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"Leggi". 

Così, pare, abbia risposto zia Jane alla nipote che le chiedeva un consiglio su come cominciare a scrivere.

Zia Jane, Jane Austen, ha sempre ragione.

Applausi, gioia e giubilo, standing ovation per gli ultimi racconti nati dal Laboratorio Condiviso di Scrittura. Ogni partecipante ha pescato tra tutti gli esercizi assegnati quest'anno e ne ha scelto uno.

Che grande avventura è sta questa. Ringrazio tutti, tutti, tutti, coloro che hanno partecipato, quelli da un racconto solo come i fedelissimi, coloro che hanno letto e pure coloro che mi hanno detto "prima o poi partecipo eh" e poi chi li ha più visti? 

Ringrazio voi che avete regalato a me e al mondo le vostre storie, la vostra fatica, il tempo dedicato a una parola dopo l'altra a una frase dopo l'altra, la vostra immaginazione e, in qualche caso, persino i vostri segreti.

Questa avventura si conclude con una miscellanea di storie, tanta gioia e parecchia nostalgia.

Buona lettura a tutti e, non temete, qualcos'altro m'inventerò!





La sua camera era rimasta esattamente come l’aveva lasciata, tre anni prima. Le fotografie che avevano vinto dei premi erano ancora lì, appese alle pareti. Il letto aveva ancora il piumino a tinte vivaci che tanto gli piaceva, su una mensola le foto più importanti della sua vita lo guardavano, circondate di argento massiccio che suo padre aveva cesellato.

Dalla cucina proveniva un buon profumo di pasta al forno, il suo piatto preferito. La madre lo stava preparando per festeggiare il suo ritorno a casa per le feste, il padre leggeva il giornale sul divano del salotto, come faceva tutte le domeniche.

La sua attenzione era stata catturata da una fotografia al centro esatto della mensola, una ragazza con gli occhiali scuri ed i capelli blu che guardava dritta in camera. Ricordava esattamente quando la foto era stata scattata. Era sdraiata sul trampolino di una piscina vuota, il suo migliore amico sopra di lei che cercava di non precipitare di sotto mentre scattava la foto, una vita fa.

Poco tempo dopo, aveva preso la decisione più difficile della sua vita. Era una splendida domenica di sole i cui raggi attraversavano il salotto illuminando il divano sul quale i genitori si erano seduti. Dopo qualche esitazione aveva iniziato il suo lungo racconto, in cui ricordava il voler giocare ai cosiddetti “giochi dei maschi” quando era piccola, la mancanza di un ragazzo, tutti quei piccoli segnali che si sarebbero poi tramutati in una ineluttabile ed a tratti feroce presa di coscienza. Lei non era una ragazza, era un ragazzo intrappolato in un corpo che non gli apparteneva, ormai era arrivato a un punto tale che non era possibile tornare indietro. I dottori la chiamano “riassegnazione di genere”, aveva spiegato, e comprende l’assunzione di ormoni, lunghe sedute psicologiche ed infine la chirurgia. Non voleva soldi, aveva detto, il suo lavoro legato alla fotografia le aveva dato l’indipendenza economica già da un po’, insieme ad un piccolo appartamento che fungeva anche da studio, voleva solamente che loro sapessero e che cercassero di comprendere ed appoggiare la sua decisione.

La madre aveva preso un profondo respiro ed aveva parlato a lungo. Tutti quei segnali erano stati visti e discussi nell’intimità insieme al marito, avevano convenuto entrambi che c’era qualcosa di insolito in quella figlia che giocava come centravanti e che aveva sempre preferito i trenini alle bambole. Ma, aveva proseguito, avevano deciso che andava bene così, la cosa più importante era che lei fosse felice. Quindi no, non era stato esattamente un trauma sentire quelle parole dalla figlia che si dovevano abituare a chiamare figlio, ma di sicuro ci sarebbero volute molte spiegazioni ai parenti, in special modo alle zie che avevano una mentalità molto meno aperta della loro, ma che ci avrebbero provato.

Il padre invece aveva inaspettatamente piegato il giornale con molta cura e si era allontanato dalla stanza. Per quasi tre anni il ragazzo non aveva mai ricevuto da lui un messaggio, una telefonata o una lettera. Finché un giorno, al risveglio dalla sua quarta operazione chirurgica, aveva trovato un mazzo di fiori accanto al letto, il biglietto diceva poche ma potentissime parole: “Scusa. Ti voglio bene. Papà”. Aveva pianto di commozione e di gioia fino ad addormentarsi.

E così il ragazzo si ritrovava nella sua vecchia stanza, col profumo del pranzo ed i ricordi che gli parlavano dal contenuto delle cornici d’argento cesellate a mano. Passando davanti allo specchio, il riflesso della sua figura era irriconoscibile rispetto a quella ragazza coi capelli blu e gli occhiali scuri che guardava dritto, quasi a sfidare, l’obiettivo che la stava ritraendo. Adesso aveva i capelli cortissimi e biondo scuro, un filo di barba ed il fisico muscoloso e ben definito. Ma non tutto era cambiato, l’amore dei suoi genitori era immutato, dandogli forza e determinazione. Il cammino sarebbe stato ancora lungo e difficile, questo lo sapeva, ma con i genitori al suo fianco niente pareva impossibile.

Con un mezzo sorriso era uscito dalla stanza, chiudendo alle spalle la porta e il suo passato. Adesso avrebbe avuto tante cose di cui parlare con i suoi genitori, davanti ad un buon piatto di pasta e ad un futuro importante e luminoso.

Beppe Carta




“Ogni movimento quella mattina era fatto per irritare, un cartone inanimato alla volta, un continuo aprire e chiudere quella dannata porta. Tutto sembrava fatto per far uscire il residuo di tepore rimasto, per far entrare il freddo nel nido che si stava svuotando irrimediabilmente durante il peggiore degli inverni. Dal vetro era scomparso anche quella sorta di “benvenuto” appiccicato. Una specie di copia della coppia caricaturizzata, adesiva, bidimensionale, con colori brillanti, con facce allegre e vestitini tondi e morbidi, di quelle che recitano il mantra “Love is...”. Sì, la porta, quella che avevo lasciato sempre aperta, a tutte le ore, in qualsiasi giornata, con qualsiasi condizione meteorologica. Aperta a chiunque, soprattutto a chi non mi garbava (reciprocamente), anche a chi aveva remato contro la nostra coppia, anche a lui che da un anno la utilizzava come una portineria. Sulla porta del frigorifero avevo messo il mio cuore, che recitava “dove c'è Amore c'è Casa”, lo aveva visto e io non avevo potuto fare a meno di vedere il suo ghigno, che oramai aveva smesso di coprire. Più avanti nel tempo lo avrei stanato, per sentirmi rinfacciare che in fondo ero stata io ad averlo chiuso fuori di casa. In effetti quel giorno, quando stava traslocando nella sua nuova vita, ero ferma sulla mia posizione dichiarata da sempre, sui cerchi che si stavano chiudendo inesorabilmente. Neanche quella sera chiusi la porta. Ma poi arrivò l'indomani con tutti gli andirivieni necessari e qualcuno in più, allora mi sentii pronta... e fu così che mi chiusi la porta alle spalle e, questa volta, per sicurezza, diedi anche due mandate.”

Sirena Aliena

***

Da fuori, la fabbrica aveva perfino un bell’aspetto. Mi avevano detto che era opera di un grande architetto, Agnelli era un uomo che amava le belle cose. Avevo ventidue anni, fidanzato in casa, vivevo in un monolocale sul ballatoio in attesa di sposarmi con Lorella, mia coetanea, impiegata presso un avvocato. Tiravo la cinghia per mettere da parte i soldi per il matrimonio. Ero bravo a fingere. La domenica erano tutte uguali: pranzavo a casa dai suoi, poi andavamo in centro a fare una passeggiata mano nella mano, discorsi approssimativi sul nostro futuro, bacio tiepido sulla guancia sulla soglia di casa. Salivo sull’autobus e vedevo la gente prendere fuoco, chiedevo permesso, scusi, devo scendere, camminavo per chilometri sudato e affannato, cercando di riportare il battito del cuore alla normalità.

Guarda che faccia che hai, si vede che non te la dà. Ragazzi, qui dobbiamo organizzare una spedizione a puttane per il ragazzo pugliese, quella timorata di dio lo sta facendo andare fuori di testa. Gerardo, il mio compagno alle presse, si preoccupava per la mia salute. Gli altri annuivano, confabulavano, volevano trovare un rimedio. Io stavo zitto, loro mi assicuravano che non era così che doveva andare, l’avessero avuto loro un buco per scopare in santa pace alla mia età. Altro che matrimonio, tiè fuma, che sei preoccupante. Cazzo, ma da dove è uscito questo qui? Dalla Puglia, rispondevo. Ecco, sei un disonore per la tua terra.

Così, decisero per una cura di altro genere. Mi portarono al circolo operaio, due locali al piano terra in mezzo alle case popolari, pieni di gente, fumo, le chitarre, i manifesti di Potere Operaio con il sole radioso, le ragazze che ancheggiavano. Il vino aspro, forte, e un senso di comunanza mai vissuto prima. Dai, sorridi, mi dicevano i compagni, e bevi ancora un po’. E quelle chi sono? Le compagne, le femministe, occhio, che neppure quelle te la danno, o se lo fanno, poi ti fanno la predica che sei un fallocrate di merda, attenzione, ragazzo. Meglio la tua Lorella, o Loretta o come tramischia si chiama. A proposito, la vedi ancora, quella piaga? Certo che la vede ancora, sono fidanzati in casa, il ragazzo si è fottuto con le sue stesse mani.

