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Il mio rapporto con il calcio ha avuto i suoi alti e i suoi bassi.
Grande passione giovanile, cocente delusione dell'età adulta.
Ora è poco più di un rumore di fondo nella mia bacheca facebook, un fastidioso brusio da far tacere con un click.

Ma il Mondiale no. Il Mondiale è altra cosa.
Il Mondiale è un appuntamento che ogni quattro anni porta con sé ricordi ed emozioni. Segna il cambiamento di un paese, la vita di una famiglia, ed il passaggio attraverso le diverse fasi dell'esistenza.

Il primo che ricordi è quello del 1982.
Avevo solo 5 anni e per la finale ci riunimmo tutti dagli zii.
C'erano confusione, urla, e poi quel tizio in televisione. Quel tizio che correva, correva e gridava. Sul momento non capii se fosse felice o disperato, e cercai i volti dei grandi per avere una risposta. Erano tutti in piedi, ridevano e si abbracciavano. Loro erano contenti. Anche lui doveva esserlo.
Quel tizio era Tardelli.

Ricordo che nella confusione mio cugino Marco, che ai tempi era un pupo di due anni legato come un salame al passeggino, mi strappò la piccola bandiera dell'Italia dalle mani, rompendo con un sonoro TAC! la minuscola asta a cui stava attaccata. Io prima cercai di strangolarlo poi, impeditami l'impresa dal resto della famiglia, reagii con una crisi di pianto inconsolabile. A riportare la pace ci pensò, contro ogni previsione ed episodio precedente, il collerico zio Nino. Egli si affrettò a compiere le dovute riparazioni, presumo con il legnetto di un ghiacciolo (li chiamavo stick allora), e a rendermi così nuovamente felice.

Grazie a tanta solerzia, potei festeggiare adeguatamente durante il tragitto del ritorno a casa. Per strada c'erano confusione, clacson, e il mio piccolo tricolore esposto fuori dal finestrino di mia madre. Eravamo sulla nostra 127 verde. Senza finestrini posteriori, cinture di sicurezza, o seggiolini per bambini.

Era un'Italia incosciente ed innocente. Gli anni più brutti sembravano messi definitivamente alle spalle. Avevamo Pertini, Toto Cutugno e Paolo Rossi. Non desideravamo di più.

“Bene, adesso possiamo andare”, disse la Vedova del Dottore aspettandomi sulla porta.
“Ma...”
“Cosa?”
“Signò...”
“Dimmi, cosa c’è?”
“Nun è che posso restà qua?”
“E perché mai?”
“Sapete com’è, pensavo, mamma mia se sveglia presto e a quest’ora starà già a dormì. Meglio che nun la disturbiamo. Me metto qua, guardate, a lu fondo de lu letto. Me faccio piccola piccola”, dissi cercando di accartocciarmi ai piedi della Pazza.
“Non se ne parla proprio, alzati, quel letto non è abbastanza grande per due e poi figurati se tua madre va a dormire senza aspettarti.”
“Fatemi lu piacere, dateme retta, che se la svegliamo a mamma mia le viene la luna storta.”
“Ma sentimi un po’, signorina, da quando tempo è che manchi da casa?”
“Nu poco.”
“Un poco quanto? Due ore? Mezza giornata?”
“Da stamattina”, dissi a bassa voce e con gli occhi incollati al pavimento.

“O Maria Vergine, tua madre sarà fuori di sé dalla preoccupazione.”
“Appunto. Nun posso restare qua, cuscì pe sto giro magari nun ne busco?”
“Ma figurati. Ora basta con le chiacchiere e corriamo subito a casa tua. E stai serena: tua madre sarà così contenta di rivederti sana e salva che si dimenticherà di essere arrabbiata.”
“Certo e li porci voleno”, dissi rassegnata, mentre mi trascinavo controvoglia verso il destino mio.

Lungo tutta la strada la Vedova cercò di chetarmi, “non ti devi preoccupare”, mi diceva, “per una mamma i figli sono la cosa più importante che c’è”, ripeteva, “e anche se ti da un paio di schiaffetti credi, in tutta onestà, di non esserteli meritati?”
Un paio di schiaffetti? Quella donna era bella, elegante, profumata e buona come il pane ma non sapeva proprio di cosa stava parlando. A casa mia non volavano mica gli schiaffetti, in casa mia piovevano botte da orbi. E pure se mamma non aveva le manone del babbo era comunque capace di farti piangere. La buonanima, sempre ubriaco, menava a caso e spesso mancava il bersaglio ma lei no. Lei era precisa come nel ricamo e se ti voleva piglià ti pigliava secca come una fucilata, non c’erano santi. Quella volta che il babbo s’era venduto i conigli lei l’aveva aspettato per ore e, quando era arrivato, gli aveva tirato una bottigliata da lontano che il farmacista gli aveva dovuto mettere i punti. Ecco, se mia madre era stata capace di spaccare mezza faccia a quel gigante di babbo mio a me, che ero piccola come un topolino, che mi poteva fare?

