Oggi inizia una nuova rubrica che andrà avanti fino a quando ne avrò voglia. Perché, in fondo (neanche tanto infondo) il blog è mio è faccio quello che voglio io.
Comunque, quest'anno ho deciso che, più o meno una volta al mese, prenderò una carta di
Dixit e ci scriverò sopra un racconto. O un pensiero, o una poesia, o una microstoria, insomma, qualcosa.
Per iniziare con molta calma e non farmi prendere dall'ansia di prestazione, recupero una vecchia carta e un vecchio racconto che avevo scritto in occasione del
Laboratorio Condiviso di Scrittura.
Come sempre, se va anche a te di scrivere, fatti ispirare e, se vuoi, mandami il tuo racconto da leggere. Ti risponderò con poche righe di feedback. Il mio indirizzo è janecole@live.it.
E ora, ecco il mio racconto:
Pioveva a dirotto quando raggiungemmo il nostro posto preferito: un parcheggio a spina di pesce lungo corso Francia. Se si era abbastanza fortunati da trovare un buco, era la scelta ideale, si stava nascosti in bella vista in una zona sicura. "Eccoci qui" dissi guardandolo dallo specchietto retrovisore. Lui sbadigliò e si stropicciò gli occhi.
Spostatami anch’io sul sedile posteriore, gli slacciai le scarpe e lo aiutai a infilarsi il pigiama, quello in pile che gli avevo comprato per lo scorso natale. "Ormai ti sta corto" dissi con lo sguardo alle sue caviglie nude.
Poi venne il mio turno di prepararmi: mi tolsi gli stivali e mi rifugiai in un vecchio golfino. Quello marrone. Quello che pungeva. Paolo lo giudicò con il suo broncio bambino ma poi si arrampicò su di me, appoggiando senza esitazione la sua guancia paffuta alla mia spalla ossuta di lana infeltrita. Abbracciati così riuscivo ancora a sentire quell’odore d’infanzia, dolce e pulito, nonostante tutto.
Dietro, con lo schienale tirato giù, c'era posto per tutti e due, e anche per Gino. Il nostro cane di pezza.
Ci sdraiammo, avvolti tutti e tre nella coperta, stretti stretti tra due valige e alcune buste. Il lampione illuminava l'abitacolo ma i vetri bagnati ci regalavano l’illusione di uno spazio solo nostro.
"Hai freddo?" gli chiesi in una carezza.
"No" rispose con la sua piccola voce.
"Perfetto, allora dormi, notte tesoro mio"
"E la storia?"
"Ma non sei stanco?"
"No" biascicò col visino stretto tra Gino e me.
"Va bene" sorrisi nei suoi capelli sottili.
"Dove eravamo rimasti?"
"Carota…"
"Giusto, Cavalier Carota.
Il Cavalier Carota aveva superato il labirinto e, una volta attraversato il corridoio rischiarato solo da alcune fiaccole, era giunto in una stanza.
Lì, di fronte a sé, trovò tre porte".
La città attorno a noi si stava addormentando. E Paolo con lei. Solo io ero destinata a rimanere sveglia a lungo, come sempre, cercando la via d’uscita per Cavalier Carota e soprattutto per noi.