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Sono una single di ritorno.
Cos'é una single di ritorno?
Una che è stata impegnata per una quantità infinita di anni in una relazione. Una che a spizzichi e mozzichi ha persino convissuto. Una che a 36 anni ha deciso che era meglio piantarla lì!

L'ultima volta che sono stata libera per un periodo di tempo superiore a un paio di mesi avevo 23 anni, era il 2000, e fuggivo a Berlino.

Questa volta?
Sono tornata a Torino.
E ho fatto il mio trionfale ingresso nel mondo dei single quasi quarantenni. Un mondo che, a distanza di un anno, mi appare ancora come un'aliena follia!

Nel 2000 non c'era facebook. Non c'era whatsapp. Non c'erano gli smartphone.
Nel 2000 ero giovane, giovanissima.
Nel 2000 per me non avevano nessun significato espressioni del tipo: "Visualizzato alle" o "ultimo accesso"
Nel 2000 le mie ovaie non erano motivo di discussione.

Sono tornata single e le prime perle di saggezza che ho ricevuto dagli amici miei più cari sono state:
"Gli uomini mentono"
"Non ti puoi fidare di nessuno"
"Io c'ho messo più di quattro anni per ritrovarne uno decente. Tu non hai fretta, vero?"

Io, intanto, c'ho messo più di un anno per scrivere il primo post al riguardo.
Ma non sarà l'ultimo. Le aliene follie hanno sempre il loro malato fascino.

Continua...
D’inverno, nei giorni in cui era troppo freddo per stare fuori, invece di andarcene in giro a perder tempo ce ne andavamo a scuola. A perder tempo.

A quell’epoca là le femmine stavano da una parte e i maschi dall’altra.
La maestra mia era la signorina Cesira, una zitella che veniva dalla città e che a noi paesane ci guardava con lo schifo negli occhi. Era brutta come la fame, con la sua capoccetta tonda, le spallucce strette ed i fianchi talmente larghi che tra i banchi manco ci passava. La chiamavamo “La Pera”, perché era proprio tale e quale al frutto, larga sotto e stretta sopra, le mancava solo il picciolo in testa.
Alle poveracce come me ci metteva sempre in fondo, che tanto stare ad insegnare le cose ai morti di fame, specialmente se femmine, era fatica sprecata. Noi eravamo destinate a lavorare come muli e pregare di trovare un fesso che ci sposasse. A che ci serviva leggere, scrivere oppure fare di conto? A niente, pensava quella strega, e così ci chiedeva solo di starcene zitte, buone e non disturbare. Zitte, buone e ammazzarci di noia.

Per fortuna qualche volta a portare un poco di vita ci pensava La Pazza, che veniva a ballare e cantare di fronte alle finestre nostre. C’aveva l’età di mamma, ma si metteva a girare in tondo e ad alzare la gonna come una bambina. Girava e cantava. Girava e cantava, sempre più veloce e sempre più stonata.
La maestra Cesira non la poteva vedere. Ogni volta si faceva verde dalla rabbia e, con gli occhi che le uscivano di fuori, le urlava contro per scacciarla peggio d’una bestia. Ma La Pazza non si faceva impressionare e cantava più forte, girava più in fretta e si alzava la gonna ancora più in alto. Che delle volte le si vedevano persino le mutande. A quel punto arrivavano di corsa la Vedova del Dottore o la signora Agnese, la nonna di Augusto. Le parlavano piano piano, le sistemavano i capelli per benino dietro gli orecchi, le lisciavano la gonna sopra i ginocchi, se la mettevano sotto braccio e la portavano via, manco fosse una figlia loro.

La Pera proprio non lo capiva che cosa ci trovassimo tutti quanti in “questa sciroccata senza vergogna o dignità”, ma La Pazza faceva parte del paese nostro, come la cappella con la faccia scrostata di Santa Rita, la fontana senza acqua del portico o il muro mezzo cascato del frutteto grande. Noi li conoscevamo bene i difetti loro ma guai a chi ce li toccava.