How do iiu feel, like a rolling stone. Avevo imparato la canzone che mi rispecchiava in pieno. La cantavo, tutto concentrato per via del mio inglese popolare, quando era arrivata lei. Spostati, mi aveva detto, e si era seduta in braccio. Come è che ti chiami tu? Sei nuovo non ti ho mai visto prima. Aveva un profumo forte, pungente, che non conoscevo, è patchouli, mi disse. Aveva tre metri di sciarpa addosso, credo fosse fatta con gli avanzi di lana. Sembrava assorta, concentrata, gettava fuori il fumo della sigaretta e potevo contarle i denti candidi, mentre cercavo di tenere a bada un’erezione che si faceva avanti impavida. Secondo me aveva bevuto troppo, ma se è per quello anch’io non avevo scherzato. All’improvviso tutto sembrava talmente facile, posso venire a trovarti? A casa? Si, certo, cos’hai, sei tutto rosso, non ti senti bene? Deve essere che ho bevuto troppo. L’idea di averla in casa, solo per me, era intollerabilmente meravigliosa.

Dopo una settimana, quando ormai non ci speravo più, mi aveva bussato sulla porta a vetri ed era entrata come un uragano nella mia stanza. Dopo un attimo di reciproco imbarazzo, ecco che mi sospingeva sul divano letto, per fortuna già chiuso, e mi aveva abbracciato, avvolgendomi, inchiodandomi, prendendomi di sorpresa. Ero terrorizzato. Di sesso non ci capivo niente. Lei respirava piano sul mio maglione, io la trattenevo accarezzandola dolcemente tra i capelli, Capivo che quello era una specie di miracolo e non volevo rovinare niente. Ma quale fosse la prossima mossa, io non lo sapevo. Dovevo toccarle il seno, sfilarle il maglione, leccarle le dita? Non volevo rovinare niente. Mi piaceva stare così, stretto, sentire che non le stavo facendo del male. Il tempo passava e per quel che mi riguarda, non esisteva più niente al di fuori di noi due. La sera ci avvolgeva, non avevo il coraggio di accendere la luce.

Tu sei diverso, dagli altri, mi diceva, sei bello. Ora devo andare. Se non arrivo per le sette e mezza, mio padre mi spara. Dice che ho solo diciassette anni, a me sembrano tanti e a te? Mi faceva domande ma non aspettava mai le risposte, galoppava sempre un metro avanti a me, posso tornare vero? Sulla porta mi aveva baciato, un bacio vero, come quelli dei film.

Nel giro di un mese, avevo disdetto il contratto di affitto, dato il preavviso in fabbrica. Fai bene, avevano detto i compagni, sei troppo giovane per restare a marcire qui dentro, vai giù coltiva la terra, metti su una falegnameria, non farti succhiare la vita. Approvavano? Si, approvavano. Non vedevo più scoppiare gli incendi, le allucinazioni erano finite. Con Lorella era stato difficile. Era dura con me, non capiva, se avevo un’altra perché me ne andavo, non avevo un'altra e lei non c’entrava niente, ero io che avevo sbagliato, avrei deluso i suoi genitori, e i miei, certo che non crescevo mai, ero proprio un immaturo.

E l’altra? La principessa era tornata un pomeriggio, con i biscotti per il tè. Mi raccontava della manifestazione per l’aborto libero, dei suoi problemi a scuola, di un tipo che le piaceva. E come mai volevo tornare al paese, e la mia ragazza che diceva. L’ho lasciata. Davvero? Senti, sai che c’è, ti regalo la mia sciarpa per ricordo, poi per le vacanze vengo a trovarti, se non vado in Grecia con le amiche, se mio padre mi lascia, dio che palle, certo al ritorno potrei passare, la puglia però è di strada se scendo a Brindisi posso raggiungerti. Ma davvero l’hai lasciata?

Dopo una settimana, era arrivato il giorno della partenza. Il mio monolocale aveva l’aria triste e abbattuta di sempre, con le pareti gialline e il calendario appeso di sghimbescio a cui non avevo più strappato i giorni. l’ho scampata bella, avevo detto, rivolto alle mie valige sul pavimento. Cosa dici, ragazzo pugliese ex-operaio Fiat? Gerardo era venuto a prendermi. Niente, parlo da solo, andiamo che si fa tardi. Mi chiusi la porta alle spalle, per sicurezza diedi due mandate. 

Barbara Fiore



Lola Larsen era la ragazza più bella di tutto Buenos Aires. Un corpo esile ma dalle giuste forme, lunghe gambe da gazzella, capelli talmente chiari da sembra bianchi, occhi verdi da gatta. Un aspetto fatto per sedurre che nascondeva un carattere spigoloso e poco incline alle moine.

Era arrivata in Argentina, insieme ai suoi nonni, all’età di quattro anni. La madre era morta pochi mesi prima e i tre si erano imbarcati dalla Svezia per raggiungere Olav Larsen, suo padre. Ricco imprenditore che era partito per il Sud America quando la piccola Lola doveva ancora venire al mondo. Aveva annusato un’occasione e aveva scelto di lasciare la giovane moglie da sola con il pancione. La piccola Lola non gliel’avrebbe mai perdonato.

Questa piccola bimba svedese era venuta al mondo quando le giornate erano brevi e le notti lunghe ma la madre aveva scelto per lei un nome caldo e straniero proprio per legarla a quel padre così lontano.

I nonni di Lola erano morti nel giro di pochi mesi. Olav e la bambina erano rimasti da soli. L’uno accanto all’altro a guardarsi sconosciuti.

Lola sarebbe stata cresciuta da numerose tate, avrebbe imparato rapidamente lo spagnolo ma l’avrebbe sempre parlato con un curioso esotico accento che, ormai donna, ne avrebbe addirittura aumentato il già notevole fascino.

Ottima musicista, portata per le lettere e ben educata. Lola era una dama bella e fredda, chiusa in un mondo privo di affetti.

Non aveva ancora compiuto quindici anni quando la sua eterea bellezza cominciò ad attirare l’attenzione degli uomini per strada o degli amici di suo padre. Molti la guardavano con la reverenza che si deve a una Madonna, altri con la lascivia ispirata dalla Maddalena. Lei ignorava in ugual misura sia gli uni che gli altri. Li notava ma non ricambiava, mai. Non che non volesse sposarsi. Lo desiderava moltissimo. Voleva una casa propria, voleva lasciare dietro alle spalle un padre verso il quale provava un irrazionale ma inossidabile rancore.

Desiderava un marito ma non voleva sbagliare, voleva l’uomo giusto accanto a sé, dai quattro anni in poi era stata costretta a trascorrere la propria infanzia con chi non amava, non avrebbe permesso che succedesse ancora. Non che volesse innamorarsi follemente. No, quello, no. Anzi, quello lo voleva proprio evitare, non voleva che l’amore annebbiasse il suo giudizio, proprio com’era successo a sua madre. Voleva un uomo accanto che non l’abbandonasse. Non lo doveva amare, l’amore era un sentimento volubile, lei voleva una presenza stabile, a cui appoggiarsi, di cui fidarsi.

Ed è per questo che più cresceva più si guardava in giro con attenzione. Non troppo giovane né troppo vecchio. Una professione stabile, un animo gentile. Infine, tra tutti i conoscenti di suo padre scelse il notaio Pedro Lopez. Era scuro, dove suo padre era chiaro, era allegro dove suo padre era rigido, era un figlio di quella terra e la guardava con ammirazione ma anche con allegria. “Signor Pedro” disse offrendogli dei pasticcini durante un piccolo ricevimento che suo padre aveva voluto organizzare per festeggiare l’ennesimo successo.
“Signor Pedro…”
“Buona sera madame Lola”
“Avrei una domanda da farle”
“Mi dica” disse addentando il pasticcino e sporcando di zucchero a velo i baffi neri.
Gli altri erano riuniti a chiacchierare in piccoli gruppetti, attorno a loro non c’era nessuno.
Pedro la guardava in attesa. Lola allungò il collo, sollevò il mento e fece rigide le spalle ancora più del solito. 
“Avrei una domanda da farle”, ripeté, “le spiacerebbe sposarmi?”

Jane Pancrazia Cole






“Non l'ho mai raccontato a nessuno... che in un giorno d'estate, con trenta gradi e una cappa d'afa, a poco a poco, si respira gelo, soffia un vento sospeso di parole non dette per timore, per orgoglio, per pregiudizi, a scoprire i sentimenti; e d'un tratto sembra la scena di un teatro, dove le attrici sono manichini di cera in una vetrina; incomprensioni che ingabbiano le vite, ragioni che rimbalzano come una palla su muri di gomma; e quanta fatica per trovare un punto d'incontro e per spiegare le ali, per essere in pace con la vita.”

Naomi



Dal mio punto di vista? Di poteri non ne ho nessuno, sono gli altri ad essere desolatamente normali. La loro tridimensionalità è un piattume che fatico ad osservare.
Sono troppo spensierata mi dicono, ma non posso fare a meno di trarre la gioia dalla mia quotidianità quando posso attrarre a me qualsiasi cosa io desideri con la facilità con cui mi vesto di un sorriso.
Mi piace danzare, e roteare, con i miei abiti vellutati, e nel mio vorticare attiro gli sguardi di chi è smarrito nella propria quotidianità dagli angoli ragionevoli.
Se ruoto abbastanza veloce, posso sparire, smetto di riflettere la luce che può incontrare i loro occhi ordinari, divento altro.
Scelgo talvolta di non essere trovata, e scelgo spesso di guardare oltre, nelle dimensioni che gli altri non possono vedere, vi cerco la bellezza.
Quando lo desidero, ciò che tocco si può cristallizzare in un eterno presente e si allunga all’infinito, sospeso sull’orlo della mia pelle, perché posso flirtare col tempo, che mi è amico. Quando lo incontro, il tempo, lo sfioro con la punta delle mie dita e ci osserviamo con calma in un istante eterno. Interrompo il contatto ed è già lontano.
Mi chiedono perché così splendida io sia ancora single, ma io sono molto più che single, sono una singolarità.
Io mi basto e mi completo, mi riempio e sono luce, anche quando per i loro occhi risulto assente, custodisco il tesoro che mi rende invincibile e plasmo ciò che mi circonda come voglio, perché non sono imbrigliata nei confini che mi attribuiscono. Se pensate che il mio sorriso sia solo due labbra e dei bei denti, vi siete persi un viaggio infinito tra i miei ossi alveolari.
Spesso mi hanno chiamato supereroe, e mi hanno chiesto come usassi le mie capacità per salvare il mondo.
Non condivido il loro punto di vista, e non perdo tempo a cercare di spiegare cosa significhi la mia esistenza. Mi chiamo Singleton e custodisco il segreto che rende l’universo possibile.

