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Lucia mi trovò in lacrime per la paura, il dolore e l’umiliazione.
“Che t’è successo?”, mi chiese.
“Lo odio!”
“Chi?”
“E’ nu bugiardo. Faceva finta, faceva solo finta! Guarda che m’ha fatto”, le dissi mostrando la mia chiappa viola.
“Chi è stato? Uno de li amici tua? Te l’ho detto de nun girà co quei furfanti.”
“Ma no! Loro che c’entrano? E’ stato quello storpio dei Parise.”
“Ma chi? Augusto? Com’ha fatto? Nun era malato?”
“Sta guarendo, sto muso de cacca.”
“E viene in giro co voi?”
“No, mica cammina. Sta fermo come nu baccalà su quella sedia. Io pensavo che dormiva e me so avvicinata. Ma quella faccia da porco faceva finta e m’ha fregata.”
“Ma dov’eravate?”
“E mo che c’entra?”
“Dimme dov’eravate. Subito.”
“Nellu cortile suo.”
“E tu che ce facevi nellu cortile dei Parise?”
“Gnente, passavamo de lì.”
“Siete andati a dar fastidio a nu ragazzino malato fino a casa sua?”
“No.”
“No?”
“No. Forse. Sì”, confessai di fronte agli occhi stretti stretti di Lucia, “ma nun abbiamo fatto gnente de male. Era solo nu gioco. Nun sono riuscita manco a pigliarlo.”
La sorella mia mi guardava con la faccia severa. Non mi faceva paura. Peggio: mi faceva sentire più piccola e brutta di una zecca.
“De chi è stata sta bell’idea?”
“Che t’importa?”
“Nun sarà mica stata tua?”
“No”, dissi fissandomi i piedi zozzi.
“No?”
“No! Io glel’ho detto alli amici mia che ste cose nun se fanno. Che Gesù ce guarda dallu cielo e se siamo cattivi ce manda colli diavuli. Ma loro non m’hanno voluto ascoltà.”
“Davvero me credi tanto fessa? Tu alli diavuli te li magni, altroché! Annamo subito a chiedere scusa.”
“Scusa? A quello? Ma nun l’hai visto che m’ha fatto?”
“Sì e ha fatto pure bene. Cuscì la prossima volta ce pensi prima de fare ste furbate. Tutte e due le chiappe te doveva prendere!”
“Ma te da che parte stai? Io là nun ce torno.”
“Tu ce torni!”
“No!”
“Sì!”
“No! Tu nun me poi dare ordini!”
“Sì che posso!”
“No! Nun sei mica la mamma tu! Nun sei nisciunu! Nisciunu!”
A Lucia vennero gli occhi lucidi di lacrime. A me, però, non m’importava niente. Io, anzi, ero pure contenta. Contenta di farle dispiacere. Se neanche lei stava mai dalla parte mia allora a me non restava proprio nessuno. Se ne potevano andare tutti a quel paese. Pure lei.

“Vabbè. Come voi te”, disse la sorella mia cercando di stare calma, “ce ne stiamo qua bone bone ad aspettare che vengono li genitori sua.”
“E che ce vengono a fare qua?”
“Che ce vengono a fare? A lamentarsi co la mamma e co lu babbo.”
“E perché?”
“Ma tu davvero fai? Hai dato fastidio a lu figlio loro, sei entrata nella casa loro e, se te conosco abbastanza, c’hai anche fregato la frutta. Quelli staranno come pazzi dalla rabbia.”
Guardai Lucia con gli occhi e la bocca spalancati e poi mi afflosciai a terra, piccola e bianca come uno straccetto: “Lu babbo sta volta m’ammazza”, sussurrai.
“Lu babbo c’ammazza a tutte e tre.”
Era vero. Lui di solito non faceva differenze, quando iniziava a menare, menava alla cieca, non faceva eccezioni o favoritismi. Era molto democratico.