Arrivate alla porta, io dissi sottovoce un’Ave Maria e la Vedova del Dottore, dopo avermi fatto una carezza sulla capoccia, bussò. Quando mamma aprì, e si trovò di fronte quella peste della figliola sua con accanto una delle signore più fini del paese, rimase un attimo senza parole. Poi però si riprese e, dopo avermi fatto volare dentro con una pedata, “Fila in camera tu, che dopo facciamo li conti!”, rimase a parlare fitto fitto in cucina con la nuova ospite.

“Era ora”, disse Lucia appena mi vide, “mamma stava come na pazza.”
“Sì, l’avevo capito”, risposi accarezzandomi la chiappa acciaccata.
“Se pò sapere dove si stata tutto lu giorno?”
“In giro.”
“Ma c’era da faticà.”
“Me so presa na vacanza.”
“Na vacanza? Questa proprio nun se pò sentì. Nun lo dire a mamma che sennò te se magna!”
“Ma tu lo sai che la casa della Pazza dentro nun è tanto sporca e che lu cane suo nun è sempre cattivo e che la Vedova del Dottore è mejo de na santa?”
“Ma che stai a inventà? Io nun te capisco.”
“E lo sai lu nome della Pazza?”
“No che nun lo so.”
“Se chiama Annamaria.”
“E a te chi te l’ha detto?”
“Lei, mo è amica mia!”
“Ecco, giusto la Pazza ce mancava a te.”

Nel frattempo la Vedova se n’era andata e la mamma ci aveva raggiunte in camera. Io me ne stavo seduta sul letto con la capoccia bassa, aspettando che iniziassero a piovere schiaffoni come sassate. Lucia, accanto a me, mi teneva la mano tanto stretta da farmi scricchiolare gli ossi. Non c’avrebbe avuto mai il coraggio di mettersi in mezzo, ma manco il cuore di lasciarmi da sola.
“Tu si proprio na testa matta, sfaticata come babbo tuo! Hai visto che succede ad andare in giro come na zingara? Se nun era pe quella santa donna. Nun ce vojo manco pensà! Da domani se cambia e se c’è di bisogno te lego pure come nu cane. Mo fila a dormire: veloce!”, mi disse mamma con la faccia seria e pallida, che pareva più vecchia di dieci anni.

M’infilai di corsa nel lettone che, da quando babbo era morto, avevamo preso a dormirci tutte assieme. Io in mezzo e loro due ai lati. Mamma mi tirò la coperta fino sotto al mento, brontolò per un altro poco e poi si mise a russare peggio di un trattore scassato.
“Manco nu buffetto t’ha dato. Ma che è successo, Adelì?”
“Nun lo so. Magari sta stracca e me mena domani.”
“C’ho avuto tanta paura quando nun t’ho vista tornare pe magnà.”
“Ho magnato dalla Pazza. La Vedova c’ha fatto na zuppa bona da morì.”
“Ma la finisci d’inventarte storie?”
“Nun so storie, è tutto vero!”
“E allora spiegame che c’entra na Signora cuscì co quella poveraccia mezza svitata?”
“E che ne so io.”
“Vabbè, comunque promettime che nun lo fai più, che nun te ne vai più in giro.”
“Lo prometto.”
“Croce su lu core?”
“Croce su lu core, che me possano venì li vermi nella pancia.”
“Maronna che schifo! Solo a te te pò uscì n’idea cuscì.”
“Più l’idea è schifosa più lu giuramento è vero.”
“Se lo dici tu. Bonanotte.”
“Ma tu lo sapevi che la Pazza nun è scema come sembra?”
“Ancora? Dormi Adelì che domani c’abbiamo da faticà.”
“E’ tutta strana, pare na bambinetta, ma nun è scema proprio pe gnente.”
“Notte”, ripeté Lucia già mezza addormentata.
“La vedova del Dottore ha detto che la nonna era bella e bona e che io c’ho li occhi sua. Tu lo sapevi? Te la ricordi nu poco Lucì? Lucì? Lucì? Vabbè, ho capito, bonanotte.”

