Ecco i Racconti di Natale del Laboratorio Condiviso di Scrittura.
C'è un po' di tutto, fantasia e realtà , dramma e stupidera.
Buona lettura da tutto il Lab e vi si dà appuntamento domani per l'ultimo esercizio dell'anno e, soprattutto, del Laboratorio.
C'è un po' di tutto, fantasia e realtà , dramma e stupidera.
Buona lettura da tutto il Lab e vi si dà appuntamento domani per l'ultimo esercizio dell'anno e, soprattutto, del Laboratorio.
8 Dicembre
la pienezza di un numero
il grembo di un’iniziale
La Madre Immacolata
l’inizio di Mirià m
l’origine di tutte le Madri
L’essere Madre
l’essere corpo
Sentire il corpo che non ha contenuto
in un verbo che volge al passato
Un senso di vuoto relativo
da riempire con nuove concezioni
Un futuro immediato
uguale a tanti altri Natali passati
Il rinascere nonostante tutti
L’attesa di una magia
che delude sempre qualcuno
I giorni a seguire che si fanno leggeri
Sopravvivere ogni volta
per lasciarsi alle spalle
il prossimo avvento.
Sirena Aliena
Dato che il Natale che sta per arrivare sarà particolarmente sfigato, mi sono detta che tanto valeva fare la sequenza e creare una specie di museo personale dei giorni di Natale andati a male. Dato che ho un certo numero di anni, ho avuto la possibilità di saltare di qui e di lì nei miei ricordi, e organizzare questa rassegna speciale. Fingete che il foglio che state leggendo sia decorato con foglie di agrifoglio e palle luminose intermittenti. Anche Santa Claus, se proprio ci tenete.
1964 – Quell'anno mio padre portò a casa un albero così grande che fu difficile farlo passare dalla porta di ingresso. Quando lo issammo, la punta del pino si era ripiegata contro il soffitto, creando uno strano effetto, ricordava un gigante imprigionato. Una giraffa verde, un dinosauro gentile capitato per caso nel nostro appartamento. Impossibile infilzare il puntale sfavillante, sarebbe andato in mille pezzi. Ricordo che mia madre era molto nervosa, mentre Io mi divertivo un mondo a nascondermi sotto le accoglienti fronde odorose, con gli aghi che mi pungevano la faccia e le lucine che danzavano davanti agli occhi. Non mi importava se non c’era il puntale, amavo il mio compagno di giochi silenzioso e protettivo. A mia madre dava fastidio quell’odore insopportabile di resina e le mie incursioni di bambina visionaria. Mio padre aveva provato a socchiudere la finestra, ma il filo di corrente dava fastidio a mia madre e le procurava il torcicollo. Come se non bastasse, noi bambini le facevamo venire il mal di testa con quei litigi per i numeri estratti. Sai che c’è aveva detto mia madre, vado a letto. E così aveva fatto, portando con sé la sua amata borsa dell’acqua calda.
1970 – la zia Caterina era rimasta vedova da poco ed era venuta a passare il Natale da noi. Mio padre ci aveva minacciato: non dovevamo per nessun motivo parlare dello zio Giulio. Ma fu lei che lo nominò, chiedendoci se avevamo ancora le costruzioni che ci aveva regalato lo zio qualche anno prima. Fummo assaliti dal panico, dove cavolo le avevamo messe? E se la zia le voleva vedere, fare una casetta per passare il pomeriggio, cosa avremmo potuto dirle? Che eravamo così cattivi da aver perso le costruzioni dello zio? Fu mio fratello a trarci di impaccio. Disse che avevamo aderito ad un’iniziativa di raccolta per i bambini terremotati e ci era sembrato così bello donare il regalo dello zio. La zia si era commossa, l’avevamo scampata bella. Ma il peggio doveva ancora venire. Mia madre, apparecchiando la tavola, si era accorta che la tovaglia di lino bianca era macchiata. La zia, prontamente, l’aveva rassicurata, dicendo che andava bene la tovaglia di tutti i giorni, in ogni caso le macchie si sarebbero potute nascondere con i bicchieri. Anche mio padre era di quell’avviso, e aveva preso l’iniziativa di occultare i terribili segni del misfatto. Per tutta la durata della cena mia madre non gli rivolse più la parola. Al momento di tagliare il panettone, ci comunicò che aveva il mal di testa e preferiva andare a coricarsi. Guardammo alla televisione Stanlio e Olio, con il volume molto basso, per non dare fastidio alla mamma.