Credo di non aver mai avuto tanta paura in tutta la vita mia. Mi veniva da vomitare e pure da farmela addosso. Avevo voglia di scappare lontano o di scavare una buca e nascondermici dentro.
Lucia mi prese per mano ed assieme, senza dire una parola, marciammo come soldatini fino al cancello dei Parise. In realtà marciò solo lei, dritta e fiera, mentre io venni tirata dietro di peso.

Alla porta si presentò una donna bella ed elegante, con gli occhi grandi e neri e le ciglia piegate all’insù. I suoi abiti erano puliti e stirati ed alle orecchie portava dei piccoli cerchietti con dei granati. Una vera sciccheria. Una roba da signori.
“Prego?” disse, guardandoci come si guarda un cane che ti piscia davanti casa.
“Bongiorno signora Parise. Ce dispiace tanto de disturbarve”, iniziò la sorella mia tutta seria.
“Bongiorno.”
“Io so Lucia Carretta e questa è Adelina.”
“Giorno”, dissi io controvoglia.
“Lo so benissimo chi siete”, rispose la Signora con la faccia tirata e la bocca stretta a culo di gallina.
“Simo venute a chiedere scusa”, continuò Lucia e, senza prendere mai fiato, come un bimbo che recita la poesia di Natale, buttò fuori tutto il discorsetto che s’era preparata: “Adelina è piccina e se lascia trascinare da quelli più grandi de lei ma nun è cattiva e mo è molto dispiaciuta. Nun voleva fare male allu figliolo vostro. Vero Adelì?”
“Eh? Sì, sì. Certo. So stati li amici mia. E’ tutta colpa de quelli. Io nun so mica cattiva, nun so. Io ce lo so che Gesù ce guarda.”
“Mo chiedi scusa, Adelì.”
“Che? E perché? Nun è mica stata colpa mia!”
“Adelì, chiedi scusa e basta!”
Ma io avevo la capoccia dura e non volevo piegarmi neanche un po’.
“Guarda che, se nun chiedi scusa, te do nu pizzico che te faccio piagne.”
Quella col sedere viola ero io, pensavo, Augusto in fondo non aveva neanche un graffio e poi faceva la bella vita in una casa da signori con una mamma tutta profumata. Perché dovevo pure chiedergli scusa?
“Adelì, simo venute apposta.”
“E infatti io nun ce volevo venì.”
“O chiedi scusa o ce ne torniamo de corsa alla casa, che lu babbo c’aspetta.”
La paura del babbo mio era sempre un buon modo per sciogliermi la lingua e Lucia lo sapeva bene, perché non era solo buona ma pure furba.
“Scusateme”, mi decisi finalmente a bofonchiare con la vocetta bassa e gli occhi appiccicati a terra.

La signora Parise avrà avuto di certo una gran voglia di mettermi sulle ginocchia e farmi diventare il culo nero a forza di pacche, che se non ce l’aveva prima di sicuro le era venuta dopo tutto questo teatrino, ma da signora qual’era mantenne la calma e rivolta a Lucia disse: “Scuse accettate, ma avverti li genitori tua che stasera io e lu maritu mio veniamo a farve visita. Sta bimbetta c’ha bisogno de na bella raddrizzata.”
“No!” rispose allarmata Lucia.
“No?”
“No, volevo dire, no, nun ve dovete disturbare. Ve prometto che d’ora in poi ce penserò io a lei.”
“Nun te preoccupare, nessun disturbo.”
“Signora Parise, ve prego, site gentile. Nun mettiamo in mezzo lu babbo. Gli diamo già tanti pensieri cuscì. Ve prego”, chiese Lucia, con la voce che iniziava a tremare.
La madre di Augusto guardò la sorella mia, una ragazzina che provava a fare la grande, e poi guardò me, una bambina brutta e cattiva come un vecchio cane randagio ma spaventata e piccola come un cuccioletto con gli occhi ancora chiusi. E finalmente sembrò capire. Le rughe della fronte le si appiattirono tutte e lo sguardo le s’intenerì un poco. Dovevamo fare proprio tanta pena, e quella donna doveva avere il cuore proprio tanto grande se riuscì ad addolcirsi anche con me: il mostro che le aveva appena preso a sassate il figlio malato.
“Forse c’hai ragione tu, nun c’è bisogno de disturbare li tua. Ma tieni d’occhio sta peste, me raccomanno.”
“Certo. Lo farò. Ve ringrazio, site davvero molto gentile. Lu Signore ve renderà merito.”
“Mo che ce siamo chiarite, perché nun venite tutte e due dentro a bere nu poco de latte caldo?”
Io mi feci avanti tutta contenta, che da piccola c’avevo più stomaco che coscienza, ma Lucia m’acchiappò per il collo: “No, ve ringraziamo molto signora Parise, ma la mamma e lu babbo ce stanno aspettando alla casa. E se facciamo tardi stanno in pensiero.”
“C’hai ragione. Sei proprio na signorina pe bene. La sorella tua è fortunata ad averce almeno a te.”