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6-7- 8 - 9 - 10- 11
Il mondo mi conosce.
Il mondo mi ama.
Inutile nascondersi dietro falsa modestia: io sono il preferito di tutti.
Di tutti tranne lui. Mio zio. Un tiranno che ha approfittato di me per tutta la vita.
I lavori più indegni sono sempre stati miei. I mestieri più faticosi sono sempre stati affar mio.
Sfruttato. Sfruttato e malpagato. Questo sono sempre stato io.
Eppure siete tutti pazzi di me. Di quello sfortunato e arrabbiato. Buffo ai vostri occhi.

Altro che buffo! Io sono furioso per la mia vita d'inferno in cui nulla è mai andato per il verso giusto.
Persino tre nipoti  a carico mi sono capitati! Io, che ho sempre fatto fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, ho dovuto sfamare per anni quelle saccenti sanguisughe.
Non ci avrebbe potuto pensare la nonna? Con la sua grande fattoria e i quintali di cibo sfornati ad ogni ora del giorno?
O non ci avrebbe dovuto pensare lo zio? Col suo deposito zeppo di monete tintinnanti, le sue miniere, la sua immensa fortuna?
E invece no, sono toccati a me. Piccoli, affamati e rompicoglioni!

Quante volte avrei voluto mandare tutti al diavolo, ma mi è sempre mancato il coraggio. Il coraggio di alzare la voce. Il coraggio di far valere i miei diritti. E sì, anche il coraggio di liberarmi di quella frollata di Margherita, la mia fidanzata storica. Una virago col culo grosso!

Ma da oggi tutto cambia, ne siate testimoni!
Il vecchio e la vecchia hanno tirato le cuoia. Tutti e due a distanza di poche ore.
Il tempo necessario di avvelenare l'uno e poi l'altra. Il tempo necessario per far ricadere la colpa su quello stronzo di Gastone.

Da oggi, ciò che era loro è finalmente mio.
I miei giorni oscuri da buffo, sfortunato pennuto sono finalmente terminati.

Stappo il chinotto.
Alzo il calice.
Fate lo stesso anche voi. Brindate con me.
Dopo 80 anni di sfiga, oggi si celebra il mio nuovo inizio!
La zuppa era densa e saporita. La Vedova sembrava una regina: metteva un pezzo di cavolo e un poco di brodo nel cucchiaio e se li portava alla bocca senza far cadere neanche una goccia. La Pazza invece succhiava direttamente dal piatto facendo un gran baccano, che neanche babbo mio ne aveva mai fatto così tanto. 

“Come va il ricamo?”, mi chiese la Signora. Che nel paese nostro si sapeva sempre tutto di tutti, e persino i ricchi sapevano cosa succedeva nella casa dei morti di fame e viceversa.
“Me fa schifo.”
“Non si dice così. Non è educato.”
“Come no?”
“Devi dire che non ti piace.”
“Ma nun è che nun me piace, me fa schifo proprio.”
“Strano, nella famiglia di tua madre hanno sempre ricamato tutte. Tua nonna poi aveva una mano così fine e delicata.”
“Ve conoscevate?”
“Certo, Ada era bella e gentile.”
“Bella come Lucia mia?”
“Tua sorella? Sì, in effetti la ricorda molto, ma i begli occhi scuri di Ada li hai ereditati tu. Quegli occhi grandi e svegli sono proprio quelli di una ricamatrice, su queste cose io non sbaglio mai.”
“Ma faccio schifo a ricamare.”
“Cosa hai detto?” mi corresse seria.
“Nun so brava, nun so brava pe gnente.”
“Ci vuole tempo. Anche il marito mio, buonanima, mica è nato dottore. Ha studiato tanto e a forza di studiare è diventato il più bravo da qua fino alla valle. Anche tu devi impegnarti e smettere di andartene a spasso. Le ragazzine per bene non se ne vanno in giro di sera.”
“Sì, vabbè, ma io mica so tanto pe bene.”
“Chi ti ha detto una sciocchezza simile?”
“Lo dicono tutti. L’hanno detto quelle allu funerale dellu babbo mio e poi lo dice pure la mamma de Gino.”
“Certa gente dovrebbe cucirsi la bocca. Tu sei la nipote di Ada e lei era una signora come si deve, che pulite e gentili come lei ce n’erano poche. Quindi anche tu sei una signorina per bene. Ci devi mettere solo un poco d’impegno in più e dare più retta a mamma tua.”
“Pur’io so na signorina pe bene?” chiese la Pazza, con la bocca piena e un pezzo di patata che le scivolava giù dal mento lasciando una striscia di bava.
“Certo, tesoro, anche tu.”
A sentire dire queste cose da qualcun altro avrei pensato che ci stava a prendere in giro. Ma la Signora no. Lei parlava sul serio. E a pensarci adesso il cuore ancora mi si allarga.