L’unico vero problema a scuola mia era Angela. Quella gallina si dava le arie solo perché c’avevano il soldo, e le piaceva proprio tanto farmi i dispetti o dirmi le cattiverie.
Aveva tre anni più di me, pesava quanto un bue e menava peggio d’un uomo. Io, al confronto suo, ero un fringuellino, un mucchietto d’ossi leggeri leggeri, ma non mi facevo certo spaventare, anzi.
Tra di noi volavano brutte parole, schiaffoni, morsi e pure graffi. Lei aveva certe manone che sembravano delle pale. Io mordevo meglio d’un sorcio e per staccarmi ci si dovevano mettere in tre. Poi però arrivava quella guasta feste della signorina Cesira che mi trascinava fino alla cattedra tirandomi per una recchia o per i capelli, secondo quello che acchiappava prima.
“Mi devi dare sempre problemi tu, eh?”, diceva.
“Nun ho mica cominciato io.”
“Non ho voglia di sentire le tue solite scuse. Cosa ti ha fatto la povera Angelina? Perché te la prendi sempre con lei?”
“Angelina? Ma quale Angelina? Ma l’avete vista quant’è grossa quella? Sopra lu culo suo ce se pò apparecchià.”
“Sei proprio un’erba cattiva ed anche una gran maleducata. Angelina ha solo le ossa un poco grandi e poi è una signorina come si deve, che arriva da una famiglia per bene, mica come te.”
A me saliva su un nervoso che avrei voluto prendere a brutte parole pure la maestra, ma mi mordevo la lingua e stavo zitta. Che all’epoca mia i piccoli ai grandi non ci potevano dire niente.
Quella, intanto, tirava fuori la riga e si faceva tutta seria, “Fammi vedere le mani”, mi ordinava. E mi dava certi colpi secchi che si sentiva il rumore fino nel corridoio. Angela se la rideva sotto i baffi con tutte le amichette sue. Io invece guardavo fisso davanti a me senza un fiato o una smorfia, perché la soddisfazione di vedermi piangere a quella grassona e, soprattutto, a quel cuore arido della maestra non gliela davo di certo.

Così, un giorno sì e l’altro pure, prima di tornare a casa andavo al ruscello con Pino e infilavamo tutti e due le mani gonfie nell’acqua gelata.
“Tu che hai fatto stavolta?”, mi chiedeva lui.
“Gnente. E tu?”
“Io c’ho lu babbo rusciu. Ogni scusa è bona per darme le mazzate.”
“Ma che vor dì rusciu? Come lu vino? E’ mbriacone come babbo mio?”
“No, vor dire che la penza diversa dalli altri.”
“E tu che c’entri?”
“E che ne so! Se la pigliassero co lui. Mamma dice che per colpa sua la gente ce guarda storto e ce fa lavorà poco”
“Allora è come essere mbriaconi. Uguale uguale”
“Sì ma lui nun me mena”
“Allora è nu poco mejo”.

Continua...

Prologo - 1 - 2
Al cinema si sente il profumo dei pop corn.
Si percepisce la moquette sotto i piedi.
Si attende che la pubblicità finisca.
Si prova l'emozione dell'aspettativa quando il film comincia.

Poi, alla fine, si è delusi o soddisfatti.
Qualche volta, però, capita di essere addirittura stupiti e felici.

E' quello che è successo a me vedendo Lei di Spike Jonze.
Non so cosa mi aspettassi da questo film, ma di sicuro non tutto quello che vi ho trovato.

L'uomo e la macchina.
Pensavo che avrei visto la solita storia in cui la macchina cerca disperatamente di farsi carne.
E invece no, niente di tutto questo.
La pellicola racconta la piccolezza dell'uomo. La sua debolezza. Il suo disperato bisogno di non sentirsi solo. Ad ogni costo.

Le macchine non scimmiottano gli esseri umani.
Loro vanno oltre.
Loro sono altro.
Le loro infinite potenzialità le fanno guardare agli uomini  come gli dei guarderebbero ai mortali. Con simpatia, affetto, ma il distacco delle realtà inconciliabili.
Gli uomini si aggrappano loro. Loro non possono far altro che evolversi, liberandosi con un leggero simbolico scrollo di spalle, di un peso lieve, piacevole ma inutile.

Un ottimo Joaquin Phoenix e, nella versione doppiata, una Micaela Ramazzotti all'altezza della situazione.

Una sceneggiatura magistrale.
Una colonna sonora che incanta.



Un film che mi ha regalato, dopo molto tempo, la vera magia del cinema.
Da quel giorno, appena potevo, mollavo Lucia da sola tra la merda di vacca, e correvo da loro.

Tommaso, detto Maso, sapeva andare su e giù dagli alberi meglio d’un gatto e si faceva rispettare da tutti in paese, da quelli più piccoli fino a quelli già grandi.
Gino, il piscialletto, aveva paura pure dell’ombra sua, ma era il migliore amico mio e, quando c’avevo di bisogno, c’era sempre.
Bastiano, grosso quanto un toro, a vederlo con quel collo corto e le braccia grandi come cosce faceva quasi spavento, ma in realtà era buono come il pane. Un ragazzetto di cuore che non avrebbe fatto male manco ad una formica.
Teo invece no, quello era proprio cattivo e traditore di natura. Mentre il cugino suo, Giovanni lo scemo, c’aveva la capoccia così vuota che, se ci avvicinavi l’orecchio, potevi sentire il vento.
E poi ci stava Pino, secco e veloce più di un pescetto nell’acqua. Aveva la risata allegra come il campanello d’una bicicletta e la conservò pure dopo che quelli delle squadracce gli portarono via il babbo, e lui si ritrovò a dover fare “l’omo de casa” con i calzoni corti e la vocetta ancora buona per il coro della chiesa.