Marina Alice Cibin



Vi svelo un segreto grande, enorme, monumentale: BABBO NATALE ESISTE. 

Ve lo dico perché l’ho conosciuto, una notte d’inverno di inizio dicembre al bancone del Civili (n.d.r. storico locale livornese) davanti ad un ponce al mandarino caldo caldo. 
Vi descrivo brevemente la scena, per come me la ricordo. È passata nella mia mente così tante volte, oramai, che mi sembra quasi di averla vissuta ieri e non anni ed anni fa. 

Quell’uomo grande e grosso, con un vestito oramai consunto, le mani piene di galle di chi lavora duramente, il capo chino e pensieroso di chi ne ha viste tante, mi fa, dopo avermi pestato un piede ed urtato pesantemente per alzarsi e cercare di dirigersi – forse - in direzione bagno: “Ma sono bria’o?”.
“No no, non si preoccupi, ha solo qualche macchia di alcol e zucchero qua e là sul vestito rosso” – provo a dire. 
“De, e regali fii” – mi risponde, come a dire “non si preoccupi, signore, non fa niente” e mi abbraccia, con quel barbone oramai appiccicoso e puzzolente. Credo fosse seduto là dall’inizio del pomeriggio e che quello fosse il trentesimo ponce. 
Quando mi ha mostrato il bicipite ed il suo tatuaggio, ho deciso di fare quello che si fa in questi casi: gli ho preso lo smartphone ed ho chiamato il primo numero nel registro delle chiamate. Nientepopodimeno che La Befana. 

Una mezz’ora più tardi mi ero ritrovato seduto al bancone con lei. La Befana. 
“È saòsa? Un è mi’a che aggaisce di fame! C’ha solo d’andà in pensione a fine anno.” - A quanto pare, Babbo Natale aveva anche fatto proprio il detto “moglie e buoi dei paesi tuoi”. 
Continuando: “È tarmente allezzito che du’ citti in meno a fine mese ni fanno bruciaùlo. Be’ mi’ vaini, chissà che fine ni ha fatto fa’’” – come a descrivere un Babbo Natale moderatamente tirchio e ben poco avvezzo alla gestione dei soldi. 
Quindi, il povero Babbo Natale era soltanto un anziano fragile in depressione pre-pensionamento. 
Che uomo! Che cuore! 
Quella è stata la prima e l’ultima volta che li ho visti. In realtà, l’ultima volta che sono stati visti da qualcuno. 

“Tip tap tip tap 
Questa è l’ora l’ora dei folletti 
Tip tap tip tap 
Pazzerelli saltano i folletti 
Nella casa 
Stiam cercando cose buone e dolci da mangiare 
Pazzerelli saltano i folletti 
Stiam cercando proprio te.” 
Questa è la melodia che ha accompagnato l’irruzione ed il mio accerchiamento da parte di 10 stupidi folletti nel mio salotto, qualche settimana dopo. Non sembravano dolci-teneri-pazzerelli: vi dico solo che non riesco più a guardare Netflix da solo nel mio salotto. 
Recitando lentamente “tip tap tip tap” si sono allontanati ed è rimasto solo un folletto un po’ più alto, con la giacca ed incravattato. 
“Signor Brucialippa” – sapeva anche il mio nome! – “la mia visita non è casuale. Lei è l’ultima persona ad aver visto Babbo Natale e la Befana. Dal 7 dicembre Babbo Natale numero 17 è completamente scomparso nel nulla.” 
“Il Natale è in pericolo!” – sono saltato giù dal divano, già immaginandomi come l’eroe di un film natalizio o l’eroe in tutte le testate di giornale: “il Signor Brucialippa salva il Natale”. 
“Signor Brucialippa” – con quel tono mi ci chiama solo la ragazza che viene a fare le pulizie quando lascio troppo sporco – “La notte di Natale NON è una notte improvvisata. 
Nemmeno Amazon ha un sistema così fitto ed organizzato di ricevimento missive, magazzini locali, spie diffuse in tutto il mondo per segnalare, per esempio, che la nonna o la zia non abbia già comprato il regalo che il bimbo desidera. 
Quindi non si preoccupi del Natale. Si preoccupi di dirmi TUTTI i dettagli, movimenti o frasi che quei due sciagattati hanno fatto o detto”. 
Nonostante l’accento nordico e l’atteggiamento a signorina Tumistufi, qualcosa da quei due “sciagattati” l’aveva presa. 
“Il Vecchio era sempre stato un po’ strano. Essendo tutto ben organizzato, lui doveva fare solo da uomo-immagine. 
Eppure una cosa la voleva fare, disgraziato. 
Girava per le case – tutte le case del mondo – la notte dell’8 dicembre e rubava un addobbo, un vecchio regalo, un oggetto non molto visibile. VOI pensate l’abbia rotto il gatto; VOI pensate che sia rimasto in chissà quale scatolone. No. Era lui, Babbo Natale numero 17. Il Ladro. 
Rubava ai ricchi per dare ai poveri? Macchè! Per dare a sé stesso. 
Gli piaceva avere l’Albero ed il Presepe più grandi del mondo. 
Pazzo di un numero 17. 
Ora, il numero 18 è un tedesco fanatico. Ha scoperto il magazzino “diverso” e si è ricordato di un oggetto che gli è sparito un Natale di 20 anni fa di cui non si era mai dato pace. Purtroppo il magazzino “diverso” non ha il catalogo digitale e cercare là dentro un piccolo oggetto di chissà quale forma è un delirio. 
Vuoi farmi lavorare in pace col nuovo capo? Eh?” – mi aveva preso improvvisamente per la collottola, mentre per il resto del tempo aveva camminato in cerchio muovendo esagitatamente le mani e parlando a sé stesso. Tanto che nel frattempo mi ero fatto un thè per dimenticarmi degli elfi. 

Io non avevo saputo aiutarlo. 
Ma quell’incontro con Babbo Natale e la Befana non lo dimenticherò mai. 
Ogni volta che ci penso mi viene da fumare. Ho iniziato di nuovo subito dopo quel 7 dicembre. Mi sono trovato un accendino in tasca con sopra incisa una birra dell’Oktoberfest e..voilà! Chissà dove l’ho recuperato. 
Sono quegli oggetti che recuperi, che perdi e non te ne accorgi nemmeno. 
Gli accendini sono come gli ombrelli, no? O come la decima pecora del Presepe...