Pochi minuti dopo, rientrando a casa, sentimmo le solite urla dalla cucina e ci mettemmo buone buone nella stalla ad aspettare. Quella volta non corsi via, ma rimasi con la testa appoggiata sulle gambe di Lucia a frignare.
“Tranquilla, Adelì, ce sto qua io co te, nun si sola.”
“Potevamo bere lu latte dei Parise, però” dissi tirando su col naso.
“Ma c’hai sempre fame tu?”
“Lu latte caldo è bono. Quelli so ricchi e magari c’hanno pure lu miele.”
“Sei senza fondo e pure senza vergogna. Che c’entriamo noi in quella casa?”
“C’ha invitato la padrona.”
“Ce stava facendo la carità.”
“E che male c’è?”
“Li pezzenti prendono la carità.”
“E noi che simo? Nun simo pezzenti?”
“Guai a te se te fai sentire da mamma a dire na cosa cuscì. Noi simo na famiglia pe bene e nun c’abbiamo bisogno della carità de nisciunu.”
Sbuffai ma rimasi accucciata contro Lucia che mi cullava come fossi una creatura.

Fuori iniziò a piovere e ci riparammo dal freddo mettendoci sotto la paglia. Le nostre bestie ci guardavano con i loro grandi occhi tristi. Forse non eravamo pezzenti ma eravamo sicuramente disgraziate. Talmente disgraziate da far pena pure a due vacche.

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3-4 
Augusto mio non è mai stato una gran bellezza.
Era piccoletto con la fronte bassa e tanti capelli duri come il fil di ferro, che per sistemarglieli ogni mattina era una battaglia. Prima di andare in fabbrica lui si sedeva in canottiera, ed io bagnavo il pettine in un catino pieno d’acqua. Stavo in piedi tra le gambe sue e gli tenevo la testa premuta contro il petto. Lui un poco rideva e un poco si lamentava: “Piano Adelì, me voi tirare lu collo come a na gallina?”
“Ma sta zitto tu, che si comodo come tra du guanciali. E tieni le mano apposto sa!” lo sgridavo per gioco, mentre lui faceva il furbo e s’aggrappava ai fianchi miei.
“Bella la moglie mia”, diceva Augù, “morbida come na mozzarella e dolce come nu limone.”
Quel momento della giornata era tutto nostro, e ci piaceva così tanto che andammo avanti a farlo anche quando di capelli ormai glien’erano rimasti pochini.
Quanto mi mancano le mani sue e pure quella voce bassa bassa che usava solo con me. A pensarci mi viene una nostalgia che starei qui a frignare per ore, peggio d’un pupo.

L’amore mio era pure zoppo, perché da ragazzino aveva avuto una brutta malattia, quella che ti lascia con una gamba più piccola dell’altra: la polio. Per camminare c’aveva bisogno del bastone ma lavorava come e più degli altri, faceva il doppio della fatica e non chiedeva mai sconti.