“Mentre rassetto, mettila a letto, per cortesia. Così poi corriamo subito da tua madre. Sarà così preoccupata, povera donna”, mi disse la Vedova iniziando a sparecchiare.
Io m’avvicinai un poco confusa alla Pazza che s’era già infilata sotto le coperte e mi guardava fissa coi suoi grandi occhi da ranocchia.
“Ma che devo fa, Signò?”
“Raccontale qualcosa. Una storia, una filastrocca, quello che vuoi tu.”
“Ma io nun conosco nisciuna storia.”
“Non ci credo, sei una bambina, non è possibile. Nessuno ti ha mai raccontato una favola?”

Mi girai verso la Pazza e le chiesi: “La conosci Tizzoncino?”
“No.”
“E’ na storia bellissima. Te deve piacè pe forza.”
Mi ci misi d’impegno, ci infilai tutto, compresi vocette e canzoncine, “Spera de sole, spera de sole, sarai Regina se Dio vole!”, volevo fare bella figura con la Vedova, farle vedere quant’ero brava.
“E alla fine Reuccio e Tizzoncino se sposeno.”
“E poi?”
“E poi che? E’ finita.”
“E non li fanno li bambini?”
“Sì, penso de si.”
“E quanti?”
“Nun lo so, la favola finisce cuscì. Se sposeno e basta.”
Ma la Pazza mi guardava con una faccetta così triste che mi s’intenerì il cuore.
“Fanno na figlioletta, va bene?”
“E come se chiama?”
“Pure lu nome voi? Nun lo so. Lucia?”
“No, nun me piace.”
“Adelina?”
“No, che brutto nome!”
“Sarà bello lu tuo!”
“Sì, lu mio è bellissimo. Io me chiamo Annamaria come la mamma mia”, mi rispose tutta orgogliosa.
“E va bene. Ho capito: Reuccio e Tizzoncino fanno na figliola e la chiamano Annamaria. Cuscì te piace?”
“Sì, molto mejo”, mi rispose contenta, poi si girò su un fianco, chiuse gli occhi e si mise a dormire come un pupo.

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6-7- 8 - 9 - 10
Se questo post avesse un titolo sarebbe: l'Annuncio!
Ma un titolo non ce l'ha e, quindi, facciamo senza.

Qual è la cosa più fastidiosa da fare una volta che si è tornati single dopo una lunga lunghissima relazione?
Non lo sapete? Ve lo dico io.
Dirlo agli altri. Coloro che ormai vi consideravano praticamente sposata, a un passo dall'altare o dal reparto maternità.
Dare la lieta novella urbi et orbi. Ascoltare i commenti. Annuire. Rassicurare. Perché "Sì, sto benissimo grazie" e poi "No, non penso che lui si suiciderà", e ancora "Non ti è mai piaciuto? Non era quello giusto per me? E me lo dici ora? Farmi un po' di sana pressione psicologica qualche anno fa, no?"

Non è un caso che i VIP si tolgano il dente con un bel comunicato stampa. Quattro righe e passa la paura!
"Inconciliabili differenze caratteriali...blablabla...rimarremo sempre ottimi amici... blablabla... gli auguro tutto il bene di questo mondo... blablabla", mentre in realtà lei si è chiusa in una clinica riabilitativa e lui è scappato con la baby sitter di 19 anni. Porco!

Ma se non sei famosa e sei "solo" Pancrazia che fai?
Semplice, lo dici a tua madre, ed ella si premunirà di diffondere l'informazione a tutta la famiglia. Farà da invadente ma gradito filtro, risparmiandoti almeno metà del lavoro.
A quel punto a te, o meglio a me, non rimarrà che dirlo agli amici più stretti e lasciare che gli altri lo capiscano da soli.
Tra questi altri, poi, ci saranno quelli che capiranno e taceranno per delicatezza. Quelli che capiranno e chiederanno spiegazioni con sincero interesse. Quelli a cui non parrà vero di poter tuffarsi a pesce in un mare di fattacci tuoi. E, infine, quelli che non capiranno fino a quando, all'ennesima gaffe, glielo dovrai spiegare tu, scandendo le parole e accompagnando il tutto con una presentazione Power Point, che affronti nell'ordine le questioni: come, dove, chi, quando, perché, stato emotivo e fisico attuale delle parti in causa, progetti per il futuro, eventuale presenza di soggetti terzi.

Tra le reazioni degne di nota ricordo la zia che disse: "Era ora: così te ne trovi uno meglio!"
L'amico che mi suggerì: "Il prossimo te lo scelgo io, perché i tuoi gusti sono una schifezza!"
Ma soprattutto colui che passò, in cinque secondi netti, da conoscente sensibile a quindicenne con le fregole: "Davvero? Mi dispiace! Stai bene? Il tuo numero di telefono è sempre lo stesso? Quando ci vediamo? Che fai sabato?"