Marianna Palmerini

***

Maya amava il Natale, trovava inebrianti le luminarie della città, le decorazioni dei negozi; profumava persino la casa spargendo ovunque scorze di agrumi e sorseggiava con piacere vari infusi speziati. Sua madre Emma invece rimaneva piuttosto indifferente all’atmosfera delle feste. Non che Maya avesse mai avuto una spiegazione in merito a quello strano fenomeno, ne prendeva semplicemente atto ogni anno, sperando che prima o poi la donna cambiasse idea. Con i pochi risparmi della paghetta aveva comprato un piccolo albero sintetico, che decorava con palline dai colori diversi. 
Avrebbe tanto voluto aprire quella scatola in legno – posta nello scaffale più alto del ripostiglio – con su scritto “Vecchie decorazioni da non usare”, ma era sigillata e ogni volta che chiedeva a sua madre che cosa contenesse, riceveva sempre la stessa risposta: “Tu fai finta che non esista”. 
C’era solo un addobbo natalizio che Emma ogni anno si prendeva cura di togliere da una sacca di pesante velluto rosso pieno di morbida ovatta: la statuina di un soldatino Schiaccianoci, proprio come quello dell’omonimo balletto, con tanto di giubba rossa, barba bianca, corona dorata e bastone di ordinanza; Emma era stata una ballerina professionista prima che Maya nascesse e lo Schiaccianoci di Marius Petipa era il suo balletto preferito, portava la figlia a vederlo ogni volta che quella rappresentazione era in città, soprattutto nel periodo natalizio. Maya gioiva nel vedere la madre che felice canticchiava tra sé le note tanto conosciute, seguiva i passi con un lieve movimento del capo, piangeva durante la danza dei fiocchi di neve. 
Sì, di quel periodo era decisamente quello il giorno che la ragazza preferiva. 
La notte della vigilia Maya fu svegliata da un tonfo, si girò verso sua madre che invece dormiva tranquilla e scese dal letto per andare a vedere cosa fosse successo. Era certa che il rumore fosse stato in sgabuzzino e mentre vi si avvicinava sentì anche dei lievi bisbigli, che crescevano di intensità man mano. Aprì la porta e accese la luce: i bisbigli sparirono ma si preoccupò non poco nel vedere la scatola in legno proibita che giaceva semi aperta sul pavimento, facendo trapelare tutto il suo contenuto. Erano delle decorazioni bellissime: tutte dipinte a mano, in vetro, ceramica, legno, di tutte le forme e dimensioni. Statuine a forma di Babbo Natale, cristalli di vetro; c’erano persino le statuette della favola di “Alice” di Carrol; di Pinocchio, una di un Mariachi col sombrero e tante altre. 
Il cuore della ragazza batteva a mille: se sua madre l’avesse scoperto? Se qualcuna di queste si fosse rotta nella caduta? Rimase incerta sul da fare quando d’improvviso una voce: “È tardi, è tardi è tardi! Che aspetti a portarci in un posto sicuro?” 
Dallo spavento per poco non fece scivolare il Bianconiglio dalle sue mani. 
“Tu parli?” 
“Shhh, o Emma potrebbe sentire!” Disse un’altra voce dalla scatola. 
“Ma che diavolo…” 
“Nessun diavolo ragazzina, noi portiamo gioia.” 
“Siamo rimasti chiusi dentro tutti questi anni a fare la muffa, altro che gioia!” 
Si lamentò un’altra voce. 
Maya era terrorizzata. Stava sognando? 
“Vamos vicino all’albero e te esplicheremo todo!” 
E lei molto lentamente, ancora in stato di shock, obbedì al piccolo mariachi. 
Una volta lì anche lo Schiaccianoci parlò: “Ce ne avete messo di tempo!” 
“Zitto tu, che sei l’unico che proprio non può lamentarsi!” Gli inveì contro Alice. 
“State tutti bene?” chiese Il Re di Cuori. 
“Io mi sono rotto in due pezzi, ma non sono grave.” Disse un angelo di coccio. 
“A me manca una punta.” Disse un intarsiato abete in legno. 
“Insomma voi chi siete?” 
Il Re di Cuori continuò: “Noi siamo le vecchie decorazioni dell’albero di Natale di Emma, alcuni di noi abbellivano addirittura l’albero della casa dei tuoi nonni a New York. Proveniamo da tutto il mondo, da tutti i posti in cui tua mamma ha vissuto e in cui ha viaggiato prima che tu nascessi. Vedi? Lui proviene da Amsterdam, lui da Stoccolma, io da Oxford...” 
“Viaggiava per via della danza?” 
“Non solo, era una passione che aveva in comune con tuo padre.” 
“Oh, stavi andando così bene…” disse un pennuto giallo su una calza grandissima con scritto ‘Sesame Street’. 
“Non preoccuparti.” Rispose Maya “Ho pochi ricordi di lui e mamma non ama parlarne.” 
“Dopo che tuo padre ha avuto l’incidente ricordare i momenti con lui le faceva troppo male e così ci ha messo tutti nella scatola.” 
“Ha messo tutti noi, non te.” 
“Alice ha ragione: tutti loro. Io sono stato risparmiato perché non faccio parte di quei ricordi.” 
“Io provengo da un romanticissimo week end a Praga proprio nei giorni di Natale”. Disse una campanella di cristallo. 
“Anche io sono stato comprato a Natale.” 
“Anche io…” 
“Pure io…” 
“Ora capisco.” Disse Maya “Ma perché parlate? La scatola è caduta per un incidente? Io non voglio finire nei guai!” 
“Abbiamo sempre parlato ma mai in tua presenza! È il tuo spirito natalizio che ti dà il potere di sentirci, io l’ho sempre percepito e mentre me stavo dentro l’ovatta ho proposto agli altri di provare il tutto e per tutto, sperando nel tuo supporto”. 
“Io non ho mai voluto parlarti!” 
“Oh Alice, lo Schiaccianoci non ha colpe, non credi? Vi prometto che farò il possibile per aiutarvi. Certo è che avete corso il rischio di rompervi tutti, siete così belli ma così fragili!” 
“In realtà Emma ha sempre avuto cura di noi, guarda qui.” 
La stessa cura con la quale Emma faceva riposare il soldatino natalizio era stata riposta nella scatola di legno; Maya diede un’ aggiustatina ai pezzi rotti, li pulì per bene e sostituì le palline colorate con quei nuovi amici che scintillavano alle prime luci dell’alba. 
Quello sì che era un albero di Natale super. 
“Credi che mi metterà in castigo?” Chiese la ragazza al soldatino di legno. 
“Ormai sei grande! Falle capire che il suo passato non deve essere un ostacolo alla sua vita, alla vostra vita e vedrai che non ci saranno più decorazioni natalizie rinchiuse, anzi, tante altre si aggiungeranno alla collezione!” 

E così fu. 

Dedicato a tutte le persone a cui manca viaggiare: non rinchiudete la progettazione di un viaggio futuro in una scatola anzi coltivatela perché prima o poi potremo tornare a vedere il mondo e lui non vorrà vederci impreparati! 

Elisa Pozzati


Ho deciso di concludere questo anno con degli auguri natalizi diversi dal solito e, soprattutto, con un regalo che tutti, spero, possano apprezzare. Coloro che conoscono da sempre questo blog ma anche coloro che ci capiteranno per caso chissà quando in un lontano futuro. Per tutti loro, per tutti voi, ho riunito in un'unica pagina tutti i 21 esercizi del Laboratorio Condiviso di Scrittura 2020, in modo che chiunque, quando più desidera, possa cimentarsi e mettersi alla prova.

E come ultima prova di questa lunga ed emozionante avventura vi chiedo di scegliere proprio uno degli esercizi passati. Lo potete scegliere per caso o perché non l'avete mai fatto o, ancora, perché ai tempi l'avevate già svolto ma pensate che questa volta potreste creare qualcosa di migliore. Potete chiudere gli occhi e lasciare fare al fato o scegliere con attenzione certosina. L'importante è che alla fine selezioniate uno degli esercizi e lo svolgiate entro le ore 12 del 6 gennaio 2021.

Mandate il vostro scritto a me, all'indirizzo janecole@live.it. Scrivete nell'oggetto Laboratorio Condiviso di Scrittura e specificate, nel corpo della mail, con quale nome vi firmate e se volete essere taggati su FB.

L'8 gennaio, per l'ultima volta su questo blog, tutti i vostri (nostri) scritti verranno pubblicati e io non avrò mai abbastanza parole di ringraziamento per tutti coloro che hanno preso parte a questo lungo, impegnativo ma bellissimo progetto.

E ora: Buon Natale!


Ecco i Racconti di Natale del Laboratorio Condiviso di Scrittura.
C'è un po' di tutto, fantasia e realtà, dramma e stupidera.
Buona lettura da tutto il Lab e vi si dà appuntamento domani per l'ultimo esercizio dell'anno e, soprattutto, del Laboratorio.


8 Dicembre 
la pienezza di un numero 
il grembo di un’iniziale 

La Madre Immacolata 
l’inizio di Miriàm 
l’origine di tutte le Madri 

L’essere Madre 
l’essere corpo 

Sentire il corpo che non ha contenuto 
in un verbo che volge al passato 

Un senso di vuoto relativo 
da riempire con nuove concezioni 

Un futuro immediato 
uguale a tanti altri Natali passati 

Il rinascere nonostante tutti 
L’attesa di una magia 
che delude sempre qualcuno 

I giorni a seguire che si fanno leggeri 

Sopravvivere ogni volta 
per lasciarsi alle spalle 
il prossimo avvento.

Sirena Aliena









Dato che il Natale che sta per arrivare sarà particolarmente sfigato, mi sono detta che tanto valeva fare la sequenza e creare una specie di museo personale dei giorni di Natale andati a male. Dato che ho un certo numero di anni, ho avuto la possibilità di saltare di qui e di lì nei miei ricordi, e organizzare questa rassegna speciale. Fingete che il foglio che state leggendo sia decorato con foglie di agrifoglio e palle luminose intermittenti. Anche Santa Claus, se proprio ci tenete. 

1964 – Quell'anno mio padre portò a casa un albero così grande che fu difficile farlo passare dalla porta di ingresso. Quando lo issammo, la punta del pino si era ripiegata contro il soffitto, creando uno strano effetto, ricordava un gigante imprigionato. Una giraffa verde, un dinosauro gentile capitato per caso nel nostro appartamento. Impossibile infilzare il puntale sfavillante, sarebbe andato in mille pezzi. Ricordo che mia madre era molto nervosa, mentre Io mi divertivo un mondo a nascondermi sotto le accoglienti fronde odorose, con gli aghi che mi pungevano la faccia e le lucine che danzavano davanti agli occhi. Non mi importava se non c’era il puntale, amavo il mio compagno di giochi silenzioso e protettivo. A mia madre dava fastidio quell’odore insopportabile di resina e le mie incursioni di bambina visionaria. Mio padre aveva provato a socchiudere la finestra, ma il filo di corrente dava fastidio a mia madre e le procurava il torcicollo. Come se non bastasse, noi bambini le facevamo venire il mal di testa con quei litigi per i numeri estratti. Sai che c’è aveva detto mia madre, vado a letto. E così aveva fatto, portando con sé la sua amata borsa dell’acqua calda. 

1970 – la zia Caterina era rimasta vedova da poco ed era venuta a passare il Natale da noi. Mio padre ci aveva minacciato: non dovevamo per nessun motivo parlare dello zio Giulio. Ma fu lei che lo nominò, chiedendoci se avevamo ancora le costruzioni che ci aveva regalato lo zio qualche anno prima. Fummo assaliti dal panico, dove cavolo le avevamo messe? E se la zia le voleva vedere, fare una casetta per passare il pomeriggio, cosa avremmo potuto dirle? Che eravamo così cattivi da aver perso le costruzioni dello zio? Fu mio fratello a trarci di impaccio. Disse che avevamo aderito ad un’iniziativa di raccolta per i bambini terremotati e ci era sembrato così bello donare il regalo dello zio. La zia si era commossa, l’avevamo scampata bella. Ma il peggio doveva ancora venire. Mia madre, apparecchiando la tavola, si era accorta che la tovaglia di lino bianca era macchiata. La zia, prontamente, l’aveva rassicurata, dicendo che andava bene la tovaglia di tutti i giorni, in ogni caso le macchie si sarebbero potute nascondere con i bicchieri. Anche mio padre era di quell’avviso, e aveva preso l’iniziativa di occultare i terribili segni del misfatto. Per tutta la durata della cena mia madre non gli rivolse più la parola. Al momento di tagliare il panettone, ci comunicò che aveva il mal di testa e preferiva andare a coricarsi. Guardammo alla televisione Stanlio e Olio, con il volume molto basso, per non dare fastidio alla mamma. 

