Qual è il giorno in cui ci si sveglia con le occhiaie di un panda, i capelli di un leone fonato e l'incarnato di un ramarro?
Ovvio. Il giorno in cui bisogna rinnovare la carta d'identità.
All'anagrafe hanno deciso di farmela valida per l'espatrio ma non per il rimpatrio.
Chiuse il blog e, da quel momento, dovette sopportare il mio molesto disappunto, il mio chiassoso dispiacere, i miei assillanti interrogativi.
"Perché l'hai fatto?", gli chiesi ad ogni piè sospinto con voce acuta e fastidiosa.
Fino a quando, mosso da disperazione, fervida fantasia ed innegabile talento, decise di darmi una spiegazione.
Una spiegazione che merita di essere condivisa.
"Quel giorno avevo scritto quattro righe, quando arrivò una telefonata e dovetti lasciare tutto per correre al lavoro.
Presi la giacca, che avevo poggiato accanto al pc, e andai verso la porta.
Mi tuffai giù veloce per le scale scivolando sul passamano. Evitai la Signora del terzo piano e saltai sulla moto. Anzi no, quella mi era stata rubata. Saltai su un motorino lentissimo. E, lentissimamente, volai verso l'ufficio.
Arrivato in Studio presi a discutere in modo veemente con la collega detonaballe. Lo scambio di vedute differenti si fece diatriba. La diatriba divenne diaspora. La diaspora andò un momento in bagno a cambiarsi, e tornò incazzata che sembrava una lite. E fu a quel punto che, giunto sul cocuzzolo più alto del mio sermone, mi prese una paresi.
Muto. La bocca spalancata nel bel mezzo della parola "impo-ssibile".
Cos'era accaduto? Non riuscivo a realizzare la stranezza che mi era presa e pensai a un brutto male.
Fino a quando l'occhio della insopportabile collega cadde in basso, a terra. Fu lei a farmi notare che mi pendeva qualcosa. Proprio lì dietro a me.
Guardai atterrito.
Nella frenesia del momento m'era rimasta impigliata addosso l'ultima parola di quelle quattro righe, e mi ero tirato appresso tutto il resto.
Ero partito da casa e avevo sfilato via l'intero blog.
Provai a ripercorrere la strada e riavvolgere tutta la collana verbacea, ma dopo un centinaio di metri il filo era rotto. Le parole perdute.
La mia azione era stata troppo violenta. Insostenibile in sintassi."
Ha chiuso il blog ma non ha smesso di scrivere. Per fortuna.
Ed è un piacere, oltre che un onore, poter ospitare questo suo surreale e delizioso racconto.
Chi ne è l'autore? Sta a lui palesarsi.
Ma solo se lo desidera.
Caro Michael,
ti conobbi pochi anni fa, quando mi raccontasti la storia di
Ella e John.
Ti scoprii per caso in una fiera affollatta tra milioni di altre pagine. In un angolo speciale ricco di tinte calde, titoli accattivanti e nomi sconosciuti.
Ci incontrammo nuovamente un anno dopo, nello stesso posto.
Ti presi per mano, senza pensarci un attimo, e trascinai a casa mia.
Fu bello come la prima volta ma
diverso. Non fummo né gentili né romantici. Ci scambiammo i nostri lati più spigolosi, meno accoglienti, più dolenti e dolorosi.
Ci lasciammo senza una parola. Ma con la consapevolezza che il destino ci avrebbe sicuramente regalato un'altra occasione.
E così è stato.
Pochi mesi fa, avvolti da un caldo autunno cittadino, ci siamo ritrovati. Ancora una
volta.
Eravamo in un cortile dove una donna suonava un pianoforte, bambini chiassosi si rincorrevano, e piccoli incerti tavolini reggevano le parole di molti.
È stato un meraviglioso tuffo nel passato. Ho trovato i tuoi primi passi, quelli che ancora mi mancavano per completare il quadro. Ho attraversato l'origine di tutto, la tua storia più vera e personale. Ho conosciuto il personaggio che più ti assomiglia e l'ho amato.