Continua? Certo che continua.
C’avevo la paura che mi si mangiava da dentro, che manco riuscivo a girarmi.
Rimasi con i piedi piantati a terra e il fiato chiuso nel petto, fino a quando non sentii quella brutta voce.
“Che ce fai in giro a quest’ora piccolè?”
Era Romano.
Uno dei compagni di bevute del babbo, col faccione tondo come una forma di cacio e quattro capelli unti appiccicati alla capoccia. Stava a un passo da me e puzzava come una vacca morta.
“Gnente”, gli risposi facendomi un poco indietro per non sentire quell’odoraccio schifoso.
“Nun lo sai che so pericolose ste strade pe na signorina tutta sola?”
“E infatti mo me ne vado alla casa.”
“Perché nun vieni a farte nu giretto co me invece?”
“No, mejo de no. Mamma m’aspetta.”
“E lassamola aspettà n’altro pochetto.”
“Nun posso, quella starà già come na pazza.”
Non capivo che volesse quell’ubriacone da me, ma c’avevo una vocetta nella testa che mi diceva di andarmene. E pure di corsa.
“Nun c’avrai mica paura de me? Tranquilla piccolè, che nun te faccio gnente”, disse Romano accarezzandomi il viso con la mano che gli puzzava di piscio.
“Che schifo! Lassame stare!” 
“Nun fare tanto la difficile sa!” alzò la voce quel porco, smettendo di fare il finto gentile e piantandomi nel braccio le unghiacce sporche.
“Lassame!”
Io tiravo da una parte, lui dall’altra. Io scalciavo e lui rideva. Io m’agitavo e lui stringeva. Stringeva così forte che il segno mi sarebbe rimasto per una mesata.

Per fortuna pure alle disgraziate come me il Signore ogni tanto fa la grazia e manda degli angioli. A me ne mandò uno alto e bello, con gli occhi celesti ed il sorriso buono.
“Ecco dov’eri finita. Ti stavo cercando.”
La Vedova del Dottore spuntò da dietro l’angolo con il vestito nero che non faceva una piega, i capelli raccolti, e gli occhi che guardavano quello zozzo di Romano con tutto lo schifo del mondo.
“Bonasera Signò, che ce fate da queste parti?”
“Stavo cercando questa signorina. E voi che stavate facendo?”
“Volevo riportà sta vagabonda alla casa sua. A quest’ora ste strade nun so’ mica sicure.”
“Quant’avete ragione. Per fortuna la piccola ha incontrato un brava persona come voi, e non uno di quei mezzi uomini che sono capaci di dare fastidio persino alle creature.”
La Signora lo guardava e gli sorrideva. Ad ogni parola lei si faceva più alta e bella. Lui più basso e brutto.
“Non preoccupatevi ci penserò io alla bambina. Vieni qua cara”, mi disse la Vedova ed io le corsi incontro svelta svelta.

Mentre ci allontanavamo le sussurrai: “Guardate che quello v’ha detto na bugia, nun me voleva portare alla casa, nun me voleva portarce proprio pe gnente.”
“Lo so, tesoro, lo so. Ma devi stare serena, è passato tutto adesso.”
“Io sto serena. Nun c’ho paura de gnente io. Se non venivate voi glie davo nu mozzico sul braccio che glie staccavo la carne!”
La Signora mi guardò sorpresa, che una selvaggia come me sicuramente non l’aveva conosciuta mai, ma non disse niente e mi accarezzò il viso sorridendo.
La mano sua profumava di borotalco e sapone.

A pensare adesso a quella sera mi viene la pelle d’oca, ma  all’epoca ero ancora un’animuccia innocente e non avevo mica capito bene cos’avevo rischiato.
Ora però sono vecchia e le porcherie del mondo le conosco bene, e quando passo davanti alla tomba di quel farabutto mi sale una gran rabbia e, se nessuno mi guarda, gli sputo dritto dritto sulla foto.
La carità cristiana non è mai stata  cosa mia, e non possiamo mica nascere tutti eleganti come quella santa donna della Vedova. 

Dopo pochi minuti arrivammo ad una casa che conoscevo da sempre ma in cui non ero entrata mai. Quattro muri con le finestre piccole e zozze, e tanta robaccia abbandonata nel cortile.  Davanti alla porta ci stava un brutto cane rognoso che di solito mi ringhiava contro, ma che quella sera era troppo impegnato a godersi i grattini della Signora per dare retta a me.
“Co voi fa tanto lu cucciolotto, ma sta bestia è proprio na carogna. A me e li amichetti mia cerca sempre de morderce!”
“Strano, con me è dolcissimo.”