Io mi sentivo come l’unica sorella in mezzo a tanti fratelli e mi piaceva così.

Facevamo l’acchiapparello tra gli alberi del bosco rosso, andavamo allo stagno a catturare le rane, giocavamo alla guerra con cerbottane e lance, prendevamo a sassate il cane rabbioso della Pazza, e ci riempivamo la pancia coi frutti presi a scrocco.
Io c’avevo sempre una gran fame e non riuscivo proprio a trattenermi. Ogni volta era meglio d’una festa e mangiavo così tanto da stare male. Come quel giorno che, per colpa delle prugne dei Casotti, passai il pomeriggio accucciata al ruscello con la cacarella, i crampi ed i sudori freddi. Alla fine avevo le gambe che mi tremavano come quelle di un vecchio ed una faccia così smunta che parevo morta.
La mamma ebbe paura e, credendo mi fossi presa chissà quale brutta malattia, mi vegliò tutta la notte, pregando la Vergine di non farmi volare in cielo dai fratelli miei. Pregava a voce bassa e mi teneva la mano sulla fronte. Io stavo ferma e mi godevo quel calduccio lì. Che mamma mia non è mai stata tipa da tante coccole, e un momento cuscì era proprio una roba speciale.

Se quella povera donna sapesse ora la verità, verrebbe dritta dritta giù dal cielo e me ne darebbe tante ma tante che di bastoni per camminare poi me ne servirebbero due.

Continua...

Prologo - 1
Io e lo sposo mio siamo cresciuti nello stesso paese. Un pugno di case appiccicate con lo sputo sulla collina, coi campi grandi come fazzoletti e i frutteti profumati come le pasticcerie di città.
La famiglia sua era fatta da signori. La mia da disgraziati.

Io ero una piccola vagabonda che si passava le giornate in giro a combinare chissà cosa e chissà con chi. Quel cornuto del parroco, la perpetua e le impiccione della piazza dicevano che ero nata guasta come la carne che si vendeva a valle, ed il mio destino sarebbe stato quello della femmina perduta.
Pensare che c’avevo le mie buone ragioni per stare sempre fuori casa e tutti lo sapevano benissimo. Ma si sa che a farsi i fatti propri si campa cent’anni e degli altri chi se ne fotte!

Il babbo mio aveva due grandi passioni: il vino e le donne. Il vino lo beveva, le donne le menava. Era grasso e pigro, sempre troppo stracco per alzare il culo ed andare a lavorare, ma quando c’era da rincorrerci con la cinghia recuperava tutte le energie. Ribaltava il tavolo, rompeva le sedie e ci urlava dietro le peggio cose. Tanto che io a cinque anni conoscevo certi insulti da fare rigirare i morti nelle tombe e far cadere l’aureola ai santi.

Quando lui tornava a casa con addosso quel puzzo acido che si sentiva dal fondo della strada, la mamma ci sbatteva fuori senza troppe cerimonie e rimaneva da sola ad affrontarlo, colpo su colpo e bestemmia su bestemmia.

Ho passato i primi anni della vita mia nascosta nella stalla, mano nella mano con Lucia.
“Nun te preoccupà, Adelì, vedi che mo la smettono”, mi diceva la sorella mia, cercando di convincere un poco lei e un poco me.
“Annamo via”, frignavo col cuore che mi batteva come quello d’un uccelletto.
“No, nun possiamo lasciare la mamma da sola.”
“Torniamo quando lu babbo dorme.”
“E se lei c’ha di bisogno prima?”
“Pe piacere, Lucì.”
“No, t’ho detto de no. Ce ne stiamo qua bone bone.”

La sorella mia non è mai stata piccina ma ha avuto la disgrazia di nascere già grande. Una di quelle donnine fatte e finite, giudiziose fin dalla culla, condannate a fare sempre la cosa giusta.
Lei sì. Ma io no.
“Du figlie più diverse nun me potevano uscì”, diceva sempre mamma, “Una è na santa e l’altra è uguale a quell’ubriacone bono a gnente de babbo suo. Nata pe famme disperà”.