Credo di aver anche conosciuto il personaggio che più assomiglia a lei. Tua moglie Rita.
L'ho conosciuta. L'ho amata. E invidiata.
Donna fortunata.
Musa e compagna.
Va bene, me ne farò una ragione.
Forse io non avrei mai potuto rendere felice te.
Forse tu non avresti mai potuto rendere felice me.
Ma io continuerò comunque a leggerti.
Tu, mi raccomando, continua a scrivere.
Con la devozione che solo una lettrice può avere,
per sempre tua,
Pancrazia.
Domenica sono tornata a Venezia.
Per un giorno solo. Anzi, per meno. Per nove ore.
Nove ore di pura gioia.
Pochi luoghi mi colpiscono cuore e mente quanto il gioiello lagunare.
Domenica ho cominciato a sognare quando ero ancora sulla terra ferma.
Ho elaborato il primo di una lunga serie di post quando, dalla pancia del battello, osservavo la sagoma della città che si faceva sempre più vicina.
Rapita dall'eloquio fluente e dai succosi aneddoti della guida, mi sono aggirata per calli e campi con un sorriso estatico dovuto al fisico piacere della scoperta.
Venezia è piena di storie da raccontare. Storie vere, storie inventate, storie reinterpretate.
Venezia è la mia idea di paradiso. Anche quando fa freddo. Anche quando bisogna andare in giro con le galosce. Anche quando la pioggia si prende gioco di occhiali e ricci.
Perché io non amo Venezia. O, almeno, non solo.
Io vorrei essere Venezia. Nel bene e nel male.
Articolo sponsorizzato da me e per me.
Della serie "qua ci si fa pubblicità spudoratamente".
E, del resto, se non me la faccio qua, sulle mie paginette, dove mai dovrei farla?
"
I Racconti di Jane Pancrazia",
la mia adorata creativa e geniale attività, da qualche tempo a questa parte va a braccetto con Francesca e la sua Festa della Cicogna.
Francesca è una Baby Planner che organizza Baby Shower in tutta la Toscana.
Cos'è un Baby Shower?
"Si tratta di una festa che viene realizzata per la nascita o l'adozione di ogni bimbo che entra a far parte di una nuova famiglia. Così la futura mamma o le amiche organizzano un
party di buon augurio pieno di colori e divertimento durante il quale la mamma si lascia coccolare da tutti e si aprono i tradizionali regali per il bebè.
La Baby Planner si occupa di tutto: dalla Location, alla realizzazione e personalizzazione degli inviti, come per l'allestimento e il catering. Senza scordare la famosa "Diaper Cake",
la torta di pannolini, il Baby Bouquet,i giochi,le foto ricordo,
la musica...tutto ciò che si vuole può essere aggiunto!"
Proprio tutto. Anche un racconto scritto ed illustrato appositamente per l'occasione. Per esempio.
Per ulteriori Informazioni potete contattare direttamente Francesca Gottardo:
-Mail:
festacicogna@gmail.com
-Tel.: 3334539867
(I più affezionati tra i miei lettori avranno già letto la prima e la seconda parte di questo racconto.
Parti che però, nel frattempo, ho modificato.
Ora che, finalmente, ho raggiunto la versione finale della storia ho deciso di ripubblicarla tutta: dall'inizio alla fine.
Buona lettura.)
Tore saliva le scale portando con sé il pesante fardello della sconfitta.
Era successo anche oggi. Succedeva ogni giorno.
"Sei troppo piccolo", gli dicevano. E, con questa scusa, non lo facevano mai giocare a calcio con loro. O, peggio ancora, lo mettevano in porta. Così. Solo per fare numero. Come si fa con le femmine o con gli imbranati che non hanno i piedi buoni.
Ma lui i piedi buoni ce li aveva. Ce li aveva, eccome.
Tore era bravo. Sapeva di esserlo. Se lo sentiva fin nella punta degli alluci. Se lo sognava pure la notte, con gli occhi aperti e con gli occhi chiusi.