Entrate in casa la Signora accese una lampada che stava sul tavolo e poi disse ad alta voce: “Buonasera tesoro, sono venuta a scaldarti la zuppa. Stasera con noi cenerà anche un’amica. Sei contenta?”
Seduta sul letto, in un angolo della stanza, ci stava una femmina tutta concentrata a pettinare il brutto cespuglio che c’aveva sulla capoccia. Una donna fatta e finita con una gonnellina che le copriva a malapena i ginocchi ed un covone di capelli grigi lunghi fino alla vita.
“Ciao”, le dissi.
“Ciao”, mi rispose la Pazza.
“Io so Adelina.”
“Lo so, te conosco. Tu e li amici tua giocate sempre co Puzzo.”
“Co chi?”
“Co Puzzo. Lu cane mio.”
“Se chiama Puzzo?”
“Sì, Puzzo come Puzzolente”, disse sorridendomi e mettendo in mostra una bocca senza denti.
“Che bellu nome”, risposi ricambiando il sorriso.

“Hai fame Adelina?” intervenne la Signora.
“Nu pochetto”, che io fame ce l’avevo sempre, e ci voleva ben altro che un piccolo spavento per farmela passare.
“Bene. Prima mangiamo e poi ti riporto a casa”, e si mise a scaldare un tegame sulla stufa.

La Vedova del Dottore prendeva i piatti, spostava le sedie, puliva il tavolo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Io non ci capivo niente, mi sembrava tutto troppo strano. Mica brutto, ma proprio strano.
“Ma è figlia vostra?”
“No, non è figlia mia.”
“E allora che ce fate qua?”
“L’aiuto.”
“E perché?”
“Perché non dovrei? Lei ha bisogno di me ed io ho bisogno di lei.”
Se penso a quant’ero sfacciata mi viene da diventare rossa come un pomodoro per la salsa. Solo una donna col cuore buono e la pazienza di una santa poteva rispondermi con calma e gentilezza e non sbattermi fuori a calci. Che ai tempi miei, già che un bambino facesse tante domande ad uno grande era una cosa impossibile, figurarsi una pezzente che ficcava il naso nei fatti di una signora.

Continua...

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Il giorno dopo il funerale, appena sveglia, mamma mia mi disse: “Ormai te si fatta grande, è ora che te metti a faticà e che la smetti de startene sempre in giro. Che se te becco ancora a fare la vagabonda te ne do tante ma cuscì tante, che nun te siedi pe na settimana!”
La buonanima di nonna Ada le aveva insegnato a ricamare quando era solo una bambina. Lei aveva fatto lo stesso con Lucia. Ed ora era venuto anche il turno mio.

“Nun so capace”, frignavo col collo storto su una tovaglia.
“Abbiamo imparato tutte, lo farai pure tu.”
“Nun è roba pe me”, insistevo con i diti che mi facevano male e l’umore nero.
“Nun dire fesserie: tu ce l’hai nellu sangue. Tutte le femmine della famiglia mia so ricamatrici.”
“Vor dire che io ho preso dalla famiglia dellu babbo, allora”, ribattevo litigando col filo che mi si attorcigliava tutto e mi faceva uscire pazza.
“Zitta, lavora e nun me fare arrabbià!”
Mai come in quei primi giorni sognai di essere nata maschio con un bel uccello tra le gambe che mi permettesse di farmi i fattacci miei in giro e di lavorare all’aperto. Avrei preferito di gran lunga la fatica dei campi alla tortura del lino, ma purtroppo tra le gambe non avevo un bel niente ed anzi mi stava pure cominciando a crescere il petto.

Io non ci avevo proprio pensato che la vita mia, dopo la morte del babbo, sarebbe cambiata così tanto. Credevo solo che senza di lui saremmo state tutte più serene, mica che mi sarei ritrovata chiusa in casa col sedere incollato alla sedia e gli occhi alla stoffa. Una vita così mi sembrava pure peggio delle botte e, dopo quasi due mesi, mentre mia madre stava fuori a dare da mangiare alle galline e Lucia era al lavatoio con le lenzuola, io feci il giro da dietro la stalla e quatta quatta me ne scappai via. Mica pensavo di non tornare più e di andarmene chissà dove. In realtà non pensavo proprio niente, non m’ero fatta dei progetti o cose così. C’avevo avuto l’occasione, m’avevano lasciato la porta della gabbia mezza aperta ed io ero corsa via. Come la solita bestia che ero.

