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Siamo giunti a metà strada nel doppio calendario dell'avvento pagano.
In ritardo? Of course!

Con il post meno cinque si celebra un altro progetto che ha caratterizzato il 2014 di questo blog: "Un marito per caso e per disgrazia".
Capitolo dopo capitolo, post dopo post, vi ho raccontato la storia di Adelina, Augusto e tutto il familiare cucuzzaro.

Un libro online che cominciò così:
Prologo.
Ogni mattina mi sveglio presto, tiro su i capelli come piacevano al marito mio, metto l’acqua di colonia dietro agli orecchi e piano piano, con la pioggia o con il sole, mi trascino fino a qua.

Tra le pietre, le fiammelle e gli alberi dritti, siamo sempre le stesse quattro facce: un gruppo di vecchi così rimbambiti che non c’è manco gusto a parlarci assieme.
(Continua...)

Non l'avete mai letto e intendete cominciare? L'avete letto ma vi è venuto un inspiegabile desiderio di rifarlo? Bravi! Già che ci siete, se qualche link tra un capitolo a l'altro non dovesse funzionare, vi dispiacerebbe lasciarmi un messaggio di avvertimento? Così mi evito la scocciatura di ricontrollarli tutti. Grazie.
Sono una blogger pigra e approfittatrice? Sì, lo sono.

NdA: Buona lettura!
Ogni mattina mi sveglio presto, tiro su i capelli come piacevano al marito mio, metto l’acqua di colonia dietro agli orecchi e piano piano, con la pioggia o con il sole, mi trascino fino a qua.

Augusto ed io siamo stati sposati quasi sessant’anni.
Ed io racconto la storia nostra da sempre, prima alle nuore ed adesso alle nipoti. Loro sospirano e sognano per questi due innamorati bruttarelli che si sono trovati a dividere una vita intera per caso e per disgrazia. Una storia così non c’avrebbe mai posto nei libri di favole o al cinematografo. Una storia così può esistere solo nella vita vera.

Augusto ed io abbiamo cresciuto assieme sei figli: Sandro, Enrico, Luciano, Donato, Cristiano e Felice. Abbiamo messo assieme un esercito di maschi rumorosi e disordinati, ma onesti e tutti grandi lavoratori. Ad occuparmi della casa e di quel branco di selvaggi delle volte mi sono sentita peggio d’ una schiava, ma poi a guardarli negli occhi uno ad uno sono stata orgogliosa come una regina.
Io per loro, per tutti loro, sono sempre stata “mamma Adelì” e lui “lu Babbo”.

Pochi anni dopo la fine della guerra, quando mamma mia s’era già sdraiata vicino a Lucia, abbiamo cercato fortuna in città, che la poca terra che avevamo ed il ricamo non bastavano più per dare da mangiare a tutte quelle bocche.
I ragazzi li abbiamo mandati a scuola, dal primo all’ultimo, e mentre loro studiavano anch’io, con l’aiuto dei più grandi e di Augusto, ho finalmente iniziato a leggere. Non mi sono certo fatta dottoressa o scienziata ma almeno un poco meno ignorante. Ora è normale e non ci si rende manco conto di quanto sia importante. Che delle volte, a non saper leggere e scrivere, ci si sente come ciechi e sordi. O peggio ancora ci si sente stupidi.

Ma non voglio star qua a raccontar frottole. Il matrimonio nostro non è stata mica perfetto ed anche Augusto, purtroppo, c’ha avuto le debolezze sue e qualche porcheria me l’ha fatta. Che, già ve l’ho detto, i maschi so fiacchi e prima o poi ce cascano tutti. Come quella primavera del ‘62 quando gli arrivò una nuova collega in fabbrica. Una svergognata, di sicuro. Io ho passato mesi a far finta di niente e foderarmi gli occhi e li orecchi col prosciutto. Lui faceva tardi dal lavoro, aveva sempre la capoccia da un’altra parte e di tempo per me non ce ne aveva più. Non so cosa sia successo e non lo voglio manco sapere, ma un giorno di luglio Augusto tornò a casa in orario e ricominciò finalmente a guardarmi come faceva prima. Non ci fu bisogno di dirsi niente e da quella sera tutto tornò normale. E tornammo ad essere due sposi che dormivano vicini ed intrecciati per freddo, abitudine, ma anche per amore.

Non mi piace parlare di quella vecchia storia ed alle ragazze non l’ho mai raccontata, che certe cose riguardano solo me e lui, nessun altro. Augusto è tornato da me e questa è l’unica cosa importante. L’estraneo di quei pochi mesi non lo voglio manco ricordare. Preferisco pensare a quel vecchio rugoso che in ospedale, di fronte alle bimbe appena nate di Luciano, mi sussurrò con gli occhi lucidi: “Ce ne hanno messo de tempo, ma finalmente le gemelline so arrivate.”  Quelle bambine belle, sane e perfette furono come il miracolo che tutti noi aspettavamo da sempre, e per il battesimo loro le mogli di Sandro ed Enrico gli prestarono i vestitini fatti da Lucia mia. Da Lucia nostra.