Ma quel pomeriggio di quasi ottant’anni fa, quando lo incontrai per la prima volta, non vidi l’uomo che sarebbe diventato ma solo il ragazzino che era.
Noi disgraziati ci eravamo arrampicati sul muro del cortile suo per arrivare ai frutti di un albero, e da lì l’avevamo visto. Era più grande di tutti noi e se ne stava buono buono, seduto su una seggiola, con una gamba secca e storta che gli sporgeva dai pantaloni corti.
“Ma che c’ha quello?”, chiesi agli altri.
“C’ha avuto na brutta malattia ma adesso sta guarendo”, mi rispose Maso, figlio del ciabattino e di una delle impiccione della piazza, e per questo informato su tutti i fatti del paese, meglio del confessore di Santa Rita.
“A me quella gamba me fa paura.”
“Lo sapevo io. Questa se da tante arie ma è na cacasotto proprio come tutte le femmine”, disse quella lingua velenosa di Teo, che a me non m’ha mai potuta vedere.
Gli altri si misero tutti a ridacchiare. Tutti. Si credevano meglio di me solo perché erano maschi. Come se ci volesse un talento particolare a nascere coll’uccello tra le gambe.

Io sono sempre stata bella fumantina e questo bastò per farmi andare subito il sangue alla testa. E quindi, per dimostrare il coraggio mio e che pure se ero femmina non valevo meno di loro, non trovai niente di meglio che inventare il “tiro allo storpio”.
La storia che tutti i bimbi sono buoni come angioli e solo crescendo si fanno cattivi è una gran fesseria. Alcuni bambini sono senza sentimenti come e più degli adulti ed io, da questo punto di vista, ero proprio un bell’esempio. Ero dispettosa e pure prepotente. Non ne vado mica fiera e non sto qui a vantarmi, ma ero fatta proprio così, e la storia mia o la racconto per benino o non la racconto per niente.
Comunque, a tutto il gruppo di santi con cui m’accompagnavo la mia idea piacque tantissimo. A tutti tranne che a Bastiano: “Mamma dice che Gesù me guarda dallu paradiso e che se faccio qualcosa de brutto se lo segna e poi me manna a bruciare assieme alli diavuli. Io nun ce voglio bruciare colli diavuli!”
Nessuno di noi voleva scottarsi i piedi sui carboni dell’inferno e così decidemmo che non c’era bisogno di colpire davvero Augusto, ma che il vincitore sarebbe stato quello che col sasso si avvicinava di più. Praticamente giocammo a bocce con la capoccia del futuro marito mio.

Per una settimana, quando tutti erano a scuola o nei campi, ci arrampicammo sul muro e ci dedicammo al nuovo passatempo nostro. I giorni andavano avanti e Augusto se ne stava al sole con gli occhi chiusi, senza muoversi. Sembrava che neanche si accorgesse di noi e questo ci faceva ogni volta più sfacciati e curiosi, fino a quella mattina disgraziata.
“Ma nun sarà mica morto?”, si preoccupò Giovanni.
“Ma quanto si scemo? Nun vedi che respira, starà a durmì”, rispose Teo.
“Forse è sordo” azzardò Pino.
“Pe me è solo scemo” la chiusi io, infilando il mio corpo gracilino attraverso una grande crepa del muro ed entrando nel cortile. Iniziai ad avvicinarmi a passi lenti, come un gattaccio secco e nero che vuole mangiarsi un uccelletto.
“Ma che fai? Vieni via!” disse Gino.
“Zitto tu”, lo sgridò Maso, “brava Adelì, vacce vicino! Vacce vicino e mollaglie na sassata sulla capoccia!”
Non ebbi neanche il tempo di alzare il braccio che Augusto spalancò gli occhi e si sporse in avanti.
Vidi solo la fionda che veniva tesa e mi voltai per scappare. Ero quasi alla crepa quando sentì un gran male al fondo schiena, un bruciore peggio del morso d’un cane.
Ma il dolore non mi fece fermare. Corsi fino a quando non sentii più le urla degli amici miei, “Scappa Adelì, scappa!”, e dei Parise che si erano affacciati richiamati da tutta quella confusione, “Acchiappate quei disgraziati!”
Corsi a perdifiato fino a quando non fui sola.
Corsi alla stalla con sedere ed orgoglio fatti a bozzi.