Ciò che gli serviva era solo la possibilità di giocare. Almeno una volta. La possibilità di volare sul campo, dribblare panchine e lampioni, e colpire il pallone così forte da farlo incastrare nella cancellata rossa della scuola.
Mentre trascinava delusione e sogni ad occhi aperti, Tore passò accanto a Mimmo “Lo Stanco”, ma non lo vide.
Mimmo trascorreva tutti i giorni sul ballatoio. Stava sempre seduto sulla stessa sedia. D'inverno con dei vecchi pantaloni di fustagno, un maglione grigio consumato sui gomiti ed un paio di scarponcini da montagna. D'estate con dei pantaloncini azzurri, una canotta bianca e delle ciabatte di plastica.
Mimmo stava sempre là. Nessuno l’aveva mai visto senza quella seggiola attaccata al sedere.
Il professor Peppe, detto il filosofo, diceva che era come un centauro con il busto da uomo e le zampe da sedia. La mamma di Mimmo invece diceva che no, suo figlio era nato con due gambe e due braccia come tutti gli altri, ma era solo un poco pigro. Un poco pigro ma tanto buono.
Mimmo aveva quarant’anni, o forse cinquanta, o anche sessanta. Non lavorava. Non studiava. Non beveva. E non fumava. Non faceva niente. Guardava la gente passare. E ogni tanto parlava.
Quel giorno parlò.
"Ti devi portare il pallone", disse alla schiena curva e afflitta di Tore.
“Che?”
"Ti devi portare il pallone ai giardinetti. Se ti porti il pallone ti devono far giocare per forza"
"Ma io non ce l'ho"
Mimmo aprì la bocca. Poi la richiuse. Poi l’aprì. E poi la richiuse. Non se l’aspettava mica una cosa così. Non lo sapeva che al mondo ci stavano bambini senza pallone.
Che terra infelice gli era toccata!
Mimmo infilò l’unghia del mignolino destro nell’orecchio. Si grattò la nuca.
Sbadigliò. Tossì. Starnutì. Ruttò. E scorreggiò.
Chiuse gli occhi e li riaprì.
Si sporse in avanti.
Fece scricchiolare le ginocchia.
E.
Si alzò.
I pantaloncini sudati fecero “sguisccc”. Tore spalancò la bocca. La gatta orba e nera dei vicini scappò. La zoccola del quarto piano smise di fare il lavoretto al maresciallo. La maestra Giannetta macchiò il foglio d’inchiostro. Tutto il palazzo si fermò. Il mondo intero si fermò.
Mimmo sparì nella cucina che puzzava di broccoli. E dopo un attimo ne uscì con una vecchia palla di cuoio.
La teneva in equilibrio sul palmo della mano. Una mano enorme. La mano di Dio.
La palla era grigia, vecchia e consumata. Bellissima.
"Ore ce l'hai", disse Mimmo.
Dall’altra parte del cortile, nel bagno verde a rombi, Rosetta era impegnata a scalare uno sgabello ballerino.
Questo ondeggiava a destra e poi a sinistra. A sinistra e poi a destra. Avanti e poi indietro. Indietro e poi avanti. Un due tre. Un due tre. Un due tre.
Quando la danza a tre gambe finalmente si concluse, la bambina riuscì a guardarsi allo specchio. Si guardò e due grandi lacrime le rotolarono lungo le guance finendo a terra.
“Splash”, fecero.
Erano lacrime gonfie e pesanti.
“Così sembro un maschio”, si lamentò Rosetta.
“Domani ti porto a fare i buchi alle orecchie” le disse la madre spazzando via i capelli dal pavimento.
Erano stati vivi e felici. Ora erano solo un tappeto morto sotto il lavandino. Un sorcio svenuto. Una marmotta defunta. Che fine indegna era toccata Loro!
“Da grande mi farò crescere i capelli fino a terra”, si ribellò Rosetta.
