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In ritardo. In ritardo come sempre. Brucio almeno un paio di rossi per arrivare in tempo all'aeroporto. Per fortuna ce la faccio: non perdo l'aereo e riesco a partire per Palermo. 

Non ci arriverò mai.
(1980)
Oggi svelo il terzo segreto. Le interpretazioni si sprecano.
(2000)
Scelsi la Basilica del Sacro Cuore per caso, ma anche per calcolo.
Era un monumento relativamente vicino a dove stavo turisticamente sfaccendando. E, inoltre, non era tra quelli catalogati come "troppo importante per essere visto da sola".
Spiego meglio il concetto: non aspettare il mio ex per vedere la Tour Eiffel o Notre Dame mi pareva poco gentile, persino considerando l'abbandono estivo. Ma andare a vedere il Sacro Cuore, mentre lui era ancora in viaggio, non mi sembrava un grande sgarbo.

Quindi, a pomeriggio ormai inoltrato, m'incamminai serena verso la mia meta.

Non conosco la situazione attuale, ma a quei tempi lungo le scale che portano alla Basilica stazionavano molti immigrati che, tra una chiacchiera e un sorriso, tiravano su qualche soldo intrecciando braccialetti intorno al polso dei turisti di passaggio.

Io, allocca per natura e turista sfaccendata per vocazione, ai primi scalini venni intercettata dalle chiacchiere e il sorriso contagioso di un ragazzetto con gli occhi buoni. Non ricordo da dove venisse, ma ricordo il suo discreto italiano e la sua storia uguale a quella di tanti altri. Sbarcato in Italia, era rimasto nel nostro paese il minimo indispensabile, per poi raggiungere la sua famiglia in Francia.
Chiacchierammo e ridemmo per qualche minuto, poi lo salutai da orgogliosa proprietaria di un esile braccialetto di filo nuovo fiammante.

Arrivata a metà strada mi venne incontro un altro ragazzo molto più alto e meno sorridente del precedente. Io, istintivamente, cercai di evitarlo: non avevo mica intenzione di finanziare tutti gli intrecciatori di gioielli del Sacro Cuore! Ma lui mi bloccò la strada e mi afferrò il polso. Stretto.

Era grande, forte e puzzava. Puzzava di alcool. Ricordo soprattutto questo. L'odore acre dell'alcool. E la paura. La paura istintiva che mi prese. La paura nata da quelle dita salde e quell'odore. Quell'odore che significava mancanza di controllo e violenza.

Da quel momento ebbe inizio il nostro scontro di volontà.
Io, da una parte, mi divincolavo.
Lui, dall'altra, mi tirava in disparte.
Io da una parte. Lui dall'altra.
In mezzo alla folla ma soli.
Sola.
Sola e sempre più spaventata.
Le mie pupille dilatate dal panico. Il suo sguardo liquido e sfocato dall'alcool.
La mia bocca aperta ma senza voce. La sua a biascicare incomprensibili parole in francese.

Alla fine, con un ultimo strattone, ebbi la meglio sulle sue dita sbronze. Sfuggii alla presa e mi allontanai velocemente.

Com'è triste Parigi.
O, meglio, com'è triste il mio ricordo di Parigi.
Una città meravigliosa il cui nome per me risveglia, però, prima di ogni altra cosa, quella paura e quella puzza.
Risveglia lo spavento. E la rabbia per tutti coloro che stettero a guardare indifferenti.
Nessuno di loro intervenne. E ciò sarebbe quasi accettabile. Io, del resto, non chiesi aiuto. Non ci pensai nemmeno, troppo concentrata com'ero nel cercare la fuga. L'istinto della fuga è innato. Quello del chiedere soccorso, forse, no. Almeno non in me.

Ma la cosa grave è che nessuno, né parigino né turista, si avvicinò per chiedermi come stessi. Dopo. Non che mi aspettassi gesta eroiche, ma almeno un poco di gentilezza a pericolo scampato.

Eppure mi videro. Mi videro in tanti. Sentii i loro occhi addosso durante e dopo l'accaduto. Soprattutto dopo. Mi guardarono salire le scale sull'orlo delle lacrime. Avevo circa 25 anni. Ne dimostravo 18. Mi guardarono e basta. Una ragazza sola ero. Una ragazza sola rimasi.

Certo, probabilmente non fui mai davvero in pericolo. E io sono solo una gran fifona.
Era giorno. Eravamo in un posto affollato. Ma fino a dove avrebbe potuto spingersi l'indifferenza di quella folla?

Mi fa una gran rabbia che una città come Parigi mi sia rimasta dentro soltanto per questo.

Potrei raccontarvi di quanto mi piacque la tanto criticata tour Eiffel, che io amai dal primo istante. Potrei dirvi come mi girò la testa al Louvre, con tutto quello che c'era da vedere, talmente tanto da essere troppo e farmi fuggire rapidamente. Potrei farvi il resoconto dettagliato della riappacificazione con l'ex tedesco, riappacificazione che si risolse nella più classica e sciapa minestra riscaldata. Potrei regalarvi un sorriso col mio tragicomico viaggio di ritorno, condotto con 40 gradi di febbre, due confezioni maxi di fazzolettini, l'orrore negli occhi degli altri passeggeri, e la vocazione da untrice manzoniana.

Potrei.
Eppure, appena mi nominano Parigi, nonostante tutto, nonostante la bellezza e la magia, il primo ricordo che mi affiora nella testa è quello della mia disavventura al Sacro Cuore. E' la puzza d'alcool. E' l'indifferenza della gente. Gente proveniente da tutto il mondo, sia ben chiaro. Questa non è un'accusa ai francesi e tanto meno alla loro meravigliosa capitale. Sfondo inconsapevole di una scena che avrebbe potuto verificarsi ovunque. Uguale.

E tutto ciò è triste. Com'è triste.

Fine.
Ballo e marcio al San Francisco pride. E per la prima volta faccio sventolare la bandiera arcobaleno.
(1978)
Dico di aver visto Kraljica Mira. Dico.
(1981)
Tutto il mondo conosce il mio impermeabile. Il mio sigaro. E persino il mio occhio di vetro.
Tutto il mondo sorride quando rifletto grattandomi la testa.

Sono un attore. Un commediante. Un pazzo. Un barbone. Un malato.

Tutto il mondo sa chi sono.
Tutto il mondo tranne me.

E ora cala il sipario.
(2011)
Non sono stato io. E' stata la Mano di Dio.
(1986)
"L'ho fatto per Jodie. Per dimostrarle il mio amore", dice John.
"Non colpevole per incapacità di intendere e volere", risponde la Corte.
(1982)
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