I ragazzi si sono sparpagliati per tutto il mondo, mentre noi, con la pensione, siamo tornati a vivere al paese in un appartamento al primo piano con un bel terrazzino per stare all’ombra e respirare l’aria buona. Ed ogni estate abbiamo insegnato ai nipotini nostri ad arrampicarsi sugli alberi, tirare con la fionda e sputare i noccioli delle cerase.

Sessant’anni sono così tanti che alla fine non ti ricordi neanche com’era la vita tua prima. Ti sembra che debba continuare così per sempre e che un giorno passerai al Creatore assieme al marito tuo, a braccetto, come quando andavate a passeggio la domenica. Ma non succede quasi mai purtroppo. Di solito uno dei due se ne va prima e lascia da solo l’altro.

Una mattina mi svegliai all’alba, la stanza era buia e tranquilla, ma c’era qualcosa che mi dava fastidio.
Nella nostra camera da letto non c’era mai silenzio. Augusto russava, ma non russava mica in maniera normale. Soffiava, sbuffava, grufolava, uno poteva stare ad ascoltarlo per ore senza annoiarsi mai. Ma quella mattina no, quella mattina era come se nella stanza non ci fosse più.
Mi girai a guardarlo e lui era lì. Immobile.
“Augù, ma che fai? Nun sarai mica morto? Dai nun scherzare, Augù”.
Che cosa stupida da dire: Augusto mio non avrebbe mai scherzato su una cosa così. Non un’altra volta.
Era proprio morto. Morto stecchito.

Ma che si more cuscì? Senza avvertire? Senza darmi il tempo di salutarti? Di dirti quanto bene ti ho voluto e quanto mi hai fatta felice?

Vengo qua tutti i giorni per dirtelo, Augù, sei stato la vita mia.


Fine.

N.d.A. La storia di Tizzoncino, il cui titolo originale è “Spera di sole”, fu scritta da Luigi Capuana(1839-1915) ed è contenuta nella raccolta “Si conta e si racconta”(Muglia Editore, 1913; Pellicanolibri, 1985).


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Non dimenticherò mai la prima notte di nozze. Me ne stavo accucciata sotto le coperte, aspettando lo sposo mio con lo stesso animo di uno che sta nella sala d’aspetto del dentista: un poco c’avevo voglia di scappare ed un poco di farmi cavare subito sto dente e non pensarci più.
Quando finalmente lui mi raggiunse, si sdraiò accanto a me e, senza dire manco una parola, si voltò dandomi le spalle.
“Notte, Adelì.”
“Notte, Augù.”
Dopo cinque minuti già russava come un trattore.
Forse era nervoso come me oppure l’aria spaventata mia gli aveva fatto passare tutte le voglie. La verità non me l’ha confessata mai e io non ho mai avuto la faccia di chiedergliela neanche dopo tanti anni. Ma fatto sta che, per quella sera e molte altre a venire, Augusto decise di non far rispettare i diritti suoi da marito.
Ero cresciuta in campagna in mezzo agli animali e più o meno lo sapevo come funzionavano certe cose. Ma una donna non è mica una giumenta e mamma mia s’era ben guardata dal darmi qualche spiegazione un poco utile. Che, comunque, ai tempi miei il massimo che ti diceva una madre prima dello sposalizio era: “Sta ferma e fa fare tutto allo marito tuo. Che prima inizia, prima finisce.”

La relazione tra me ed Augusto non era mai stata intima, non ci eravamo mai corteggiati né baciati, figurarsi fare altro.
Di fronte al Signore ed allo Stato eravamo marito e moglie ma tra di noi continuavamo a comportarci come prima. Eravamo parenti, stavamo diventando pure amici, ma ce ne sarebbe ancora voluto del tempo per diventare amanti prima ed innamorati poi.

I bambini invece rifiorirono subito, meglio degli alberelli a primavera. Il matrimonio era stato celebrato per il bene loro ed infatti furono loro a goderne subito i vantaggi più di chiunque altro. Stavano tornando ad essere sereni sia di giorno che di notte. Erano felici di avere la nonna e la zia sempre a casa. Delle volte però capitava ancora che al buio la paura si facesse troppo grande ed allora si presentavano tutte e due in camera nostra, mano nella mano, con le canotte che gli arrivavano ai ginocchi, i nasi che colavano e le guance sporche di pianto. Così belli e dolci da mangiarseli di baci.
Mia madre dormiva sopra un lettuccio nella stanzetta loro, ma aveva il sonno pesante e non si accorgeva di niente. Invece io sentivo i piedini ignudi sul pavimento già dal corridoio. Alzavo le coperte e senza dire una parola li facevo subito intrufolare nel lettone, che tanto di spazio ce n’era in abbondanza. Altro che due bambini, i primi tempi Augusto ed io dormivamo così distanti che in mezzo ci sarebbe potuto stare comodo pure un asino bello grasso.