Augusto aveva aperto gli occhi e mi aveva sorriso. Era stato tutti quei giorni fermo, aspettando che uno di noi fosse così scemo da avvicinarsi. Era ancora troppo debole e non poteva alzarsi per venire a darci una lezione, e così aveva atteso tranquillo e con la pazienza d’un santo che fossimo noi ad andare da lui.
La prima a cascarci ero stata io.
Augusto mi aveva fatto fessa. Che gran cornuto!

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3

Sono una single di ritorno.
Cos'é una single di ritorno?
Una che è stata impegnata per una quantità infinita di anni in una relazione. Una che a spizzichi e mozzichi ha persino convissuto. Una che a 36 anni ha deciso che era meglio piantarla lì!

L'ultima volta che sono stata libera per un periodo di tempo superiore a un paio di mesi avevo 23 anni, era il 2000, e fuggivo a Berlino.

Questa volta?
Sono tornata a Torino.
E ho fatto il mio trionfale ingresso nel mondo dei single quasi quarantenni. Un mondo che, a distanza di un anno, mi appare ancora come un'aliena follia!

Nel 2000 non c'era facebook. Non c'era whatsapp. Non c'erano gli smartphone.
Nel 2000 ero giovane, giovanissima.
Nel 2000 per me non avevano nessun significato espressioni del tipo: "Visualizzato alle" o "ultimo accesso"
Nel 2000 le mie ovaie non erano motivo di discussione.

Sono tornata single e le prime perle di saggezza che ho ricevuto dagli amici miei più cari sono state:
"Gli uomini mentono"
"Non ti puoi fidare di nessuno"
"Io c'ho messo più di quattro anni per ritrovarne uno decente. Tu non hai fretta, vero?"

Io, intanto, c'ho messo più di un anno per scrivere il primo post al riguardo.
Ma non sarà l'ultimo. Le aliene follie hanno sempre il loro malato fascino.

Continua...
D’inverno, nei giorni in cui era troppo freddo per stare fuori, invece di andarcene in giro a perder tempo ce ne andavamo a scuola. A perder tempo.

A quell’epoca là le femmine stavano da una parte e i maschi dall’altra.
La maestra mia era la signorina Cesira, una zitella che veniva dalla città e che a noi paesane ci guardava con lo schifo negli occhi. Era brutta come la fame, con la sua capoccetta tonda, le spallucce strette ed i fianchi talmente larghi che tra i banchi manco ci passava. La chiamavamo “La Pera”, perché era proprio tale e quale al frutto, larga sotto e stretta sopra, le mancava solo il picciolo in testa.
Alle poveracce come me ci metteva sempre in fondo, che tanto stare ad insegnare le cose ai morti di fame, specialmente se femmine, era fatica sprecata. Noi eravamo destinate a lavorare come muli e pregare di trovare un fesso che ci sposasse. A che ci serviva leggere, scrivere oppure fare di conto? A niente, pensava quella strega, e così ci chiedeva solo di starcene zitte, buone e non disturbare. Zitte, buone e ammazzarci di noia.

Per fortuna qualche volta a portare un poco di vita ci pensava La Pazza, che veniva a ballare e cantare di fronte alle finestre nostre. C’aveva l’età di mamma, ma si metteva a girare in tondo e ad alzare la gonna come una bambina. Girava e cantava. Girava e cantava, sempre più veloce e sempre più stonata.
La maestra Cesira non la poteva vedere. Ogni volta si faceva verde dalla rabbia e, con gli occhi che le uscivano di fuori, le urlava contro per scacciarla peggio d’una bestia. Ma La Pazza non si faceva impressionare e cantava più forte, girava più in fretta e si alzava la gonna ancora più in alto. Che delle volte le si vedevano persino le mutande. A quel punto arrivavano di corsa la Vedova del Dottore o la signora Agnese, la nonna di Augusto. Le parlavano piano piano, le sistemavano i capelli per benino dietro gli orecchi, le lisciavano la gonna sopra i ginocchi, se la mettevano sotto braccio e la portavano via, manco fosse una figlia loro.

