazione. Quasi mai. Di solito preferisco il cappuccino.
Bevo tè solo quando ho mal di gola, altrimenti il latte mi s'incastra vischioso tra le tonsille grosse come palle da golf.

Non bevo mai tè a colazione, ma stamattina sì. Avevo finito il latte.

E poi c'era il sole. E mi è sembrata come una di quelle mattine d'estate nella casa in campagna.
Ci passavo le ferie quand'ero piccina. Ero la più piccola e mi toccava dormire in un lettino nella camera dei miei, mentre i cugini grandi si dividevano le camere al piano superiore. Un'invidia.

Però la mattina era bello svegliarsi in quel lettino.
I miei erano già in piedi da ore. Io mi stiracchiavo, con il sole che filtrava sottile dalle imposte di legno e i rumori che arrivavano da fuori.
C'erano le donne che spignattavano. Loro spignattavano sempre, a qualsiasi ora.
C'erano gli uomini che legavano rami e tagliavano erba. Mio padre si lamentava "Sono venuto via dal paese per non fare più il contadino, e ora mi tocca farlo in vacanza!"
C'era il nonno che partiva per una delle sue passeggiate infinite. "Ci vediamo a pranzo", annunciava già per strada. "Non fare tardi France'", si raccomandava la nonna.

Io mi alzavo e scendevo le scale con le mie gambette secche che spuntavano dal pigiama estivo. Maglietta e pantaloncini. Ogni anno mia madre me ne comprava uno nuovo. Con la frutta, con i fiori. Con i pupazzi no. "Mia figlia non li vuole con i pupazzi, dice che sono da bambina", spiegava alle commesse, mentre faceva compere per la sua esigente figlia minore.

Scendevo con il mio pigiama da adulta elegantona di 8 anni, entravo in cucina e aspettavo la colazione. In città non facevo mai colazione col tè, ma in campagna sì, perché me lo preparava mia zia Concetta. E mia zia Concetta ha sempre avuto il dono di rendere tutto più buono. Più nutella sul pane e nutella, tanto zucchero nel tè amaro.

E così cominciavo la mia giornata, facendo la zuppetta di fette biscottate in una tazza di tè con un imbarazzante numero di cucchiaini di zucchero. E le giornate che cominciavano così erano sempre belle.

Quindi stamattina ho messo un imbarazzante numero di cucchiaini di zucchero nel tè e, già che c'ero, ci ho fatto la zuppetta con la crostata di mammaCole. Che, nel frattempo, anche lei ha imparato a rendere le cose più buone.

Non è stata una giornata senza pensieri come quelle di una volta. Ma è stata comunque bella. Potere del sole che filtra tra le imposte, del tè a colazione, e dei ricordi che coccolano il presente.

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