Ma giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, cominciammo a cercarci. Era la natura che ci chiamava. Se metti due giovani e sani, con tutte le cose al posto giusto, sotto lo stesso tetto e addirittura a dividere il medesimo letto è normale che la carne si risvegli. Sia quella d’Augusto che, dopo il dolore ed il lutto, sembrava finalmente ricordare la vita con i piaceri suoi. Sia la mia, che certe sensazioni ancora non le conosceva ma diventava ogni giorno più curiosa.
Delle volte, mentre lavavo le stoviglie o stavo accucciata a strofinare il bucato, mi sentivo lo sguardo di Augusto addosso. Erano solo attimi ma bruciavano come il carbone nella stufa. Quegli occhi scuri seguivano la curva abbondante dei fianchi miei o l’ondeggiare dei seni. All’inizio sembrava un ragazzino che spia dal buco della serratura ma poi divenne sempre più sfacciato. Ed io, ogni volta che incrociavo gli occhi suoi, mi sentivo tutta scombussolata come dopo una sorsata di vino caldo.

Augusto con gli occhi mi accarezzava e delle volte perfino mi spogliava, ma con le mani non mi toccava mai. Teneva quelle grandi mani sue, chiuse a pugno, dentro le tasche.
“Cuscì nun me venivano tentazioni”, mi confessò anni dopo.
Bravo. A lui non gli venivano tentazioni, ma a me continuavano a venire sempre più spesso certi pensieri strani, che a ricordarli adesso ancora mi faccio rossa come un pomodoro maturo. Mi sentivo così confusa che, se non fosse stato per la paura di essere rifiutata o di fare una brutta figura, gli avrei buttato le braccia al collo come avevo fatto con Gino. E al diavolo tutto!
A letto la distanza si faceva ogni giorno più piccola e delle volte eravamo così vicini da sentire l’uno il calore dell’altra. Fino a quando una notte la mano di Augusto si appoggiò sul fianco mio. “Si sveglia, Adelì?”, mi chiese con una voce bassa e profonda, di quelle che senti più con la pancia che con gli orecchi. Io non ebbi manco il tempo di rispondere, che dal corridoio si avvicinarono due paia di piedi scalzi.
Lui, bofonchiando una bestemmia, si girò dall’altra parte e si rimise a dormire ed io, sospirando delusa, feci salire le due pesti sul lettone. Quella fu la prima notte in cui il materasso divenne troppo piccolo per tutti e quattro.

Poco tempo dopo in paese si scatenò la festa.
Era l’estate del ’44, quando una lunga fila di camion occupò lo stradone principale come una grossa biscia. Sopra, a salutare e far festa, centinaia di giovani in divisa  sorridevano ai bambini ed ammiccavano alle femmine.
“So arrivati li americani!”, urlavamo tutti.
Che poi i nipoti miei, che so tutti studiati, m’hanno spiegato che al paese nostro ci sono venuti gli inglesi mica gli americani, ma che ne sapevamo noi a quel tempo lì? Per noi erano tutti uguali: alti, bellocci e non si capiva niente quando parlavano.
Nel giro di pochi minuti ci trovammo tutti per strada. Don Felicino con la tonaca impolverata e gli occhi rossi dall’emozione. I Casotti che ridevano e battevano le mani sognando il ritorno a casa dei figlioli loro. Annamaria che faceva girare la gonna come una bimba. Le ragazze non maritate tutte sorrisi e risatine. Ed i bambini che correvano come pazzi a fianco delle ruote dei furgoni, che erano alte quanto loro e c’era d’aver paura che qualcuno ci restasse sotto.

Quel giorno sembrò l’inizio di una vita nuova e di un mondo nuovo. Tutti noi avremmo ricordato per sempre la fame. Quella vera, che ti toglie la dignità, che ti fa litigare l’erba con gli animali e ti porta a dare la caccia ai ricci, gli uccelletti e perfino i gatti. Che se lo dici adesso la gente quasi te ne dice dietro, perché non lo sa più cosa vuol dire stare male per colpa dello stomaco vuoto.
Noi per anni siamo andati avanti con certe zuppe: tutta acqua e niente sostanza. Ed eravamo pure fortunati, perché stavamo in campagna con un poco di terra e qualche bestia, mentre quelli di città ad un certo punto non c’hanno avuto più manco gli occhi per piangere.