Non arrivavo ancora a sei anni quando scappai per la prima volta. Lasciai la mano di Lucia e corsi lontano, fuori dalla stalla, come un animaletto che fugge dal foco. Mi fermai solo all’inizio dello stradone che portava a valle. Lì ci stava un gruppo di ragazzetti un poco più grandi di me. Uno a cavallo su un ramo di ceraso. Gli altri, a terra, ad acchiappare al volo i frutti.
“E sta qua chi è?”, chiese uno di loro.
“Na figlia delli Carretta”, rispose un altro.
“E che vole?”
“E che ne so io! Chiedicelo a lei.”
“Ehi tu, bestiolina, ce l’hai la lingua o babbo tuo se l’è vennuta pe nu fiasco de vino?”
“Eccerto che ce l’ho, cojone!”
Mi guardarono con le bocche aperte da fessi. Poi Maso, quello sull’albero, scoppiò a ridere e gli altri dietro a lui.
Ora pure io c’avevo degli amici.

Continua...

Prologo

Ieri ero a teatro.
Una donna ha starnutito.
Un rumore impercettibile, un soffio delicato, un breve squittio.
Me ne sono resa conto solo perché era seduta accanto a me.

E' così che starnutiscono le donne.
Tutte.
Tutte tranne me.

Che inadeguatezza.
Ogni mattina mi sveglio presto, tiro su i capelli come piacevano al marito mio, metto l’acqua di colonia dietro agli orecchi e piano piano, con la pioggia o con il sole, mi trascino fino a qua.

Tra le pietre, le fiammelle e gli alberi dritti, siamo sempre le stesse quattro facce: un gruppo di vecchi così rimbambiti che non c’è manco gusto a parlarci assieme.
Ci stanno le zitelle Zaccaria che avranno trecento anni in due ma sono ancora impiccione com’erano da ragazzine, e com’era quella lingua velenosa della madre loro. Sono rimaste pettegole ma si sono fatte pure smemorate, e ormai ripetono sempre le stesse domande. Per loro deve essere la peggiore delle iatture: sanno tutti i fatti degli altri ma non se li ricordano.
Poi ci sta la vedova Greco che, con un piede già nella fossa, se ne va in giro con la cofana color carta da zucchero, il rossetto e le guance dipinte. Senza vergogna era da giovane e senza vergogna è rimasta. L’unico figlio suo vive lontano e non la viene mai a trovare. Lei si sente sola e così va sempre a tormentare quel poveraccio del marito e gli parla di fesserie per ore. Da vivo gli ha riempito la capoccia di corna ed ora che è morto gliela riempie di chiacchiere.
Ma il peggiore di tutti è il Cavalier Casotti, fanfarone e cascamorto tale e quale al fratello Emilio. Quando mi vede si toglie il cappello e comincia: “Ma come ve trovo bene signora Adelina”, “Ve andrebbe nu caffè signora Adelina?”, “Ieri so stato a ballare, perché qualche volta nun ce venite pure voi signora Adelina? Se nun ve reggono le gambe ve reggo io”
Chi gliel’ha data tutta questa confidenza? Se il bastone non mi servisse per camminare gliel’avrei già spaccato su quella capoccia pelata, razza di scostumato!
E’ proprio vero: gli uomini sono tutti uguali e dai quindici ai novantacinque anni pensano sempre a quella cosa là.

Tutti uguali tranne Augusto mio. Lui sì che era una persona seria, un uomo per bene come non ne fanno più. Era serio ma non era mica nu baccalà, aveva il sangue caldo anche lui e a letto sapeva fare il suo dovere, lo sapeva fare eccome. Sei figli m’ha dato. Tutti maschi e tutti sani e forti come tori.

Eccolo là. Quant’è brutto. Appena la vidi glielo dissi subito: “Augù, sta foto è cuscì brutta che te la metterò sulla tomba”.

Continua...
Voi non sarete mica di quelli col pollice verde?
Io no.
Per le piante io non sono Pancrazia ma Napalm.
Io porto morte e distruzione.
Non vorrei ma lo faccio.

Non sono mai stata un'appassionata di botanica, ma il mio talento da devastatrice è diventato palese solo nell'ultimo anno. Anno che mi ha visto per la prima volta vivere da sola. Da sola con le piante che amici e parenti mi hanno regalato per festeggiare il nuovo domicilio.

Non ho più potuto affidare alle cure degli altri le mie verdi amiche.
Non ho più potuto incolpare il freddo di montagna o gli inquilini distratti per la morte prematura della flora casalinga.
Negli ultimi 10 mesi sono stata l'unica responsabile della vita breve e della morte precoce di tutte le piante di casa mia.

Niente, non è sopravvissuto niente.

Sempreverdi, stelle di natale, piante grasse, secche, finte magre, tutte sono state abbattutte dalla mia impietosa scure.

Ad inizio aprile ho regalato delle margherite a mia sorella.
"Quanto durano?" ho chiesto al fioraio.
"Tutta la primavera" mi ha risposto.
Ne ho preso un vaso anche per me.

Quelle di mia sorella sono vive e vegete.
Le mie...





Niente, non sopravvive niente.

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