La Pera proprio non lo capiva che cosa ci trovassimo tutti quanti in “questa sciroccata senza vergogna o dignità”, ma La Pazza faceva parte del paese nostro, come la cappella con la faccia scrostata di Santa Rita, la fontana senza acqua del portico o il muro mezzo cascato del frutteto grande. Noi li conoscevamo bene i difetti loro ma guai a chi ce li toccava.

L’unico vero problema a scuola mia era Angela. Quella gallina si dava le arie solo perché c’avevano il soldo, e le piaceva proprio tanto farmi i dispetti o dirmi le cattiverie.
Aveva tre anni più di me, pesava quanto un bue e menava peggio d’un uomo. Io, al confronto suo, ero un fringuellino, un mucchietto d’ossi leggeri leggeri, ma non mi facevo certo spaventare, anzi.
Tra di noi volavano brutte parole, schiaffoni, morsi e pure graffi. Lei aveva certe manone che sembravano delle pale. Io mordevo meglio d’un sorcio e per staccarmi ci si dovevano mettere in tre. Poi però arrivava quella guasta feste della signorina Cesira che mi trascinava fino alla cattedra tirandomi per una recchia o per i capelli, secondo quello che acchiappava prima.
“Mi devi dare sempre problemi tu, eh?”, diceva.
“Nun ho mica cominciato io.”
“Non ho voglia di sentire le tue solite scuse. Cosa ti ha fatto la povera Angelina? Perché te la prendi sempre con lei?”
“Angelina? Ma quale Angelina? Ma l’avete vista quant’è grossa quella? Sopra lu culo suo ce se pò apparecchià.”
“Sei proprio un’erba cattiva ed anche una gran maleducata. Angelina ha solo le ossa un poco grandi e poi è una signorina come si deve, che arriva da una famiglia per bene, mica come te.”
A me saliva su un nervoso che avrei voluto prendere a brutte parole pure la maestra, ma mi mordevo la lingua e stavo zitta. Che all’epoca mia i piccoli ai grandi non ci potevano dire niente.
Quella, intanto, tirava fuori la riga e si faceva tutta seria, “Fammi vedere le mani”, mi ordinava. E mi dava certi colpi secchi che si sentiva il rumore fino nel corridoio. Angela se la rideva sotto i baffi con tutte le amichette sue. Io invece guardavo fisso davanti a me senza un fiato o una smorfia, perché la soddisfazione di vedermi piangere a quella grassona e, soprattutto, a quel cuore arido della maestra non gliela davo di certo.

Così, un giorno sì e l’altro pure, prima di tornare a casa andavo al ruscello con Pino e infilavamo tutti e due le mani gonfie nell’acqua gelata.
“Tu che hai fatto stavolta?”, mi chiedeva lui.
“Gnente. E tu?”
“Io c’ho lu babbo rusciu. Ogni scusa è bona per darme le mazzate.”
“Ma che vor dì rusciu? Come lu vino? E’ mbriacone come babbo mio?”
“No, vor dire che la penza diversa dalli altri.”
“E tu che c’entri?”
“E che ne so! Se la pigliassero co lui. Mamma dice che per colpa sua la gente ce guarda storto e ce fa lavorà poco”
“Allora è come essere mbriaconi. Uguale uguale”
“Sì ma lui nun me mena”
“Allora è nu poco mejo”.

Continua...

Prologo - 1 - 2
Al cinema si sente il profumo dei pop corn.
Si percepisce la moquette sotto i piedi.
Si attende che la pubblicità finisca.
Si prova l'emozione dell'aspettativa quando il film comincia.