1979 – Ormai eravamo diventati grandi e del Natale non ci importava più niente. Ascoltavamo canzoni intitolate: love will tear us apart, again. Eravamo sempre vestiti di nero. Io mi ero tagliata i capelli a spazzola e mettevo il gel. L’università andava male, bivaccavamo nei corridoi della facoltà per non stare al freddo, insomma, la mia carriera scolastica stava andando alla deriva. Non parliamo di quella sentimentale, perché lì era un’ecatombe. Mia madre aveva cucinato spaghetti e una frittata, tanto la cena di Natale sarebbe durata al massimo mezz’ora. Mio padre aveva iniziato una cura per la depressione, che non dava grossi risultati. Forse fingeva di prendere le pastiglie e le buttava nella spazzatura? Non indossava più la sua impeccabile giacca da camera, ma un golf arancione tutto consumato sui gomiti. Ad ogni modo, era suonato il telefono. Era il solito tizio che cercava mia madre. Lei era corsa in corridoio, togliendosi il grembiule in fretta e furia. Quando era tornata, sembrava ringiovanita di dieci anni. Le avevo detto che l’albero di Natale era spento, probabilmente le luci si erano fulminate. Mia madre aveva risposto che non aveva importanza, tanto era l’ultimo anno che lo facevamo. 

1987 – Mio padre se ne ere andato da poco, per un male incurabile, come si diceva allora. Io mi ero trasferita dal mio fidanzato, che era colto e intelligente, ma aveva un debole per l’eroina. Durante le feste faceva sempre dei buoni propositi e si chiudeva in casa per non vedere nessuno, alle volte lo trovavo chiuso in bagno e mi sa che non era così vero che non vedeva i suoi amici. Mia madre aveva un fidanzato nuovo, quello delle telefonate si era prontamente dileguato quando aveva scoperto che mio padre si era ammalato in modo irreversibile. La nuova fiamma della mamma era un farmacista in pensione, piuttosto benestante, ma a sua detta molto guardingo nei confronti delle donne per via di un divorzio accidentato. Si erano conosciuti per una simpatica coincidenza: un’agenzia immobiliare aveva fissato ad entrambi un appuntamento alla stessa ora per visionare un appartamento in vendita. Quasi come “Ultimo tango a Parigi”, avevo detto a mia madre, che però non lo aveva visto. Quella sera lei non era né triste né allegra. Se ne stava in piedi a guardare la sedia di mio padre, con le mani impiastricciate di pastella per friggere. Cosa hai le avevo chiesto, ma non mi aveva risposto, il campanello aveva suonato, va ad aprire deve essere Remigio mi aveva detto. In effetti, non assomigliava per niente a Marlon Brando. Aveva un portamento goffo e non aveva la classe di mio padre, che metteva la cravatta anche per andare dal tabaccaio. Remigio, però, produceva dell’ottimo barbera. Per inciso, va detto che non ho mai più mangiato carciofi fritti buoni come quelli che faceva mia madre. 

1996 – Anno horribilis, Natale di merda. Sulla soglia dei quarant’anni, ero stata lasciata per una ventiseienne giovane e flessuosa. Niente di nuovo sotto il sole. Lacrime a profusione, problemi economici, crisi esistenziali acute, amiche che durante le feste ti trascinano da una parte all’altra della città come un sacco vuoto, ma ingombrante. Ricordo di aver dormito nella camera da letto del fratello di una collega molto più giovane di me. Il ragazzo doveva avere una trentina d’anni, ma quella in cui mi trovavo era la dimora di un perfetto adolescente. Le lenzuola erano appallottolate in un grumo disorganizzato e sul pavimento erano sparpagliate cinque o sei scarpe da ginnastica enormi e puzzolenti. La mattina di Natale la giovane amica ed io avevamo fatto colazione a mezzogiorno, con un mal di testa da postumi alcoolici, con quello che avevamo trovato nel frigo: resti di pasta al forno, olive condite e carciofi fritti, ma niente a che vedere con quelli che faceva mia madre. Dalla finestra della cucina si vedeva il Po che scorreva, placido e maestoso, nel gelo silenzioso del giorno di Natale. Ci immaginavamo i pranzi di famiglia, le decorazioni e tutto il resto, mentre noi eravamo a tavola senza nemmeno la tovaglia a mangiare direttamente dalla teglia. La mia amica aveva gli occhi di un azzurro disarmante, mi parlava di musica (adoravamo entrambe i C.S.I.) ed era straordinario che qualcuno si stesse prendendo cura di me. 

Cari lettori, qui finisce per quest’anno la rassegna, non sono riuscita ad andare oltre, per sintetizzare dirò che ci sono anche stati Giorni di Natale Carini, Decisamente Belli, Abbastanza Noiosi, Uno o Due Splendidi. Scrivo per dire che sono grata a tutte le persone che hanno passato con me questa data fatidica, rivolgo un pensiero a quelli che mi hanno fatto soffrire, e dato che sto per raggiungere la saggezza della vecchiaia, dico: va bè, dai, non importa. 

So già che quest’anno passerò il giorno di Natale da sola. Il Covid me lo impone. Così, per imbastire il prossimo racconto, ho deciso che lo potrò passare a scrivere, con il sottofondo di una buona musica e un bicchiere di vino. Tema: i momenti più belli della mia vita. 

Non è mica facile raccontare la gioia, tutti quelli che amano scrivere sanno che è molto più semplice buttarsi nelle storie sfigate, proprio come ho fatto io in questa occasione. Però è così divertente! Auguri, amici! 

Barbara Fiore



La casa era immersa nel buio e nel silenzio. Un uomo sedeva su una sedia in cucina, davanti a sé una tazza di caffè fumante ed un'altra tazza, vuota. Mentre preparava il caffè, Ettore – questo era il suo nome – tirò fuori due tazze, ma poi la consapevolezza di quello che era accaduto lo colpì come un pugno allo stomaco. Ettore fissò la tazza vuota e le lacrime rigarono il suo volto segnato dall’età. 

Appena due settimane prima lui e la moglie Giulia si erano svegliati alla solita ora, e avevano percepito subito che qualcosa non andava. I dolori alle ossa e quella insistente tosse secca che non avevano avuto fino al giorno prima li avevano messi in allarme. Da lì in poi tutto era precipitato: la chiamata al medico, il fastidioso tampone al naso, le condizioni di Giulia che erano peggiorate sempre di più fino alla comparsa degli infermieri e della barella all’uscio. Ettore si era ripreso quasi subito dalla malattia, ma la moglie era ancora isolata in ospedale senza poter comunicare con Ettore e lui era rimasto solo in casa, preoccupato a morte per la sorte della compagna di una vita. I figli lontani ed ormai affermati nelle loro rispettive professioni non sapevano nulla. Ettore inventava ogni volta delle scuse per l’assenza della moglie, una volta al mercato, l’altra volta in chiesa, ed alla fine delle chiamate Ettore puntualmente si scioglieva in un pianto disperato. 

Nonostante il buio, il silenzio ed il dramma che si stava consumando in cucina, sotto il letto della camera padronale regnavano euforia ed eccitazione. Sotto il letto, infatti, c’erano tre scatole che una mano armata di un pennarello rosso aveva etichettato con le scritte “addobbi”, “presepe” e “luci”. L’eccitazione era palpabile, all’interno delle scatole. Tutti erano ansiosi di fare mostra di sé sull’immenso tavolone della sala, a partire dall’albero di Natale in plastica – ecologico, puntualizzava lui – il quale non vedeva l’ora che i suoi rami venissero aperti, alle luci led supertecnologiche che Giulia aveva assolutamente voluto comprare, al presepe con bue, asinello, pastori e tutto quello che serviva per rendere il Natale un po’ più speciale. 

Ma tutti avevano capito che qualcosa non andava. Ogni sette dicembre, avveniva sempre lo stesso rituale. Le scatole venivano tirate fuori ed il loro contenuto diligentemente messo sul letto, precedentemente protetto con un telo di plastica (“che chissà quanta polvere fanno!” diceva sempre Giulia), dopodiché si partiva con la sistemazione dell’albero ecologico e del presepe, il tutto coperto da addobbi e lucine. Ettore e Giulia impiegavano tutto il giorno ma alla fine, stanchi e soddisfatti, si sedevano in salotto mano nella mano ad ammirare la bellezza di un lavoro ben fatto. Quest’anno, però, nonostante il momento di tirare fuori le scatole fosse passato da un pezzo, non era ancora successo nulla. La preoccupazione serpeggiava nelle scatole. 

I giorni passavano lenti, tra l’ansia di Ettore per la moglie lontana e malata gravemente e quella degli addobbi che ormai avevano perso le speranze di far bella mostra di sé. 

Due giorni prima di Natale il telefono, normalmente silenzioso tranne che per le chiamate dei figli, aveva interrotto il silenzio della casa. 