1979 – Ormai eravamo diventati grandi e del Natale non ci importava più niente. Ascoltavamo canzoni intitolate: love will tear us apart, again. Eravamo sempre vestiti di nero. Io mi ero tagliata i capelli a spazzola e mettevo il gel. L’università andava male, bivaccavamo nei corridoi della facoltà per non stare al freddo, insomma, la mia carriera scolastica stava andando alla deriva. Non parliamo di quella sentimentale, perché lì era un’ecatombe. Mia madre aveva cucinato spaghetti e una frittata, tanto la cena di Natale sarebbe durata al massimo mezz’ora. Mio padre aveva iniziato una cura per la depressione, che non dava grossi risultati. Forse fingeva di prendere le pastiglie e le buttava nella spazzatura? Non indossava più la sua impeccabile giacca da camera, ma un golf arancione tutto consumato sui gomiti. Ad ogni modo, era suonato il telefono. Era il solito tizio che cercava mia madre. Lei era corsa in corridoio, togliendosi il grembiule in fretta e furia. Quando era tornata, sembrava ringiovanita di dieci anni. Le avevo detto che l’albero di Natale era spento, probabilmente le luci si erano fulminate. Mia madre aveva risposto che non aveva importanza, tanto era l’ultimo anno che lo facevamo.
1987 – Mio padre se ne ere andato da poco, per un male incurabile, come si diceva allora. Io mi ero trasferita dal mio fidanzato, che era colto e intelligente, ma aveva un debole per l’eroina. Durante le feste faceva sempre dei buoni propositi e si chiudeva in casa per non vedere nessuno, alle volte lo trovavo chiuso in bagno e mi sa che non era così vero che non vedeva i suoi amici. Mia madre aveva un fidanzato nuovo, quello delle telefonate si era prontamente dileguato quando aveva scoperto che mio padre si era ammalato in modo irreversibile. La nuova fiamma della mamma era un farmacista in pensione, piuttosto benestante, ma a sua detta molto guardingo nei confronti delle donne per via di un divorzio accidentato. Si erano conosciuti per una simpatica coincidenza: un’agenzia immobiliare aveva fissato ad entrambi un appuntamento alla stessa ora per visionare un appartamento in vendita. Quasi come “Ultimo tango a Parigi”, avevo detto a mia madre, che però non lo aveva visto. Quella sera lei non era né triste né allegra. Se ne stava in piedi a guardare la sedia di mio padre, con le mani impiastricciate di pastella per friggere. Cosa hai le avevo chiesto, ma non mi aveva risposto, il campanello aveva suonato, va ad aprire deve essere Remigio mi aveva detto. In effetti, non assomigliava per niente a Marlon Brando. Aveva un portamento goffo e non aveva la classe di mio padre, che metteva la cravatta anche per andare dal tabaccaio. Remigio, però, produceva dell’ottimo barbera. Per inciso, va detto che non ho mai più mangiato carciofi fritti buoni come quelli che faceva mia madre.
1996 – Anno horribilis, Natale di merda. Sulla soglia dei quarant’anni, ero stata lasciata per una ventiseienne giovane e flessuosa. Niente di nuovo sotto il sole. Lacrime a profusione, problemi economici, crisi esistenziali acute, amiche che durante le feste ti trascinano da una parte all’altra della città come un sacco vuoto, ma ingombrante. Ricordo di aver dormito nella camera da letto del fratello di una collega molto più giovane di me. Il ragazzo doveva avere una trentina d’anni, ma quella in cui mi trovavo era la dimora di un perfetto adolescente. Le lenzuola erano appallottolate in un grumo disorganizzato e sul pavimento erano sparpagliate cinque o sei scarpe da ginnastica enormi e puzzolenti. La mattina di Natale la giovane amica ed io avevamo fatto colazione a mezzogiorno, con un mal di testa da postumi alcoolici, con quello che avevamo trovato nel frigo: resti di pasta al forno, olive condite e carciofi fritti, ma niente a che vedere con quelli che faceva mia madre. Dalla finestra della cucina si vedeva il Po che scorreva, placido e maestoso, nel gelo silenzioso del giorno di Natale. Ci immaginavamo i pranzi di famiglia, le decorazioni e tutto il resto, mentre noi eravamo a tavola senza nemmeno la tovaglia a mangiare direttamente dalla teglia. La mia amica aveva gli occhi di un azzurro disarmante, mi parlava di musica (adoravamo entrambe i C.S.I.) ed era straordinario che qualcuno si stesse prendendo cura di me.