Ci misi mezza giornata per trovare gli amici miei: al frutteto grande non ci stava nessuno, la casa di Ines era stata tutta sbarrata, e nel bosco rosso c’erano solo i Casotti a caccia di lepri.
Ormai stavo quasi per perdere la speranza quando trovai Teo e Giovanni dietro alla cappella del camposanto. Quei due angioli, tutti corna e zoccoli, stavano cacciando le lucertole. Le pigliavano per la coda, gli davano una bella sassata sulla capoccetta verde, le aprivano in due e poi le svuotavano come dei pescetti.
“Ma che schifezze fate?”
“Guarda nu poco chi ce sta: la sartina nostra”, disse Teo.
“Sartina ce sarà sorella tua.”
“Ma nun eri a faticà?”, mi chiese Giovanni.
“Me so presa na vacanza. Dove so li altri?”
“Li altri chi? Ormai nun ce sta più nisciunu. Semo rimasti solo li mejo”, mi rispose Teo tutto soddisfatto.
“E Maso?”
“Babbo suo se l’è preso a bottega, cuscì l’ha finita de darsi tante arie quellu scemo. E pure Bastiano sta pe i campi a faticà come nu mulo.”
“E Pino?”
“Coglie frutta co lu zio.”
“De già? Ma lui è ancora piccoletto.”
“Nun c’ha più lu babbo e mo deve pensarce lui alla famiglia sua.”
“Gli è morto lu babbo pure a lui?”
“No, nun è morto, se lo so’ portato via.”
“Chi?”
“E che ne so.”
“Ma perché?”
“Quante domande fai Adelì! Perché era nu cojone che nun sapeva starse zitto, cuscì m’ha detto lu babbo mio.”
A quei tempi di queste cose non ci capivo niente ma a pensare che qualcuno s’era portato via il Signor Mariotti, che con me era gentile e a Pino gli diceva sempre “Ad Adelì la devi trattare bene che è na signorina”, mi sentì pungere gli occhi, così girai i tacchi e lasciai quei due alle torture loro.
“Do vai Adelì? Tu ce poi stare co noi, mica s’imbranata come quello scemo de Gino”, cercò di fermarmi Giovanni.
“Lasciala stare a quella. Noi nun c’abbiamo bisogno de nisciunu. De nisciunu! Le femminucce c’hanno lo stomaco troppo delicato”, mi urlò dietro Teo e scoppiò nella sua brutta risata, che era uguale uguale al verso di un porco.

Quei due avrebbero passato tutta la vita assieme. Il gatto e la volpe. Il braccio e la capoccia. Lo scemo e il cattivo. Se ne andarono via dal paese negli anni ‘60, prima un poco di tempo nell’alta Italia e poi in Germania.
Teo è morto vecchio e grasso, con più soldi che capelli, una casa grande quanto una chiesa e una macchinona che manco quelli del cinematografo. Giovanni, invece, è andato al Creatore a quarant’anni senza uno spicciolo in saccoccia ma con un bel buco tra gli occhi vuoti.

Con lo stomaco ancora tutto girato andai a cercare Gino al forno di famiglia e lo trovai che giocava per strada con i fratelli suoi più piccoletti.
“Ce ne andiamo a farce nu giro?”, gli chiesi.
“Certo”, mi rispose tutto contento.
“Vieni in casa Gino”, si mise di mezzo la mamma sua. Un donnone col petto enorme e il carattere da generalessa.
“Ma stavo pe famme nu giretto co Adelina.”
“Vieni in casa, ho detto, nun me lo fare ripetere. Co l’amica tua ce ne devo parlà io.”
Lui mi guardò e sollevò le spalle: “Me spiace, ce vediamo n’altra volta”, e strascicò i piedi fino al cancello di casa.

“Vie qua ragazzè”, mi fece segno la signora Fiorucci, con le mani sui fianchi e le ascelle puzzolenti in bella vista.
Io, che già lo sapevo di non starle simpatica proprio per niente, mi avvicinai con la faccia scura e una gran voglia di litigare.
“Perché dai fastidio a lu figliolo mio?”
“Nun glie do mica fastidio.”
“E nun me rispondere, sa!”
“Ma se nun devo rispondere che me lo chiede a fa’?”
“Gino mio è nu bravo figliolo e nun se deve rovinare a girare co una come a te! Staglie lontano, capito?”
Una come me?
C’avevo solo dieci anni, ero più candida di un lenzuolo di bucato e quella stronza mi chiamava “una come a te”?
Con la faccia rossa di rabbia e gli occhi che buttavano fuoco gli urlai con tutta l’aria che c’avevo nel petto: “Ma chi lo vole allu figlio suo? Se lo pò tenere stretto alle tettone quel piscialletto de Gino. E poi lo sanno tutti che li Fiorucci c’hanno l’uccello piccolo e nun li vole nisciunu!” e scappai via di corsa.
Come si permetteva quella di trattarmi così? Quanto volte avevo salvato il sedere a quell’imbranato del figliolo suo? Non lo sapeva lei? Non sapeva che ero io che avevo preso a sassate il vecchio della vigna, quando questo aveva trovato Gino a fregarsi l’uva e l’aveva rincorso con un fucile? Non sapeva che ero io a fargli da scaletta quando quel culo pesante non riusciva a salire sugli alberi? Non sapeva che ero io che mi fermavo ad aspettarlo quando nelle corse rimaneva dietro a tutti, si teneva la mano sul fianco e manco ce la faceva a respirare?
Quella non sapeva niente ma dava lo stesso aria ai brutti denti marci suoi.