“Pronto…” 
“Ciao Ettore, sono io”, la voce era stanca ed affaticata ma Ettore l’aveva riconosciuta immediatamente. “Giulia! La mia Giulia! Come stai amore mio, mi manchi tanto!” 
“Ciao Ettore”, aveva ripetuto la donna, “anche tu mi manchi tanto. I medici però mi hanno detto che sono molto migliorata e che posso ritornare a casa tra una settimana. Hai preparato gli addobbi?” 
“Certo, è tutto pronto”, aveva mentito spudoratamente Ettore “manca solo il bambinello da mettere nella mangiatoia”. 
“Quello lo voglio mettere io quando tornerò”, aveva detto Giulia con un tono fermo nella voce “non importa se sarà più tardi del solito”. 
“Certo, sarà il nostro modo per festeggiare la nascita, anzi la rinascita”, aveva detto Ettore che ormai non riusciva più a nascondere l’emozione, “aspettiamo tutti solamente te”. 
“Tutti chi?”, aveva risposto Giulia con un tono sospettoso nella voce. 
“Tutti noi: gli addobbi, l’albero, il presepe e le lucine”, aveva detto Ettore che ormai piangeva a dirotto.

La telefonata si interruppe con Giulia che ancora stava ridendo. Ettore corse al letto, tirò fuori le scatole e tra le sue lacrime di gioia e le manifestazioni silenziose di giubilo degli addobbi, la casa prese vita, si riempì di lucine e addobbi. Natale era finalmente arrivato, anche per Giulia ed Ettore. 

Erano tutti felici tranne il bambinello, che avrebbe dovuto aspettare ancora un po’ ma poi sarebbe diventato il protagonista indiscusso del presepe e se ne fece una ragione. 

Beppe Carta


Mamma Pallina Rossa guardò papà Pallina Blu con le greche sopraccigliari alzate e lo invitò ad andare in cantina a prendere le scatole con gli umani natalizi prima del risveglio dei bambini. Lui le sorrise bonario con i suoi fiocchi di neve glitterati belli accesi sulle rotondità e rotolò verso la porta. I loro figli, Orsetto Con Sciarpina, Cavallino Dorato e Folletta Natalizia, aspettavano l'otto dicembre praticamente tutto l'anno, con grandissima trepidazione.
Mamma Pallina Rossa adorava più di tutto iniziare ad addobbare l'albero con le stelle del cinema, delle più sfavillanti e sorprendenti, e non si limitava ai più banali attori di Hollywood ma andava a trovare elegantissimi attori francesi del cinema d’essai e le più esagerate star bollywoodiane. L'anno poi del cinema spagnolo con tutti i cast di tutti I film di Almodovar non se lo sarebbe dimenticato mai nessuno.
Dal canto suo papà Pallina Blu preferiva di gran lunga appendere gli addetti alle professioni manuali e si divertiva un mondo a posizionare maniscalchi, panettieri, pittori e ciabattini. “Metalmeccanici come se piovessero!” era il suo motto, ma la spiritosa mamma Pallina Rossa lo correggeva sempre con “Metalmeccanici come se dovessero!” e si facevano tutti insieme grasse e lucide risate mentre i bambini un po' attoniti appendevano il logo della Fiat e della Pirelli. 
I più piccoli invece impazzivano ad aggiungere le schiere di ballerine coi tutù rosa, le pattinatrici, i giocatori di palla canestro e i venditori di caldarroste. Una aggiunta dell'ultimo minuto dei programmatori software, qualche litigio su chi dovesse piazzare i contorsionisti e i clown, e il gioco era fatto. Un festoso albero di Natale con le più splendide e varie umanità natalizie dispiegate nella loro sfavillante eleganza. 
Sotto l'albero, si sarebbero presto accumulati i regali: laccetti dorati dei più svariati modelli, stencil per greche glitterate, soffici cuscinetti da riposo, coroncine plastificate di moderna tecnologia e lucido per plastica per essere sempre eleganti in ogni occasione. 
Che ricorrenza splendida l'otto dicembre, un giorno perfetto per la famiglia Addobbi. 

Marina Alice Cibin



"Facciamo il presepe quest'anno?"
"No, troppo lavoro, non ho tempo"
"E daiiii"
"NO!"

"Facciamo il presepe quest'anno?"
"No, quest'anno no"
"E daiiii"
"NO!"

"Il presepe?"
"No, due palline sull'albero e ci togliamo il pensiero"
"Ma daiiii"
"NO"

Lo scontro di volontà tra me e mia madre si svolgeva sempre uguale ogni 8 dicembre. Io ero una bimba, piccola, gracilina e decisamente caparbia. Una testa tonda, dura e riccia in bilico su un lungo mucchietto d'ossa. Lei era una donna giovane, lavoratrice, maniaca del controllo e dell'ordine. E il muschio, si sa, fa disordine.

Alla fine mia madre, distrattamente, si lasciò sfuggire un "Il prossimo anno" e io, 365 giorni dopo, mi presentai a riscuotere il mio obolo di carta, plastica e neve finta.
"Me l'hai promesso" le dissi mentre lei stazionava sul water. Meglio prendere il nemico di sorpresa. Esibendo quel tono e quello sguardo tipici dei bambini dalla morale inattaccabile, i principi saldi e l'animo bacchettone.
"Hai ragione" sospirò. "Ma non ora, devo andare a lavoro"
"Lo farò io" proposi, in qualità di vera appassionata natalizia e – come si sarebbe scoperto con gli anni – unico membro della famiglia portatore del gene della creatività.
Lei vacillò, sospirò e poi indicò la lungagnona alle mie spalle, "Fatelo voi due, mi raccomando".

La lungagnona era mia sorella, maggiore di 8 anni, Maria. Già un'adolescente, poco interessata agli addobbi natalizi e molto più ad uscire con le amiche, che però quel pomeriggio mollò tutto per mettersi all'opera con me.
Il pastore, la fornaia, "Questa sembra la Loren", pecore a profusione, cigni e papere a rincorrersi su uno specchietto, le montagne, "Accartoccia la carta", il cielo stellato, le lucine, i re magi, "Perché ne abbiamo due neri?" "Boh", Gesù bambino, "Ma lui non arriva a mezzanotte?" "Sì, ma il nostro è attaccato alla mangiatoia" "Prendi il cotone, soffoca il bambinello". Fatto.

Il risultato finale ci parve perfetto e attendemmo con ansia e orgoglio il ritorno di nostra madre dal lavoro.
"Ta daaaaaaaaa" allargammo le braccia verso la scrivania sacrificata per l'occasione.
"Ma che bello, brave!"
"Grazie!"
"Però..." 
Spostò pecore, Re magi, papere e pastori. Riconfigurò montagne, impianto urbanistico e disposizione luci. "Ecco, così va molto meglio".
"Che ti puoi aspettare da una che fa polemica sulle barzellette" sciabattai via offesa nell'orgoglio e nell'estetica.

Solo dall'anno successivo la maniaca del controllo si arrese, la scenografa Pancrazia ebbe la meglio e la lungagnona Maria abbandonò i pastorelli in favore del fidanzatino.

Mia madre ed io abbiamo sempre avuto questo modo di rapportarci l'una con l'altra. Anzi col tempo, i nostri scontri sono diventati meno sottili e più espliciti, anche esplosivi, quando necessario. Dovreste sentire le nostre telefonate, che si parli di politica, scelte di vita, o sugo col tonno, non ci tiriamo mai indietro da esprimere la nostra ferrea opinione, quasi sempre contraraia a quella dell'altra. La lungagnona si chiede sempre perché io non lasci mai correre. Il perché non lo so, o forse sì, perché questo è il mio modo di essere figlia di mia madre. E quello è il suo modo di essere madre di questa figlia. 
E per noi, tutto sommato, funziona.

Jane Pancrazia Cole


Vi sono piaciute le nostre storie? Condividetele!


Un modo come un altro per stimolare la propria fantasia, trovare l'ispirazione e buttare giù una di quelle storie che, senza saperlo, avevamo già dentro di noi?
Prendere spunto da ciò che ci circonda, per quanto ovvio possa sembrare.

Per sempio, oggi è l'8 dicembre e cosa si fa per tradizione l'8 dicembre nelle case italiane? Si allestono gli addobbi natalizi, si mettono in fila i pastorelli del presepe e si litiga con le lucine dell'albero. E non m'importa niente che ormai i panettoni si trovano al supermercato già a settembre o che molti di voi tengano su tutto l'ambaradan da novembre a febbraio, io sono una tradizionalista, e che cavolo!

Quindi per il ventunesimo, nonché penultimo, esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura ispiratevi a questo momento. Scrivete qualcosa che abbia al centro gli addobbi natalizi. Siate sdolcinati o caustici, nostalgici o spietati, siate Agatha Christie o Eduardo De Filippo.
Questo sarà oggettivamente uno dei natali più strani di sempre, facciamo che almeno sia molto ispirante.

Avete tempo fino a domenica 20 dicembre alle ore 12 per consegnare la vostra "creatura".

Vi anticipo già che l'ultimo esercizio vi sarà assegnato prima di Natale ma vedrà la luce online all'inizio del prossimo anno. Perché questo Laboratorio per me è stato un grande dono e voglio che porti un po' di gioia anche all'inizio del 2021. Direi che ne abbiamo tutti un gran bisogno!

E ora non posso che augurarvi buon lavoro, sia per gli addobbi che per il Laboratorio.

Tipo di testo: racconto, poesia, monologo, dialogo, quello che vi pare...
Lunghezza testo: dai 500 ai 5000 caratteri.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 20 dicembre 2020, ore 12.

Volete leggere tutte le Storie nate da questo esercizio? Le trovate qui.
Questo post è stato un parto. 
Sarebbe dovuto uscire lunedì o, al massimo, martedì, ma sono stata travolta dalle cose da fare, ho dovuto (o mi hanno fatto) scegliere le priorità e, quindi, questa splendida raccolta di storie vede la luce solo oggi, venerdì. Era ora! 