Tutti noi avremmo ricordato i visi e le voci di quelli che rimanevano indietro. Il bell’Emilio, che tornò chiuso in una bara di legno, lasciando la povera Costanza vedova e con tre bambini piccoli. Donato e Cristiano, fratelli di Augusto, morti talmente giovani da non avere ancora manco la barba sulla faccia. Tommaso, che era tanto bravo a fregare i frutti colorati dagli alberi in estate e a cui toccò andarsene in mezzo al freddo bianco e vuoto della Russia, e rimanerci a riposare per sempre, povero amico mio. Ed il signor Mariotti, che non tornò mai manco da morto, e che la famiglia sua piange ancora di fronte ad una targa fatta appendere dal figlio Pino, il primo giorno dei suoi vent’anni da Sindaco del paese.

Ma tutti noi ora volevamo andare avanti.
La famiglia mia aveva avuto la parte sua di disgrazie e dolori e forse anche per noi sarebbe finalmente cominciato un periodo più fortunato e lieve. Mia madre se ne stava da parte, infastidita da tutta quella confusione. Che, ormai, a lei dopo il matrimonio e la certezza di aver sistemato pure la figlia sua piccola ed i nipoti, non le importava più di niente ed aspettava solo, buona buona, di andare a riposarsi accanto a Lucia. Enrico, seduto per terra, s’impiastricciava la faccia con le cerase che gli aveva portato zia Caterina. Sandro era corso chissà dove con gli amichetti suoi.
Un ragazzotto in divisa si lisciò i baffetti sottili e mi strizzò l’occhio: “Bongiorno bela siniorina”
“E’ na signora”, gli rispose serio Augusto, stringendomi la vita con un braccio.
Mi voltai a guardarlo. C’aveva il profilo rigido e lo sguardo di un cane da guardia. Lo sguardo di un marito geloso. Lo sguardo del marito mio.
Il braccio mi stringeva con una presa che negli anni avrei saputo riconoscere pure ad occhi chiusi, ma quel giorno era ancora nuova e mi faceva bruciare la pelle attraverso i vestiti. Lasciandomi confusa e con la capoccia che girava.

Quello fu un giorno di gioia e la sera, complice l’aria di festa ed il vino, Augusto ed io facemmo all’amore per la prima volta. Furono carezze, baci e morsi. Con gli anni avremmo imparato a memoria la danza nostra ma quella prima volta, pure se confusa e faticosa, l’avremmo sempre ricordata con nostalgia.
Con le gambe ancora intrecciate gli sussurrai: “Pure la storia delli sassi era stata n’idea mia.”
“Bene, Adelì, c’hai altro da dirme? Cuscì co stanotte ce togliamo tutti li pensieri.”
“No, me sembra de no. Me sembra che t’ho detto tutto.”
“Bene.”
“Si arrabbiato?”
“No”, mi rispose lui ridendo.
“Ma che te ridi?”
“Gnente, è colpa tua.”
“Colpa mia?”
“Sì, me sa che co te me ne farò proprio tante de risate.”
“E’ na cosa brutta?”
“No anzi è na cosa bella.”

Quella notte, a più di un anno dal sì pronunciato in chiesa, cominciò realmente il matrimonio nostro.

Continua...


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Gli ultimi mesi di lutto sembrarono volare via ed io mi ritrovai la notte prima della cerimonia agitata da mille dubbi e paure che mi si mangiavano da dentro. Mi rigiravo nelle coperte peggio di un polletto allo spiedo, con gli occhi sbarrati ed il cuore che pareva impazzito.
“Che c’hai?” mi chiese mamma mia.
“Gnente”
“Allora dormi”
“Nun so capace a fare la mamma. Nun so come se fa”
“E in tutti sti mesi che hai fatto?”
“Perché volete fare crescere li bambini proprio a me? Solo pe fa sta zitta la gente?”
Per la prima volta diedi fiato alla domanda che mi girava in testa da mesi. Perché io? Il paese era pieno di femmine più adatte di me, più mature, più dolci e pure più belle. Perché Augusto l’aveva chiesto a me? Perché mia madre voleva che i nipoti suoi fossero allevati dalla figlia sua più selvaggia e peggio riuscita.
“Perché sorella tua vorrebbe a te”, fu la risposta.
Io a questo non ci avevo pensato mai e, nel giro di pochi minuti, senza accorgermene, mi addormentai.

Il nostro non fu certo quel tipo di sposalizio che sognano le bambine quando giocano con le bambole. Non fu un giorno di festa ma solo la firma di un contratto che ci avrebbe legati per sempre.
In chiesa c’eravamo solo Annamaria, zia Caterina, la mamma, i bambini, Augusto ed io. A farci da testimoni ci pensarono una delle signore della canonica ed il marito suo. A parte la zia, nessun altro parente dello sposo si presentò, avvelenati che lui scegliesse ancora una volta di legarsi a quei morti di fame dei Carretta.
Non si degnò di venire manco il signor Ottavio. Su Lucia aveva chiuso un occhio, dato che era povera ma “na vera bellezza”, ma su di me no.
“Questa c’ha le caviglie grosse e nun è certo sto granché. A questo punto te potevi sposare Angela: lu fratello mio le lascerà quel bel campo dietro la villa”, aveva commentato quando eravamo andati ad annunciargli le nozze. In quell’occasione Augusto mi aveva trascinata fuori da casa dei Parise, tenendomi per mano e sbattendo la porta.
“Te chiedo scusa pe babbo mio: è na bestia!”
“Nun te preoccupare Augù, nun me so mica offesa. Già lo so de nun essere na bellezza ma almeno io nun ce li ho i baffoni della cugina tua.”