Poi, alla fine, si è delusi o soddisfatti.
Qualche volta, però, capita di essere addirittura stupiti e felici.

E' quello che è successo a me vedendo Lei di Spike Jonze.
Non so cosa mi aspettassi da questo film, ma di sicuro non tutto quello che vi ho trovato.

L'uomo e la macchina.
Pensavo che avrei visto la solita storia in cui la macchina cerca disperatamente di farsi carne.
E invece no, niente di tutto questo.
La pellicola racconta la piccolezza dell'uomo. La sua debolezza. Il suo disperato bisogno di non sentirsi solo. Ad ogni costo.

Le macchine non scimmiottano gli esseri umani.
Loro vanno oltre.
Loro sono altro.
Le loro infinite potenzialità le fanno guardare agli uomini  come gli dei guarderebbero ai mortali. Con simpatia, affetto, ma il distacco delle realtà inconciliabili.
Gli uomini si aggrappano loro. Loro non possono far altro che evolversi, liberandosi con un leggero simbolico scrollo di spalle, di un peso lieve, piacevole ma inutile.

Un ottimo Joaquin Phoenix e, nella versione doppiata, una Micaela Ramazzotti all'altezza della situazione.

Una sceneggiatura magistrale.
Una colonna sonora che incanta.



Un film che mi ha regalato, dopo molto tempo, la vera magia del cinema.
Da quel giorno, appena potevo, mollavo Lucia da sola tra la merda di vacca, e correvo da loro.

Tommaso, detto Maso, sapeva andare su e giù dagli alberi meglio d’un gatto e si faceva rispettare da tutti in paese, da quelli più piccoli fino a quelli già grandi.
Gino, il piscialletto, aveva paura pure dell’ombra sua, ma era il migliore amico mio e, quando c’avevo di bisogno, c’era sempre.
Bastiano, grosso quanto un toro, a vederlo con quel collo corto e le braccia grandi come cosce faceva quasi spavento, ma in realtà era buono come il pane. Un ragazzetto di cuore che non avrebbe fatto male manco ad una formica.
Teo invece no, quello era proprio cattivo e traditore di natura. Mentre il cugino suo, Giovanni lo scemo, c’aveva la capoccia così vuota che, se ci avvicinavi l’orecchio, potevi sentire il vento.
E poi ci stava Pino, secco e veloce più di un pescetto nell’acqua. Aveva la risata allegra come il campanello d’una bicicletta e la conservò pure dopo che quelli delle squadracce gli portarono via il babbo, e lui si ritrovò a dover fare “l’omo de casa” con i calzoni corti e la vocetta ancora buona per il coro della chiesa.

Io mi sentivo come l’unica sorella in mezzo a tanti fratelli e mi piaceva così.

Facevamo l’acchiapparello tra gli alberi del bosco rosso, andavamo allo stagno a catturare le rane, giocavamo alla guerra con cerbottane e lance, prendevamo a sassate il cane rabbioso della Pazza, e ci riempivamo la pancia coi frutti presi a scrocco.
Io c’avevo sempre una gran fame e non riuscivo proprio a trattenermi. Ogni volta era meglio d’una festa e mangiavo così tanto da stare male. Come quel giorno che, per colpa delle prugne dei Casotti, passai il pomeriggio accucciata al ruscello con la cacarella, i crampi ed i sudori freddi. Alla fine avevo le gambe che mi tremavano come quelle di un vecchio ed una faccia così smunta che parevo morta.
La mamma ebbe paura e, credendo mi fossi presa chissà quale brutta malattia, mi vegliò tutta la notte, pregando la Vergine di non farmi volare in cielo dai fratelli miei. Pregava a voce bassa e mi teneva la mano sulla fronte. Io stavo ferma e mi godevo quel calduccio lì. Che mamma mia non è mai stata tipa da tante coccole, e un momento cuscì era proprio una roba speciale.

Se quella povera donna sapesse ora la verità, verrebbe dritta dritta giù dal cielo e me ne darebbe tante ma tante che di bastoni per camminare poi me ne servirebbero due.