Cari lettori, qui finisce per quest’anno la rassegna, non sono riuscita ad andare oltre, per sintetizzare dirò che ci sono anche stati Giorni di Natale Carini, Decisamente Belli, Abbastanza Noiosi, Uno o Due Splendidi. Scrivo per dire che sono grata a tutte le persone che hanno passato con me questa data fatidica, rivolgo un pensiero a quelli che mi hanno fatto soffrire, e dato che sto per raggiungere la saggezza della vecchiaia, dico: va bè, dai, non importa.
So già che quest’anno passerò il giorno di Natale da sola. Il Covid me lo impone. Così, per imbastire il prossimo racconto, ho deciso che lo potrò passare a scrivere, con il sottofondo di una buona musica e un bicchiere di vino. Tema: i momenti più belli della mia vita.
Non è mica facile raccontare la gioia, tutti quelli che amano scrivere sanno che è molto più semplice buttarsi nelle storie sfigate, proprio come ho fatto io in questa occasione. Però è così divertente! Auguri, amici!
Barbara Fiore
La casa era immersa nel buio e nel silenzio. Un uomo sedeva su una sedia in cucina, davanti a sé una tazza di caffè fumante ed un'altra tazza, vuota. Mentre preparava il caffè, Ettore – questo era il suo nome – tirò fuori due tazze, ma poi la consapevolezza di quello che era accaduto lo colpì come un pugno allo stomaco. Ettore fissò la tazza vuota e le lacrime rigarono il suo volto segnato dall’età .
Appena due settimane prima lui e la moglie Giulia si erano svegliati alla solita ora, e avevano percepito subito che qualcosa non andava. I dolori alle ossa e quella insistente tosse secca che non avevano avuto fino al giorno prima li avevano messi in allarme. Da lì in poi tutto era precipitato: la chiamata al medico, il fastidioso tampone al naso, le condizioni di Giulia che erano peggiorate sempre di più fino alla comparsa degli infermieri e della barella all’uscio. Ettore si era ripreso quasi subito dalla malattia, ma la moglie era ancora isolata in ospedale senza poter comunicare con Ettore e lui era rimasto solo in casa, preoccupato a morte per la sorte della compagna di una vita. I figli lontani ed ormai affermati nelle loro rispettive professioni non sapevano nulla. Ettore inventava ogni volta delle scuse per l’assenza della moglie, una volta al mercato, l’altra volta in chiesa, ed alla fine delle chiamate Ettore puntualmente si scioglieva in un pianto disperato.
Nonostante il buio, il silenzio ed il dramma che si stava consumando in cucina, sotto il letto della camera padronale regnavano euforia ed eccitazione. Sotto il letto, infatti, c’erano tre scatole che una mano armata di un pennarello rosso aveva etichettato con le scritte “addobbi”, “presepe” e “luci”. L’eccitazione era palpabile, all’interno delle scatole. Tutti erano ansiosi di fare mostra di sé sull’immenso tavolone della sala, a partire dall’albero di Natale in plastica – ecologico, puntualizzava lui – il quale non vedeva l’ora che i suoi rami venissero aperti, alle luci led supertecnologiche che Giulia aveva assolutamente voluto comprare, al presepe con bue, asinello, pastori e tutto quello che serviva per rendere il Natale un po’ più speciale.