Durante la cerimonia Enrico dormì come un angiolo tra le braccia di mamma mia. Sandro all’inizio rimase tranquillo seduto in un angolo ma poi si alzò e si mise in piedi accanto a me.
“Torna a sederti!” lo sgridò Don Felicino.
“No, lasciatelo stare qua”, replicai io.
“Questo non è il posto suo”
“Si, che lo è”, chiuse serio Augusto.
Al mio “Sì” avevo alla destra Augusto ed alla sinistra Sandrino. Mi ero sposata con tutta la famiglia di Lucia. Ed era giusto così.

All’uscita dalla chiesa mi avvicinai all’orecchio dello sposo mio e gli sussurrai: “Quella volta t’ho detto na bugia”
“Quando?”
“Lu cane, la bonanima de Puzzo, te l’avevo mandato dietro io”
“E perché me lo dici proprio adesso?”
“Mo che siamo sposati me pareva brutto tenere sto segreto”
“E lu gioco dei sassi è stato n’idea tua?”
“N’idea mia? No! Ma che fai scherzi? Che pensi che so cuscì cattiva? Quella è stata colpa de quella carogna de Teo”

Dopo la cerimonia andammo tutti a casa, dove mamma mi fece trovare la tavola apparecchiata con una tovaglia di lino bellissima.
“E questa da dove esce?”
“Dal corredo de nonna Ada. Nun credevo te saresti sposata mai, ma nun me pareva giusto dare tutto a Lucia e a te lasciarte senza gnente, e cuscì te l’ho conservata.”

Un giorno, quando sarò anch’io dall’altra parte, preparerò un buon pranzo per tutti quanti e mangeremo tra i melograni ed i tralci d’uva di quella stoffa meravigliosa. I piatti saranno ricchi, i sapori deliziosi e l’acqua fresca come quella della fontana della piazza. Nonna Ada ci coccolerà tutti come bambini. Mamma sarà serena e sorridente come non l’ho vista mai. Forse ci sarà anche il babbo che, a forza di prendere mazzate dai diavoli, si sarà raddrizzato, diventando finalmente un capofamiglia come si deve. Lucia sarà giovane e bella come l’ultima volta che la vidi. Ed io le chiederò quello che voglio sapere da più di sessant’anni: “Ho fatto bene? E’ stata la scelta giusta? Avresti scelto davvero a me?” e lei, se Dio vorrà, mi risponderà di sì, chiudendo la boccaccia per sempre a quella vocina maligna che ogni tanto, nei momenti più difficili come in quelli più felici, mi ha sussurrato all’orecchio: “Sei na ladra. Questa nun è la vita tua.”
Ed ovviamente a capotavola ci sarà Augusto.
Da una parte quello giovane che aveva fermato Lucia lungo la strada e si era presentato a chiederne la mano a mia madre. Sarà seduto tra le due gemelline e potrà finalmente guardarsele con tutto l’amore del mondo per l’eternità.
Dall’altro lato ci sarà il marito mio. L’uomo diventato vecchio e spelacchiato ma ancora capace di farmi arrossire con una strizzata d’occhio ed un sorriso.


Continua...


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Dopo una giornata così, c’avevo solo una gran voglia di buttarmi nel lettone e dimenticare tutto almeno per qualche ora, ma prima dovevo andare da qualcuno che forse aveva passato un giorno persino peggiore del mio.

Appena si aprì la porta mi trovai davanti l’ultima persona che m’aspettavo: “Che ce fate voi qua, zia Caterina?”
“Le ho portato una zuppa. E tu?”
“Pur’io, ma de sicuro la vostra è meglio”
“La tua la teniamo pe domani, intanto io finisco co questa”, e si rimise ad imboccare Annamaria.
La Pazza se ne stava buona buona seduta al tavolo con un gran fazzoletto annodato al collo. Lei e la zia c’avevano praticamente la stessa età ma l’amica mia, con quella foresta di capelli bianchi e la faccia rugosa come una prugna secca, sembrava più vecchia ancora.