“Da grande farai come ti pare. Ora però scendi da lì e vai ai giardini che, a forza di stare in casa, ti stai facendo gialla come una cinese”
“Non ci voglio andare ai giardini. Non conosco nessuno”
“E non conoscerai mai nessuno se non esci”
“Ma mamma…”
“Fila a divertirti, sciò!”
Rosetta sospirò e scivolò giù dallo sgabello. Il danzatore a tre gambe riprese ad ondeggiare. Avanti e indietro. Indietro e avanti. Un due tre. Un due tre. Un due tre.
La rumba si concluse senza incidenti e la bambina si trascinò fuori casa.
Lungo il ballatoio incontrò la testa di una bambola. Non una bambola intera ma solo la testa. Una capoccia piena di lunghi boccoli biondi. Una capoccia abbandonata tra un trattore di plastica ed un vecchio peluche puzzolente.
Rosetta guardò la bambola. L’occhio destro della bambola guardò Rosetta. Quello sinistro no.
La bambina ebbe un’ispirazione. Tirò indietro il piede e poi lo lasciò scattare in avanti come una molla.
Impatto. Colpo d’interno destro. Stadio in delirio.
La testa della bambola, dopo una parabola perfetta al di sopra del cortile, atterrò ai piedi di Mimmo.
Lui guardò Rosetta e poi guardò la capoccia color paglia. L’occhio destro ricambiò lo sguardo. Quello sinistro no.
“Anche quella bambina nuova avrebbe bisogno di un pallone“, disse Mimmo.
Tore lo ascoltò ma non capì.
Non era ancora giunto il tempo.
E con il pallone di cuoio stretto tra le braccia corse felice verso i giardini.
“Ho la palla”, urlò una volta raggiunto il campetto senza erba.
“Ho la palla”, ripeté portandola in trionfo come una coppa. La coppa del mondo.
Ai bambini più grandi venne l’acquolina in bocca. Un pallone così bello non l’avevano mai visto. Era uno di quelli di cui aver rispetto. Uno di quelli che usano i grandi. Uno di quelli con cui si può vincere tutto, ogni sfida ed ogni paura.
“Giochiamo”, disse Nico il Ripetente, “ma le squadre le faccio io. Tu starai con lo Storto e col Corto. Io col Pennacchione, l’Armadio e la Bestia”
Da una parte presero posto i giganti.
Dall’altra. Gli altri.
“Ma così siamo tre contro quattro non è mica tanto giusto”, disse il Corto facendosi i conti sulle dita.
“E che è? Manco abbiamo cominciato e già trovate scuse?”
“No!” rispose Tore con gli alluci che gli prudevano dalla voglia di giocare.
Poi poggiò il pallone a terra e, finalmente, la sua partita ebbe inizio.
Mimmo, ancora in piedi, sciabattò lungo il ballatoio fino alla porta dei vicini e poi bussò.
Il professor Peppe andò ad aprire.
“Prendete il televisore e portatelo sotto. Questa sarà una grande serata”, disse lo Stanco.
Il Filosofo eseguì gli ordini senza fiatare, svelto svelto, e con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro. Tale era la fiducia nelle doti divinatorie del centauro, metà uomo e metà sedia.
Intanto Rosetta si era messa in fila ad aspettare il suo turno all'altalena. Stava là buona buona con gli occhi bassi, i riccetti corti e la voglia di tornarsene a casa.
Le altre bambine scherzavano e ridevano. Erano belle e simpatiche. Erano amiche. Avevano i capelli lunghi e sapevano qual era il loro posto. Il loro posto nel mondo.
Tutti lo sapevano. Tutti tranne Rosetta. Lei non l’aveva mai saputo.
Poi, adesso, da quando aveva cambiato casa, di cose ne sapeva ancora meno del solito. Non sapeva dove stava l’oratorio. Non sapeva dove facevano la miglior granita di gelsi e panna del quartiere. Non sapeva quali erano i buoni e quali i cattivi. Sapeva che odiava i capelli corti. Sapeva tutte le tabelline tranne quella dell’8. Sapeva fare la ruota, anche se le veniva un poco storta.