Ma tutti avevano capito che qualcosa non andava. Ogni sette dicembre, avveniva sempre lo stesso rituale. Le scatole venivano tirate fuori ed il loro contenuto diligentemente messo sul letto, precedentemente protetto con un telo di plastica (“che chissà quanta polvere fanno!” diceva sempre Giulia), dopodiché si partiva con la sistemazione dell’albero ecologico e del presepe, il tutto coperto da addobbi e lucine. Ettore e Giulia impiegavano tutto il giorno ma alla fine, stanchi e soddisfatti, si sedevano in salotto mano nella mano ad ammirare la bellezza di un lavoro ben fatto. Quest’anno, però, nonostante il momento di tirare fuori le scatole fosse passato da un pezzo, non era ancora successo nulla. La preoccupazione serpeggiava nelle scatole.
I giorni passavano lenti, tra l’ansia di Ettore per la moglie lontana e malata gravemente e quella degli addobbi che ormai avevano perso le speranze di far bella mostra di sé.
Due giorni prima di Natale il telefono, normalmente silenzioso tranne che per le chiamate dei figli, aveva interrotto il silenzio della casa.
“Pronto…”
“Ciao Ettore, sono io”, la voce era stanca ed affaticata ma Ettore l’aveva riconosciuta immediatamente.
“Giulia! La mia Giulia! Come stai amore mio, mi manchi tanto!”
“Ciao Ettore”, aveva ripetuto la donna, “anche tu mi manchi tanto. I medici però mi hanno detto che sono molto migliorata e che posso ritornare a casa tra una settimana. Hai preparato gli addobbi?”
“Certo, è tutto pronto”, aveva mentito spudoratamente Ettore “manca solo il bambinello da mettere nella mangiatoia”.
“Quello lo voglio mettere io quando tornerò”, aveva detto Giulia con un tono fermo nella voce “non importa se sarà più tardi del solito”.
“Certo, sarà il nostro modo per festeggiare la nascita, anzi la rinascita”, aveva detto Ettore che ormai non riusciva più a nascondere l’emozione, “aspettiamo tutti solamente te”.
“Tutti chi?”, aveva risposto Giulia con un tono sospettoso nella voce.
“Tutti noi: gli addobbi, l’albero, il presepe e le lucine”, aveva detto Ettore che ormai piangeva a dirotto.
La telefonata si interruppe con Giulia che ancora stava ridendo. Ettore corse al letto, tirò fuori le scatole e tra le sue lacrime di gioia e le manifestazioni silenziose di giubilo degli addobbi, la casa prese vita, si riempì di lucine e addobbi. Natale era finalmente arrivato, anche per Giulia ed Ettore.
Erano tutti felici tranne il bambinello, che avrebbe dovuto aspettare ancora un po’ ma poi sarebbe diventato il protagonista indiscusso del presepe e se ne fece una ragione.
Beppe Carta
Mamma Pallina Rossa adorava più di tutto iniziare ad addobbare l'albero con le stelle del cinema, delle più sfavillanti e sorprendenti, e non si limitava ai più banali attori di Hollywood ma andava a trovare elegantissimi attori francesi del cinema d’essai e le più esagerate star bollywoodiane. L'anno poi del cinema spagnolo con tutti i cast di tutti I film di Almodovar non se lo sarebbe dimenticato mai nessuno.
Dal canto suo papà Pallina Blu preferiva di gran lunga appendere gli addetti alle professioni manuali e si divertiva un mondo a posizionare maniscalchi, panettieri, pittori e ciabattini. “Metalmeccanici come se piovessero!” era il suo motto, ma la spiritosa mamma Pallina Rossa lo correggeva sempre con “Metalmeccanici come se dovessero!” e si facevano tutti insieme grasse e lucide risate mentre i bambini un po' attoniti appendevano il logo della Fiat e della Pirelli.
I più piccoli invece impazzivano ad aggiungere le schiere di ballerine coi tutù rosa, le pattinatrici, i giocatori di palla canestro e i venditori di caldarroste.
Una aggiunta dell'ultimo minuto dei programmatori software, qualche litigio su chi dovesse piazzare i contorsionisti e i clown, e il gioco era fatto. Un festoso albero di Natale con le più splendide e varie umanità natalizie dispiegate nella loro sfavillante eleganza.