Annamaria mangiò tutto, fino all’ultimo boccone, senza dire manco una parola poi, come le aveva insegnato la Vedova del Dottore, si mise subito a letto.
“La Signora è andata dalli angioli”, mi disse.
“L’ho saputo”
“Pensi che nun torna proprio più, più, più?”
“No, nun torna più”, le risposi, mentre gli occhi suoi diventavano ancora più grandi e lucidi. E per distrarla aggiunsi: “T’ho portato questo, guarda”
“Ma questo è tuo, te l’ho dato io”
“Lo so, ma mo serve de più a te”
Annamaria mi sorrise e poi si ranicchiò nel letto, stringendo il nastro giallo tra le mani sue.
Io mi ci accucciai accanto e l’abbracciai stretta stretta, come avevo fatto tante volte in quei mesi coi piccoli miei: “In un paese tra le montagne ce stava na fornaia co na figlioletta nera come lu carbone”, cominciai.
Quella volta non ci fu neanche bisogno che arrivassi alla fine perché l’amica mia, stracca e triste, si addormentò molto prima.

“Sei brava a raccontare le storie”, mi disse zia Caterina.
“Ne so solo una, racconto sempre la stessa”
“E’ na bella favola. Come finisce?”
“Tizzoncino e Reuccio se sposano. Annamaria dice che fanno pure na bambina. Pe Sandro ed Enrico invece fanno du bei maschietti e Reuccio ammazza n orso cattivo co la spada sua.”
Ormai era ora che me ne andassi ma prima le chiesi: “Ce pensate voi adesso a lei?”
“Sì, l’ho promesso alla madre mia”
“Alla madre vostra?”
“Prima de morire m’ha fatto promettere che, dopo la Vedova del Dottore, c’avrei pensato io ad Annamaria”.

E la zia Caterina mi raccontò finalmente tutta la storia. O almeno tutto quello che avevano raccontato a lei, che certi segreti se li sarà portati nella tomba la Strega e là ci rimarranno per sempre.
Una storia che pare una favola, dove ci sta tutto: l’amore, la morte, i cuori cattivi, quelli boni e pure lo dimonio con tutto l’inferno suo. Una storia con un principe, una principessa, un re prepotente e due fate madrine. Una storia che sarebbe piaciuta tanto all’amica mia.

Mariuccia veniva da una bella famiglia della bassa Italia. Era giovane, carina e c’aveva tutto quello che voleva: una vita facile e un amore con gli occhi di fuori come un ranocchio, ma che a lei pareva bello come un principe. Se Dio avesse voluto loro due sarebbero potuti essere tanto felici ma, chissà perché, il Signore c’aveva un disegno diverso nella capoccia.  E così il fidanzato s’ammalò e nel giro di pochi giorni lasciò Mariuccia da sola.
Sola con una pagnotta nella pancia: la piccola Annamaria.
Il babbo di lei, che c’aveva il core grande quanto una nocciolina e gli piaceva tanto urlare ordini e comandi manco fosse un re con tutti i servi, dopo aver bestemmiato ed insultato quella svergognata della figlia sua, la fece chiudere in un Istituto, una Casa dei Pazzi, un manicomio. Un palazzo brutto e scuro come il castello d’un mago cattivo, dove ci stava di tutto, dagli orfani alle femmine sole, da quelli che si credevano Garibaldi ai bambini poco svegli e un poco strani. In un posto così pure quelli sani, e ce n’erano tanti, diventano matti sul serio.
Ma Mariuccia c’aveva la capoccia fina e, lo sa solo il diavolo come, entrò dalla porta, uscì dalla finestra e dentro quell’inferno in terra non ci passò manco una giornata intera. E scappò subito verso l’alta Italia.
Tanto su, veramente, non c’arrivò mai ma si fermò dalle parti nostre, stracca e grassa, a mettere al mondo la creatura sua nel convento delle suore della valle.

Un anno dopo tutte e due, madre e bambina, finirono per caso in paese da noi. Cercavano solo un posto dove fermarsi qualche giorno ma alla fine questi quattro contadini ignoranti e le strade piene di polvere diventarono la famiglia e la casa loro. Mariuccia divenne La Strega che faceva filtri e salvava matrimoni. Annamaria crebbe in un mondo tutto suo di canzoncine sgangherate e animali parlanti.

Quando poi la Strega s’ammalò chiese alle migliori amiche sue, la Moglie del Dottore e Parise Agnese, di occuparsi della piccola, di aiutarla e di non farla finire, per nessuna ragione al mondo, in uno di quei castelli dei maghi cattivi.
La signora Agnese c’aveva già sei figli ed un marito ancora lontano ma la Vedova del Dottore, che a quei tempi ancora vedova non era, figlioli non ne aveva avuti mai e non vedeva l’ora di poter finalmente fare pure lei la mamma. Ma certe favole non sono fatte per finire proprio nel modo più giusto e facile, ed infatti il medico si rifiutò di prendersi in casa una bimba che non era sangue del sangue suo ed in più non era manco tutta apposto con la testa. E la Signora questa cosa non glie l’ha perdonata mai e da quel giorno non gli ha voluto più il bene che gli voleva prima.