Avevo avuto proprio una bella idea a prendermi quel giorno di vacanza: a casa mi aspettava mamma con le mani che le bruciavano dalla voglia di farmi nera di schiaffi e io avevo passato comunque una giornata talmente schifosa che quasi quasi mi mancava il ricamo. 


S’era ormai fatto buio ed io me ne stavo ferma davanti a casa di Ines, a fissare la macchia scura di sangue dove c’era rimasto secco babbo mio, quando l’aria fredda che scendeva dalle montagne portò un puzzo che non sentivo da due mesi. Prima sentì l’odore acido e poi il respiro pesante dietro di me. Il sangue mi si fermò nelle vene ed il cuore mi salì fino al collo.

A voglia a non crederci agli spiriti, “E’ tornato lu babbo a prenderme pe portarme dalli diavuli”, pensai.

Continua...

 Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6-7- 8

La vita è un domino.
Una serie di coincidenze che ti fanno andare da un posto all'altro, da un incontro all'altro.
A te viene chiesto solo di continuare a muoverti, dire molti "Sì", e pochi ponderati "No".

Ad esempio, se lo scorso autunno... anzi no, è necessario che io parta ancora prima.
Ad esempio, se nel 2000 non fossi andata a festeggiare quel Capodanno in quel posto e con quella gente, quasi 14 anni dopo non avrei riconosciuto quel nome tra i protagonisti di uno spettacolo. E non sarei andata a vedere tale spettacolo.

Se lo scorso ottobre non fossi andata a quella serata, non avrei scoperto nuovi incroci e casi incredibili. Inoltre, la settimana seguente, non sarei andata a vedere un altro show. Show che, in realtà, non ebbe luogo poiché c'era più gente sul palco che in platea.
Ma, del resto, se quello spettacolo si fosse fatto probabilmente non sarei andata a bere quella birra, non avrei accresciuto il mio numero di contatti su facebook e, mesi dopo, non avrei visto il trailer di facce da palco sulla mia bacheca.
Di conseguenza, non avrei scritto "Tu, per caso, conosci qualcuno dell'organizzazione?"
E, dopo 10 secondi, non mi sarei trovata in chat con Nathalie Bernardi, madre, presentatrice, folle ispiratrice di tutto l'ambaradan.
Quindi, il giovedì seguente, non ci saremmo viste. E io, sicuramente, non sarei diventata la blogger ufficiale del talent.

Se tutto ciò non fosse accaduto io non avrei incontrato tutta la bella gente che ho incontrato e sabato scorso, molto probabilmente, non mi sarei trovata alla prima di "Non di sola parola". 
Uno spettacolo fatto di danza, musica, poesia, immagini, luci, ombre, e parola. Ma non di sola parola, appunto.
Teatro danza arricchito dai versi di Alda Merini. Ispirato al suo talento e alla sua sofferenza. 

Foto di Sergio Sasso

Quattro donne, con il corpo e le voci, ci hanno raccontato parte della sua storia.
Una storia di dolore, sensibilità, e maternità.
Un dolore femminile e vivo.
Una femminilità sensuale, fatta di naturalezza e gioco, mai squallido calcolo. 

Le parole e la vita di Alda Merini sono un ricco patrimonio.
La compagnia teatrale delle paperelle scampate (Nathalie Bernardi, Sabrina Fraternali, Deborah Gallo),  con la partecipazione di Francesca Puopolo, la supervisione di Marilisa Bruno, le musiche di Emanuele Francesconi e Valentina Faith Guida, i video di Simone Tizzi, e le luci di Lorenzo Privitera, riesce in uno studio che è un omaggio. Una trasposizione che si fa dolorosa carne.

"Non di sola parola" è un'ora che incanta, scava e, allo stesso tempo, vola via.
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