Noi partecipanti al Laboratorio Condiviso di Scrittura  ci siamo ispirati a una foto di William Eggleston (questa qua) e ne abbiamo tirato fuori racconti e poesie.

Il Laboratorio è ormai agli sgoccioli, a pensarci mi viene un po' di tristezza e tanta tanta riconoscenza nei confronti di coloro che hanno partecipato, ci hanno creduto, e hanno avuto la generosità di regalare le loro bellissime storie. Ma è ancora presto per gli addii. Per ora, buona lettura!



Ella reggeva
sigaretta e dialogo,
attendendo il momento
per voltarsi

Il momento giusto
per mostrare
i falsi diamanti
tra i capelli

Ma di certo
il tutto stonava
con l'ambiente:
perle e fast food

Perché sono qui,
ella pensava
mentre egli beveva
il suo caffé

Almeno qui,
non come al Ritz,
si può fumare
senza dar scandalo.

Beppe Carta



La prima volta che la presi in mano, non mi fece un bell’effetto. La mia nuova Leica aveva il corpo squadrato, freddo, era difficile da afferrare. Misi allora l’occhio al mirino, inquadrai fuori dalla finestra. Che luce incredibile, ragazzi. Potevo distinguere nitidamente i sassolini dell’asfalto, uno ad uno. Vedevo le impronte lasciate dalle gocce di pioggia sul parabrezza dell’auto di mio padre. 
“Allora, che te ne pare, ragazzo mio?” 
Mi fissava, fumando la pipa. Noi due non andavamo molto d’accordo, a quei tempi. Mio padre era molto preoccupato per le mie velleità artistiche, temeva che interrompessi definitivamente gli studi. Ci avevo provato già un paio di volte, era sempre riuscito a convincermi. Quel regalo era un altro tentativo di rabbonirmi. “Scatta i tuoi rullini in spiaggia il sabato pomeriggio e finisci l’università” Era il messaggio implicito di quel regalo inatteso. 
“Bella, p. Grazie davvero”. 
Solo che a me non interessavano le ragazze in bikini. E neppure i paesaggi al tramonto, con i riflessi del sole sull’acqua increspata. Disprezzavo quella roba. Amavo i dettagli. Bidoni della spazzatura rovesciati sul marciapiede, gatti randagi che annusavano lische di pesce, un uomo fermo al semaforo che alzava le braccia al cielo, la bocca spalancata. Le pieghe smeraldo della gonna della bibliotecaria. I colori attorno a me, ovunque, saturavano lo spazio, pulsavano nell’aria, vibravano nelle mie ossa. Volevo questo, dalla vita, catturare la carne del tempo. 

Ovviamente, avevo lasciato il college. Mia madre aveva pianto una notte intera, mio padre si era chiuso nel suo dolore e non mi rivolgeva più la parola. Mia sorella Lizzi si era affacciata alla porta della mia camera: 
“L’hai fatta grossa, stavolta, eh? Papà non te la farà passare liscia.” 
“Non preoccuparti, domani levo le tende” 
La bolla rosa di chewing gum le era esplosa in faccia. 
“Fai schifo” le avevo detto. 
“Mai quanto te. Dici che mi permetteranno di trasferirmi in camera tua?”

Sentivo il corpo della Leica premere sulle mie gambe. Nella notte, i fari dell’autobus accecavano di bianco le case della pianura, accese da piccole finestre gialle, in cui probabilmente famiglie come la mia si stavano preparando per la cena. 
“Vuoi bere, ragazzo?" 
Il mio vicino era un uomo gigantesco, con un ingombrante cappello da cowboy di feltro rosso. La bottiglia che stringeva in mano si stava svuotando con una certa rapidità. 
“No grazie, signore, non bevo”. 
L’ uomo aveva riso di gusto: 
“Per il momento” 
“Come, signore?” 
“Per il momento non bevi, ragazzo, ma hai un’aria talmente stranita e preoccupata che un goccetto ti farà bene, dammi retta. E non preoccuparti per questa” indicando la bottiglia “ne ho un’altra bella piena nella mia sacca”. 
Fu una notte memorabile, la prima vera sbronza della mia vita. La mia esistenza galleggiava davanti ai miei occhi, e mi sembrava tutto così importante, bello, pregno di senso. Stavo spiegando al cowboy i miei progetti: 
“Perché vedi, quello che mi interessa davvero è fare il fotografo. I colori, anche se a nessuno piacciono perché dicono che non sono così importanti. Ebbene, per dio, per William il sottoscritto, lo sono.
William vuole catturare la carne del tempo. O della vita? Ora non ricordo bene… accidenti, amico mio, tu mi capisci perfettamente” 
Le tenebre si stavano dileguando, le stelle nel cielo si spegnavano una ad una, l’azzurro intenso dell’alba mi dava la vertigine, fatto sta che mi sentivo davvero dio all’inizio della creazione, un uomo grande, che poteva cavalcare il suo futuro. 
In lontananza, tra gli intrecci delle rotaie delle ferrovie, oltre l’orizzonte, i capannoni e i primi quartieri assonnati, mi apparve il ronzante profilo della mia vita nuova, il mio cuore pulsante: New York City.

“Mi ha sempre colpito questa foto della nuca della donna. Mi potrebbe dire come ha deciso di fare il fotografo?" 
Questa domanda me la fanno sempre, ogni volta che mi intervistano. Cerco sempre di cambiare discorso. 
“È stato un caso, come avviene quasi sempre per gli scatti migliori, come lei mi insegna. Mi trovavo in un ristorante di lusso, probabilmente era Broadway, mi trovavo lì per una cena con un vecchio amico, non stavo lavorando, quando improvvisamente la vidi, mi colpì immediatamente, non saprei spiegarle il motivo” 
L’intervistatore cela uno sbadiglio, fingendo di grattarsi il naso. I racconti del vecchio William, che ha un piede già nella fossa, devono essere una grande scocciatura. Ogni tanto scruta il suo aggeggino multicolorato, in attesa, chissà, di qualche messaggio più interessante dei miei racconti del passato, quando c’erano ancora le pellicole. 
“Come mai un’inquadratura così insolita, per quei tempi?” 
Il ragazzo sembra molto orgoglioso di questa sua affermazione, mi sta dimostrando di conoscere la storia della fotografia, anzi, la preistoria. 
“Non saprei. Mi ha colpito la sua acconciatura, la delicata simmetria, la grazia e lo splendore che emanava il retro di questa creatura deliziosa. Tutto qui.” 
“E la donna, come l’ha presa?” 
“Che io l’abbia fotografata di spalle? Oh, lei non lo ha mai saputo. Era una perfetta sconosciuta”. 

Leslie spinge lentamente la mia sedia a rotelle, con cura, per evitarmi dolorosi sobbalzi. 
“Allora, com’è andata la tua intervista?” 
Anche se inizia a fare freddo, ci siamo concessi una passeggiata in giardino. L’inverno è alle porte. Leslie si inginocchia, mi copre con dolcezza i piedi gonfi con un plaid, leggo la preoccupazione negli occhi, fingo di non accorgermene. Mi soffermo piuttosto sulla sua nuca. Oramai i suoi capelli sono tutti bianchi, e meno folti. Continua a farsi quelle acconciature incrociate, dal basso verso l’alto, e usa dei fermagli per fissarli in geometrie complicatissime, inverosimili. La prima volta che l’ho vista, di spalle, è stato un colpo di fulmine. A lei non l’ho mai confessato, ma mi sono invaghito prima del suo didietro. Non credo la prenderebbe bene. 
Perché, quando l’ho vista di spalle, ho immediatamente pensato: ecco, questa è la carne del mondo. O era la carne del tempo? Accidenti, mi confondo sempre. 

Barbara Fiore 




Certo tu penserai che ho cominciato anche io! 
Chi lo avrebbe mai detto? 
I gesti ripetuti e i vizi comuni, 
non sono mai stati il mio forte. 
Forse saresti soddisfatto. 
Ma no! Che dico!? 
Saresti compiaciuto. 

Fuori tempo massimo 
sono diventata come volevi... 
La decisione sofferta 
di lasciare che i capelli si facessero argento, 
l'ho fatta con te. 
Tutto sembrava procedere nella direzione segnata. 
Niente dava l'idea del tracollo. 
Solo qualche subdola sensazione sotto le unghie. 

Apparentemente, in un istante, 
hai fatto la tua dichiarazione plateale, 
con un pubblico ristretto. 
E non sei più tornato in scena. 

Forse non sei mai neanche uscito dal tuo camerino, 
dove potevi giocare a cambiarti le maschere, 
raccontandola a te stesso. 

Oggi ho fatto spazio al collo, 
come si addice ad una ballerina tardiva. 
L'ho fatto per le perle, che terrò per me, 
perché i porci volanti non sanno cosa farsene. 

Indosso come promemoria tre cristalli nello chignon. 
Tre medaglie che brillano per fare luce 
su questi miei nuovi primi passi. 

Chi sta davanti a me, sostiene il suo gesto 
con la mano del cuore. 
Ed io gli faccio da specchio, 
giocando con timore. 

Sirena Aliena




Una luce illumina la tela con stampata sopra la foto. La tela è posizionata sopra un cavalletto nel centro del palco. 