Le due amiche, per mantenere comunque la promessa fatta a Mariuccia, portarono via la piccola Annamaria e la nascosero nel convento, lo stesso dov’era venuta al mondo dieci anni prima e dove rimase fino a quando si fece una signorina.
E una volta divenuta grande, una femmina con la capoccia piena di farfalle colorate e favole, le due fate che non erano state capaci di fare magie la riportarono in paese.
La Signora, che ormai Vedova c’era diventata, provò a fare vivere Annamaria in casa con lei, ma la principessina svitata non ne voleva sapere di stare in un posto diverso dalla casa sua e non voleva nessuna compagnia oltre alle bestie.
“E cuscì la Vedova del Dottore s’è dovuta accontentare di aiutarla come ha potuto. L’ha tenuta pulita e le ha portato da mangiare tutti li giorni negli ultimi trent’anni”
“E mo ce penserete voi?” chiesi a zia Caterina.
“Sì, pure io so vedova e nun c’ho figli. Per questo mamma mia l’ha chiesto a me”
“Nun ve peserà troppo?”
“Lei c’ha bisogno de na mamma e io de na figliola”
Già sulla porta mi girai a chiederle l’ultima cosa: “Me la fate na promessa?”
“Dimme”
“Se avete di bisogno me chiedete aiuto?”
“Te lo prometto. Croce sul core. Ma tu nun te devi preoccupare pe me e l’amica tua, noi staremo bene. Tu c’hai li figli de Lucia da guardare. E’ quello lu destino tuo”, mi disse e mi augurò la buona notte.
  
Appena in strada tornai da Augusto quasi di corsa. La casa era già tutta buia, ma io bussai lo stesso. Non sono mai stata beneducata e quello non era certo il momento giusto per cominciare.

Quando la porta si aprì dissi solo: “Sì”

Quella primavera nella chiesetta del paese si sarebbe celebrato un matrimonio d’amore. Non quel tipo di sentimento che lega un uomo e una donna. Ma quello che ci legava tutti e due ai bambini e a Lucia nostra.

Continua...


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Ancora me la ricordo, come se ce l’avessi davanti in questo momento, la faccia di mamma che mi dice che devo sposare il vedovo della sorella mia.
A sentire queste cose adesso ai giovani gli vengono i brividi ma una volta era quasi normale. Normale per gli altri, perlomeno. Non tanto per me, perché a me i brividi vennero eccome. Mi sembrava che il mondo stesse andando alla rovescia e che fossero diventati tutti pazzi.

Me la presi col Signore, la morte, mia madre, Augusto e pure Lucia che mi aveva lasciata in un pasticcio così grande. Mamma mi fece sfogare e poi aggiunse senza manco battere gli occhi: “Se nun ce pensi tu, Augusto cercherà quarghidun’altra per crescere li figli de Lucia.”
Quella donna, pure mo che dormiva poco e niente e quando stava sveglia c’aveva la capoccia quasi sempre da un’altra parte,  riusciva comunque a capire quale fosse il punto preciso da colpire. A me sposare Augusto sembrava una cosa assurda, una cosa sbagliata, una cosa sporca. Mi sembrava di rubare la casa, la famiglia, la vita della sorella mia. Ma l’idea che un’altra donna crescesse i nipoti miei era più brutta ancora.
“E chi?”
“Le Zaccaria ce stanno facendo più d’un pensiero.”
“Ma che stai scherzando?”
“No, te parono cose da scherzare queste?”
“Ma tu come le sai tutte ste chiacchiere che nun esci mai de casa?”
“Lo conosci sto paese com’è. Le voci passano pure le porte chiuse a chiave.”

Quella notte non dormì neanche un pochetto e la sera dopo, con una nottata in bianco ed una giornata di lavoro, a tenermi su erano solo i nervi che sentivo nello stomaco come un gomitolo tutto ingarbugliato.
Avevo bisogno di parlare con Augusto. Non era cosa che i figli di Lucia venissero educati da qualche estranea, magari qualche zitella stagionata, che nessuno aveva voluto fino a quel momento, o qualche approfittatrice, a cui importasse solo portare il cognome Parise. Una delle Zaccaria magari, non ci potevo manco pensare.
Ma, del resto, non c’era mica vero bisogno di sposarsi, le cose potevano continuare tranquillamente così. Forse.

Finalmente, dopo aver messo i bambini a letto, Augusto ed io fummo soli. Non sapendo da dove cominciare, dissi la prima cosa che mi passava per la capoccia in quel momento: “Hai sentito che è successo?”
“La Vedova del Dottore?”
“Già.”
“Me dispiace.”
“Pure a me. L’ha trovata stamattina lu farmacista.”
“Ne lu letto sua?”
“Già.”
“Nun se sarà accorta de gnente.”
“Dallu sonno allu paradiso. Me mette tristezza sapere che se n’è annato nu core bono.”
“E’ vero, era proprio na brava persona.”
“Quelli cattivi invece restano sempre.”
“Sì.”
“Come la Zaccaria.”
“Chi?”
“La Zaccaria.”
“E che c’entra? Nun è manco tanto vecchia quella.”
“Che fai? La difendi già?”
“A chi?”
“A quel core cattivo della Zaccaria!”
“Ma de che stai a parlà? Nun te capisco mica.”
“Lassa perdere. Fa finta che nun t’ho detto gnente.”