Sotto l'albero, si sarebbero presto accumulati i regali: laccetti dorati dei più svariati modelli, stencil per greche glitterate, soffici cuscinetti da riposo, coroncine plastificate di moderna tecnologia e lucido per plastica per essere sempre eleganti in ogni occasione.
Che ricorrenza splendida l'otto dicembre, un giorno perfetto per la famiglia Addobbi.
Marina Alice Cibin
"No, troppo lavoro, non ho tempo"
"E daiiii"
"NO!"
"Facciamo il presepe quest'anno?"
"No, quest'anno no"
"E daiiii"
"NO!"
"Il presepe?"
"No, due palline sull'albero e ci togliamo il pensiero"
"Ma daiiii"
"NO"
Lo scontro di volontà tra me e mia madre si svolgeva sempre uguale ogni 8 dicembre. Io ero una bimba, piccola, gracilina e decisamente caparbia. Una testa tonda, dura e riccia in bilico su un lungo mucchietto d'ossa. Lei era una donna giovane, lavoratrice, maniaca del controllo e dell'ordine. E il muschio, si sa, fa disordine.
Alla fine mia madre, distrattamente, si lasciò sfuggire un "Il prossimo anno" e io, 365 giorni dopo, mi presentai a riscuotere il mio obolo di carta, plastica e neve finta.
"Me l'hai promesso" le dissi mentre lei stazionava sul water. Meglio prendere il nemico di sorpresa. Esibendo quel tono e quello sguardo tipici dei bambini dalla morale inattaccabile, i principi saldi e l'animo bacchettone.
"Hai ragione" sospirò. "Ma non ora, devo andare a lavoro"
"Lo farò io" proposi, in qualità di vera appassionata natalizia e – come si sarebbe scoperto con gli anni – unico membro della famiglia portatore del gene della creatività .
Lei vacillò, sospirò e poi indicò la lungagnona alle mie spalle, "Fatelo voi due, mi raccomando".
La lungagnona era mia sorella, maggiore di 8 anni, Maria. Già un'adolescente, poco interessata agli addobbi natalizi e molto più ad uscire con le amiche, che però quel pomeriggio mollò tutto per mettersi all'opera con me.
Il pastore, la fornaia, "Questa sembra la Loren", pecore a profusione, cigni e papere a rincorrersi su uno specchietto, le montagne, "Accartoccia la carta", il cielo stellato, le lucine, i re magi, "Perché ne abbiamo due neri?" "Boh", Gesù bambino, "Ma lui non arriva a mezzanotte?" "Sì, ma il nostro è attaccato alla mangiatoia" "Prendi il cotone, soffoca il bambinello". Fatto.
Il risultato finale ci parve perfetto e attendemmo con ansia e orgoglio il ritorno di nostra madre dal lavoro.
"Ta daaaaaaaaa" allargammo le braccia verso la scrivania sacrificata per l'occasione.
"Ma che bello, brave!"
"Grazie!"
"Però..."
Spostò pecore, Re magi, papere e pastori. Riconfigurò montagne, impianto urbanistico e disposizione luci. "Ecco, così va molto meglio".
"Che ti puoi aspettare da una che fa polemica sulle barzellette" sciabattai via offesa nell'orgoglio e nell'estetica.
Solo dall'anno successivo la maniaca del controllo si arrese, la scenografa Pancrazia ebbe la meglio e la lungagnona Maria abbandonò i pastorelli in favore del fidanzatino.
Mia madre ed io abbiamo sempre avuto questo modo di rapportarci l'una con l'altra. Anzi col tempo, i nostri scontri sono diventati meno sottili e più espliciti, anche esplosivi, quando necessario. Dovreste sentire le nostre telefonate, che si parli di politica, scelte di vita, o sugo col tonno, non ci tiriamo mai indietro da esprimere la nostra ferrea opinione, quasi sempre contraraia a quella dell'altra. La lungagnona si chiede sempre perché io non lasci mai correre. Il perché non lo so, o forse sì, perché questo è il mio modo di essere figlia di mia madre. E quello è il suo modo di essere madre di questa figlia.
E per noi, tutto sommato, funziona.
Jane Pancrazia Cole
Vi sono piaciute le nostre storie? Condividetele!
0 commenti