Voce fuori campo femminile 

Ehy, voi! 
Ma cosa guardate? Me? Vi vedo, che mi fissate! 
Lo so che siete curiosi di saperne di più. Chi sono? Cosa sto facendo? 
Volete vedermi in faccia? Provate. Girate, girate intorno al vostro schermo, al vostro telefono, al vostro computer. Cosa vedete? 
(breve pausa di silenzio) 
Niente. 
(scoppio di risa – risata di pancia) 

Geniale, il mio amico William (Eggleston n.d.r), ho sempre apprezzato il suo umorismo. 
Chi sono? Sono una persona NOR-MA-LE. Ho il mio lato luminoso, visibile. Ed il mio lato “altro” che non voglio svelare. No, no, non lo voglio proprio far vedere. Sia benedetto il mio William. 
(breve pausa di silenzio) 
(voce scocciata) Siete ancora tutti lì? Sempre a fissarmi? 
(breve pausa di silenzio) 
Lo so per certo che siete curiosi. 
(si sente lo scatto di un accendino) 
Buio. 

(Voce fuori campo maschile) Il Lato luminoso. 
(Sopra un telo al lato destro del palco viene proiettato un video. Una donna di schiena che cucina. Improvvisamente appare un uomo, che la bacia su una guancia e se ne va.) 

(Voce fuori campo maschile) Il Lato oscuro. 
(Sopra un telo al lato sinistro del palco viene proiettato un altro video. Si vede da dietro la capigliatura sciolta della donna, la testa leggermente piegata indietro ed appoggiata su un muro ribassato. Sul lato opposto uno specchio, chiaramente un bagno di un locale, in cui è riflesso un uomo, di schiena, accovacciato.) 
Buio. 

Luce sulla foto iniziale. 
Voce fuori campo femminile 
(Triste) Ebbene, vi è piaciuta la storia che vi ho raccontato? 
Vi ho raccontato la verità, tutta la verità. 
(breve pausa di silenzio) 
Oppure no? 
(scoppio di risa – risata di pancia -
si sente lo scatto di un accendino) 
Buio. 

Marianna Palmerini




Ero così assorta dai miei pensieri che quasi non sentii Edoardo che mi parlava. 
- Giulia, ci sei?! Hai ascoltato tutto?! Vuoi aggiungere o cambiare qualcosa?! 
- No caro, tutto corretto, risposi sorridendo. 

Edoardo era una caro amico oltre che il mio notaio. 
Era un bell'uomo. 
Non ci avevo mai fatto caso prima, 
probabilmente perché lo conoscevo da quando eravamo bambini o forse perché quella sarebbe stata l'ultima volta che lo avrei visto. 

- Bene, allora se non hai ripensamenti lo mando in stampa. Oggi la segretaria ha preso il pomeriggio libero e devo controllare che non si inceppi nulla, dammi qualche minuto. 

Tornai ai miei pensieri. 
Il testamento era pronto, solo da firmare. 
Avevo lasciato tutto a mia sorella e ai suoi tre figli. 
Ad Anna la casa in città e a Manuela quella al mare. 
A Francesco la piccola azienda tessile. 

Lavorava con me già da qualche anno,si occupava dei fornitori, dei dipendenti e delle spedizioni coadiuvato dai vari capo reparto. Era sicuramente in grado di prendere le mie veci. 

A mia sorella il conto bancario, i vari investimenti e i gioielli. 

Avevo avuto una vita piena, nessun rimpianto, o almeno niente di importante. 
Non mi ero mai sposata, non mi interessava farlo, né tantomeno avere figli. 

Mi ero sempre permessa tutto quello che mi piaceva. 
Viaggi, ristoranti di lusso, case, un'azienda che godeva di ottima salute, tanti amici con cui uscire o da invitare a cena. 
Ma sopratutto mi ero dedicata alla mia passione. 

Volare! 

Da bambina passavo interi pomeriggi con la testa all'insù per scorgere il passaggio degli aeroplani, invidiando i piloti che si godevano la maestosità del cielo infilandosi tra le nuvole. 

Ricordo come fosse ieri il mio primo volo da solista con il Cessna 172 e il mio istruttore che ogni volta mi diceva che ero troppo bassa nella discesa. 

Poi d'un tratto mi intristii al pensiero di come il tempo scorra velocemente. 

Non potevo permettermi ripensamenti. 

Uscita dallo studio sarei andata in hangar, avrei tirato fuori il mio Stearman, controllato i livelli di olio e carburante, le tele delle ali e il movimento degli alettoni. 
Tolto il copri pitot e salita a bordo. 
Messo in moto al minimo per scaldare il motore. 
Temperature ok. 
Prova motore ok. 
Prova magnete ok. 
Rullaggio e partenza. 

Prima di uscire di casa avevo controllato l'orario delle EFFE MERIDI per non lasciare niente al caso.

Avrei volato per un paio d'ore facendo qualche piccola acrobazia; looping, otto cubano, vite e poi mi sarei rilassata godendomi il tramonto sul mare. 
Il carburante sarebbe finito poco prima che facesse buio e avrei planato dolcemente fino a inabissarmi.

Non potevo e non volevo permettere a uno stupido cancro di farmi lasciare questo mondo attaccata a un respiratore. 
Dal momento che, secondo i medici, mi rimaneva solo qualche mese di vita, volevo anche decidere quando sarebbe stato il mio ultimo giorno. 

In quel mentre rientrò Edoardo. 
- Fatto, non ti rimane che firmare il testamento, disse ad alta voce quasi volesse scuotermi dai miei pensieri. 

Mise il documento firmato in una cartelletta, spense il computer, sistemò la scrivania mentre io tiravo fuori dalla borsa il pacchetto di Chesterfield, ne sfilai una per metà, l' avvicinai a Edoardo e gli dissi: 
- Ho un appuntamento inderogabile ma prima ci fumiamo insieme l'ultima sigaretta ?  

Antonella Carta



Per ogni perla una lacrima versata 
da piangere piano o piangere forte, 
ma mai da piangere in pubblico, sfacciata, 
nasconditi in casa, chiudi tutte le porte 

Di perle ne porto due giri, con orgoglio, 
arrivata alla mia età non ne faccio mistero 
le ho piante tutte anche senza un motivo vero 
ed ora mi è rimasto solo il cordoglio. 

Nel mio cuore porto il ricordo del mio compianto marito 
e tra le mani accolgo ancora chi lo uccise, 
la accosto alle labbra con il movimento di rito 
Mi ricordo ancora la prima volta che me la accese 
la sigaretta della stessa marca che poi lo vide seppellito 

Un giro di perle lo piansi per lui, 
e in fondo fu giusto, fu lui ad avermelo regalato 
ma non lo amai mai, 
perché mi costrinse a dedicarmi al suo colletto inamidato 

Una vita costretta da passare in cucina, 
una vita di ‘sì’ e ‘grazie’ da brava bambina 
Una vita fatta di doveri e mai gioie 
eterni silenzi e laceranti noie 

Signore e signori io son la moglie perfetta, 
il modello classico con la targhetta ancora intatta 
La notte piangevo per tutto ciò che avrei potuto fare 
di giorno sorridevo e contavo le ore 

Ora sono libera, ma senza prospettiva 
mi avveleno il cuore pensando a tutto ciò che mi serviva 
alla carriera mai partita 
alle risposte schiette 
che ho ingoiato con la stessa disinvoltura con cui aspiro da queste sigarette 

Perché se mi hanno insegnato bene ed istruito 
su come essere moglie e a volte a farmi anche da marito 
ho imparato che a farlo bene, a modo loro, veramente ad applicarsi 
una donna, per soffrir meno, fa prima ad impiccarsi. 

Marina Alice Cibin





Le servo il caffè tutti giorni da almeno un mese. Dove sia stata per tutti questi anni non ne ho idea. Probabilmente si è nascosta ed ora che è libera, che il viso invecchiato è la migliore delle maschere, ora può tornare ad andare in giro per le strade di questa Los Angeles che le ha dato tanto ma le ha tolto anche di più.

Ci ho messo un po' a riconoscerla, il viso è pieno di rughe, ma quegli occhi, quel sorriso sono sempre uguali. Inizialmente pensavo di avere le traveggole, colpa di mio padre e di tutti quei film che mi faceva vedere da piccina. Mia madre era gelosa ma come si fa ad essere gelose di una dea? Una dea la si ammira e basta. 

Chissà come ha fatto a far credere una cosa e invece a scivolar via di nascosto quel 4 agosto del '62? L'avranno aiutata. Ma chi? Non ho il coraggio di chiederlo, ho paura che se sapesse che l'ho riconosciuta non si farebbe vedere mai più. E quindi la osservo, la servo e la coccolo come la più cara delle clienti. 

"Sarà solo una che le somiglia" mi ha detto mio marito l'altra sera. Ma che ne sa lui? Lui non l'è stato accanto, non ha sentito il suo profumo che si mischiava a quello del caffé, non ha osservato la piega perfetta delle guance solo un po' appesantita dagli anni.

Lei si è lasciata invecchiare felice e contenta, non ha neanche un ritocchino ma ha conservato un po' di genuina vanità. Porta i capelli sempre acconciati con cura, le unghie laccate e al collo una collana di perle grosse come sassi.

Spesso con lei c'è anche un uomo che la guarda con occhi tanto innamorati da far tenerezza, lei gli dedica i suoi sorrisi più dolci ma niente di più. Gli uomini si innamoreranno sempre di lei, fino alla fine, non ci si può far niente.
"Si sono innamorati in tanti" mi dice, leggendo i miei pensieri mentre le rabbocco la tazza. "Ma mi ha amata davvero solo uno"
"Il giocatore di baseball?" mi lascio sfuggire incuriosita.
Per un attimo ci guardiamo negli occhi, entrambe sorprese, lei di esser stata riconosciuta, io di esser stata tanto sciocca da averglielo fatto capire.

Trattengo il fiato. Lei mi sorride.
Poi paga il conto e si alza per uscire. 

"Tre rose ogni giorno" mi sussurra prima di andare via. "Chissà se meritavo tanto?"
"Sì" dico alle sue spalle curve "Sì, non ne dubiti mai. Le hanno dato tanto ma mai abbastanza".

Jane Pancrazia Cole
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