Io tenevo le mano sul tavolo e mi fissavo li diti, non ce l’avevo proprio la forza di cominciare quel discorso lì.
“Adelì, noi dobbiamo parlà”, iniziò Augusto che s’era scocciato d’aspettare e c’aveva più coraggio di me.
“Lo so.”
“L’altro giorno ho visto mamma tua.”
In quel momento tutti i propositi miei andarono a farsi benedire e scoppiai peggio della pentola a pressione di  Lisuccia lo scorso Natale.
Sarà stata la stanchezza, la morte della Signora, il pensiero della Zaccaria o lo sguardo serio serio d’Augusto che mi metteva a disagio ma fatto sta che, buttando alle ortiche il buon senso, mi alzai di scatto dalla sedia e iniziai a vomitargli addosso tutta la rabbia che c’avevo.
“Tu co me dovevi parlare mica co lei!”
“M’è sembrato giusto prima vedere come la pensava lei.”
“E certo! Tu e lei decidete mentre quella fessa d’Adelina aspetta. Io so bona pe lavorare come na bestia ma poi, pe decidere della vita mia, ce deve pensare quarghidunaltro.”
“Sei tu che decidi mica li altri. Io a mamma tua ho chiesto solo nu consiglio. E mo siediti.”
“Nun me dire che devo fare, che sto già abbastanza incazzata cuscì. Quella nun è più manco bona a trovarsi lu culo co le mano e tu le vai a chiedere consigli?”
“Adelì, te voi calmà? Nun urlare e smettela de dire porcherie, che nella bocca d’una femmina nun ce stanno bene.”
A quel punto non lo so manco io che mi prese, gli piantai in faccia il muso mio arrabbiato e con la voce bassa e velenosa gli dissi la cosa più brutta di tutte. Gliela dissi nonostante avessi ormai imparato a conoscerlo e rispettarlo. Gliela dissi perché ero arrabbiata ed in quel momento godevo nell’essere cattiva: “Pensavo che volevi davvero bene a Lucia mia e invece nun vedi l’ora de metterte n’altra serva a pulirti casa e a scaldarti lu letto.”
Lui non alzò la voce, non mi insultò come avrei meritato, ma mi guardò con degli occhi severi e delusi che mi fecero sentire l’ultimo dei vermi sulla terra: “Per me Lucia è stata na benedizione. Ringraziavo lu Signore ogni mattina per quell’angiolo che m’aveva messo accanto. Ed ora che nun c’è più, penso a lei tutti li giorni e me la sogno tutte le notti, ma ai figli mia nun possono bastare li ricordi: loro c’hanno bisogno de na madre.”
Dio solo sa quanta fatica deve essere costata una dichiarazione così ad Augusto, sempre riservato e geloso dei sentimenti suoi.

E’ passata una vita intera da quella sera ma io ancora mi vergogno di avere insultato lui e l’amore che provava per la sorella mia. E me ne vergognai talmente tanto anche in quel momento che abbassai gli occhi, ricaddi come un sacco sulla sedia e iniziai a singhiozzare come una scema.
Piangevo perché mi mancava Lucia. Perché non sarei mai stata all’altezza sua. Perché questa vita nuova piena di responsabilità mi pesava più d’una pietra attaccata al collo.
“So cuscì stracca, Augù.”
“Lo so, te lavori come na mula.”
“E nun è abbastanza?”
“Che fai, scherzi? Se nun era pe te, noi stavamo tutti persi. Ma la gente parla.”
“Ma che ve frega a tutti quanti se la gente parla?”
“Che me frega? L’ho promesso a Lucia e pure a te, te lo ricordi? Nisciunu ve deve mancare de rispetto.”
Augusto mi guardava mentre io frignavo e sospiravo accartocciata sulla sedia come una bambola de pezza.
“Facciamo cuscì, Adelì. Tu stai serena e te prendi nu poco de tempo pe pensarce. Se decidi che nun te la senti, va bene uguale e ce parlo io co mamma tua: le dico che è colpa mia, che so stato io a cambiare idea.”
Quella sera vidi per la prima volta l’uomo che la sorella mia aveva imparato ad amare. Non era uno di niente come il babbo, una testa fresca come Emilio o uno tutto zucchero e poca sostanza come Gino. Lui era forte ma pure gentile. Sapeva essere un marito, un padre, un fratello ed anche un amico. Augusto era un uomo.

Svuotata e confusa, mi avvolsi nello scialle ed andai via. Quanto bisogno avevo che Lucia da lassù mi mettesse una mano sulla capoccia ed anche una sul cuore.

Continua...
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