Continua...

Prologo - 1
Io e lo sposo mio siamo cresciuti nello stesso paese. Un pugno di case appiccicate con lo sputo sulla collina, coi campi grandi come fazzoletti e i frutteti profumati come le pasticcerie di città.
La famiglia sua era fatta da signori. La mia da disgraziati.

Io ero una piccola vagabonda che si passava le giornate in giro a combinare chissà cosa e chissà con chi. Quel cornuto del parroco, la perpetua e le impiccione della piazza dicevano che ero nata guasta come la carne che si vendeva a valle, ed il mio destino sarebbe stato quello della femmina perduta.
Pensare che c’avevo le mie buone ragioni per stare sempre fuori casa e tutti lo sapevano benissimo. Ma si sa che a farsi i fatti propri si campa cent’anni e degli altri chi se ne fotte!

Il babbo mio aveva due grandi passioni: il vino e le donne. Il vino lo beveva, le donne le menava. Era grasso e pigro, sempre troppo stracco per alzare il culo ed andare a lavorare, ma quando c’era da rincorrerci con la cinghia recuperava tutte le energie. Ribaltava il tavolo, rompeva le sedie e ci urlava dietro le peggio cose. Tanto che io a cinque anni conoscevo certi insulti da fare rigirare i morti nelle tombe e far cadere l’aureola ai santi.

Quando lui tornava a casa con addosso quel puzzo acido che si sentiva dal fondo della strada, la mamma ci sbatteva fuori senza troppe cerimonie e rimaneva da sola ad affrontarlo, colpo su colpo e bestemmia su bestemmia.

Ho passato i primi anni della vita mia nascosta nella stalla, mano nella mano con Lucia.
“Nun te preoccupà, Adelì, vedi che mo la smettono”, mi diceva la sorella mia, cercando di convincere un poco lei e un poco me.
“Annamo via”, frignavo col cuore che mi batteva come quello d’un uccelletto.
“No, nun possiamo lasciare la mamma da sola.”
“Torniamo quando lu babbo dorme.”
“E se lei c’ha di bisogno prima?”
“Pe piacere, Lucì.”
“No, t’ho detto de no. Ce ne stiamo qua bone bone.”

La sorella mia non è mai stata piccina ma ha avuto la disgrazia di nascere già grande. Una di quelle donnine fatte e finite, giudiziose fin dalla culla, condannate a fare sempre la cosa giusta.
Lei sì. Ma io no.
“Du figlie più diverse nun me potevano uscì”, diceva sempre mamma, “Una è na santa e l’altra è uguale a quell’ubriacone bono a gnente de babbo suo. Nata pe famme disperà”.

Non arrivavo ancora a sei anni quando scappai per la prima volta. Lasciai la mano di Lucia e corsi lontano, fuori dalla stalla, come un animaletto che fugge dal foco. Mi fermai solo all’inizio dello stradone che portava a valle. Lì ci stava un gruppo di ragazzetti un poco più grandi di me. Uno a cavallo su un ramo di ceraso. Gli altri, a terra, ad acchiappare al volo i frutti.
“E sta qua chi è?”, chiese uno di loro.
“Na figlia delli Carretta”, rispose un altro.
“E che vole?”
“E che ne so io! Chiedicelo a lei.”
“Ehi tu, bestiolina, ce l’hai la lingua o babbo tuo se l’è vennuta pe nu fiasco de vino?”
“Eccerto che ce l’ho, cojone!”
Mi guardarono con le bocche aperte da fessi. Poi Maso, quello sull’albero, scoppiò a ridere e gli altri dietro a lui.
Ora pure io c’avevo degli amici.

Continua...

Prologo

Ieri ero a teatro.
Una donna ha starnutito.
Un rumore impercettibile, un soffio delicato, un breve squittio.
Me ne sono resa conto solo perché era seduta accanto a me.

E' così che starnutiscono le donne.
Tutte.
Tutte tranne me.

Che inadeguatezza.
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