E sapeva di avere i piedi buoni. Ecco, di quello era sicura. Gliel’aveva detto nonno Niria, buonanima. Ma di questo talento, però, non sapeva proprio che farsene.
Nel cortile vennero sistemate tante seggiole. Blu, rosse, di plastica, di paglia e persino una poltrona. La poltrona del professor Peppe, che soffriva d’emorroidi e voleva stare comodo per lo storico evento. Qualcuno portò del vino e qualcun altro spadellò una frittata di spaghetti per un esercito. Del resto questa era una battaglia. Una battaglia che non si poteva perdere. E quando Gino lo scemo si presentò con della birra tedesca venne preso a ceffoni e male parole.
Ai giardinetti ormai si era fatto buio ma Tore correva, correva senza stancarsi. Sapeva che non avrebbe vinto, gli altri era troppo forti e, soprattutto, troppo grossi ma non gli importava. Lui voleva solo giocare. E stava giocando. Finalmente.
Tore correva. Calciava. E pensava. Pensava che al mondo non poteva esserci niente di più bello che il calcio. Neanche le figurine. Neanche le macchinine. Neanche la granita. Neanche la granita al cioccolato. Neanche la granita al cioccolato con la panna. Niente.
Intanto il Corto sbagliò un passaggio. Un altro. E Tore pensò che meglio del calcio ci poteva essere solo una partita di calcio con un amico coi piedi buoni. Magari non quanto i suoi. Ma quasi.
Nel frattempo tutto il condominio si era sistemato davanti al televisore.
La gatta orba e nera dei vicini stava seduta in braccio alla zoccola del quarto piano. Il maresciallo teneva stretta la mano della moglie. La maestra Giannetta tratteneva la pipì per non perdersi neanche un minuto della partita. Tutto il palazzo si era fermato. Il mondo intero si era fermato.
Erano tutti seduti. Tutti seduti tranne Mimmo. Mimmo stava in piedi. Dritto come un fuso. Con gli occhi guardava la partita al Santiago Bernabeu. Ma col cuore seguiva quella al campetto dall’altra parte della strada.
Rosetta, intanto, stava ancora aspettando il suo turno all’altalena.
Le erano già passate avanti in tre.
"Forse non mi hanno vista", aveva pensato.
“Ora gli dico qualcosa”, si era convinta.
“Ma magari è meglio di no”, aveva deciso.
Quando finalmente toccò a lei, il pallone le rotolò fino sui piedi.
Tore si avvicinò per raccoglierlo. Poi pensò alla capoccia volante con i lunghi boccoli biondi. E capì.
Era giunto finalmente il tempo.
"Ci serve un quarto. Vuoi giocare?", chiese a Rosetta.
"Sono una femmina", rispose lei.
“Lo so”
“Non voglio stare in porta”
“In porta ci sta lo Storto. Tu starai in attacco con me”
“Sono brava a fare i cross”
“Lo so”
E Rosetta corse ad occupare il proprio posto in campo.
Chissà come sarebbe stato contento nonno Niria, buonanima.
Mimmo sorrise.
E poi.
Infilò l’unghia del mignolino destro nell’orecchio. Si grattò la nuca. Sbadigliò. Tossì. Starnutì. Ruttò. E scorreggiò.
Chiuse gli occhi e li riaprì.
Si sporse in avanti.
Fece scricchiolare le ginocchia.
E.
Si rimise seduto.
Rosetta crossò.
Tore segnò.
Tardelli. Pure.
Lo stadio esplose. Il condominio urlò. Rosetta fece la ruota.
Le venne storta come al solito. Gli altri bambini risero. Anche Tore. Ma poi allungò la mano e l’aiutò ad alzarsi.
"La maggior parte della gente gioca felice alla giostra della discarica: risparmia e si sacrifica per comprare cose che poi butta via, risparmia e si sacrifica per comprarne altre."
"Second Hand", Michael Zadoorian.
Edizioni Marcos y Marcos.