“Prego, accomodateve”, disse mamma mia, liberando le sedie dalle pezze e i rocchetti, “porta sta roba de là, Adelì, e restace”.
“Ma mamma...”
“Sciò, veloce, nun te lo fare dire du volte.”
Scacciata, peggio di una mosca fetente, strascicai i piedi fino in camera e poi cercai una posizione buona per stare a sentire i fatti da grandi. Ero una ragazzetta ma mica una scema e ce lo sapevo che quella visita doveva essere una faccenda importante. A noi non ci veniva mai a trovare nessuno, figurarsi i Parise.
Da dove stavo messa, col muso infilato tra lo stipite e la porta, riuscivo a vedere solo metà della cucina e pure i discorsi m’arrivavano a smozzichi.
“Avrei preferito na scelta diversa,” cominciò Ottavio Parise, “ma c’ho nu figlio co la capoccia tosta.”
Il babbo d’Augusto se ne stava seduto stravaccato, con le gambe distese in avanti, i pollici infilati nelle bretelle e lo stomaco tutto all’infuori. Per fortuna mamma l’aveva fatto mettere sulla vecchia sedia del babbo che era bella rinforzata e, se aveva retto quel ciccione per tanti anni, poteva reggere pure questo per qualche minuto.
“Augusto è sempre stato lu preferito della bonanima de mamma sua e quindi lo voglio fare felice per rispetto a lei.”
La bella signora Parise era morta due anni prima e da quel momento il marito era diventato cliente fisso de “le due Carlone”. Mamma e figlia che vivevano in una baracca lungo il fiume e tenevano l’azienda a conduzione famigliare con grande soddisfazione dei ragazzetti curiosi, i vecchi porci, e gli uomini più devoti di tutti i paesi vicini.
Il signor Ottavio continuava a portare il lutto stretto ma pure a dire: “lu core se l’è portato in cielo l’amore mio, ma lu resto me l’ha lasciato qua e faccio peccato mortale se nun lo uso”.
Se non fosse stato che a noi Carretta ci ha sempre trattate come le peggio pezzenti, a me babbo Parise sarebbe stato proprio parecchio simpatico. Perché uno sfacciato così o lo prendi a bastonate sulla capoccia o ti ci fai una gran risata assieme, una di quelle che ti devi tenere le gambe strette per non fartela addosso.
“Io c’ho intenzioni serie”, dichiarò Augusto, che quella sera era riuscito perfino ad essere più brutto del solito. E non era mica una cosa facile. Per l’occasione s’era messo il vestito buono, ma i pantaloni gli andavano corti e dall’orlo tagliato male gli spuntavano le caviglie pelose: quella normale e anche l’altra, quella secca secca, che mi faceva tanta impressione.
“Se me sposo me tocca nu pochetto de terra”, aggiunse, mentre cercava con gli occhi Lucia, che si guardava fissa la punta delle scarpe.
“Che ne pensi figlia mia?” chiese mamma, che ci provava a fare la signora ma si capiva benissimo che non si teneva più da quant’era contenta.
“Dovete decidere voi. Io faccio quello che mi dite voi.”
“Avete sentito com’è educata Lucia mia? Nun è solo bella ma tanto pe bene e rispettosa” aggiunse, come manco un vaccaro alla fiera delle bestie.
Soldi, terra, galline, ova e corredo. I due vecchi andarono avanti a parlare per un’ora buona. I due giovani invece non fecero più un fiato. Ed io mi morivo di noia e preoccupazione con il sedere ghiacciato e i ginocchi incriccati. Lucia mia c’aveva sto viziaccio di fare sempre la santa e ci dovevo pensare io a difenderla, a salvarla da quel mostro, a convincere mamma nostra a cambiare idea. Manco per un secondo mi passò per la capoccia che la sorella mia potesse essere contenta di sposarsi. Non l’avevo sentita lamentarsi, sbattere i piedi ed urlare ma lei certe cose non le faceva mica. Certe cose le facevo io e quindi era compito mio quello di salvarla dallo storpio.
Appena quei due se ne andarono per tornare alla casa loro, corsi in cucina. Lucia, sentendomi arrivare, si voltò verso di me, “Adelì, Adelì, me sposo!”, disse con gli occhi che le brillavano. Ma mica di lacrime. Di felicità.
Lei rideva e io stavo lì, con la bocca spalancata dalla sorpresa.
“Me sposo, te rendi conto?”
E la bocca mi restava aperta come a una fessa.
“Hai capito?” e mi prese le mani per girare in tondo come non facevamo neanche da piccine.
Mamma camminava avanti e indietro, “Che soddisfazione”, ripeteva, “la bimba mia. Che soddisfazione. Se c’era nonna Ada chissà quanto era felice mo. Che soddisfazione. Soldi ce ne stanno pochi, ma nun dobbiamo farce ridere dietro da nisciuno. Basterà fare qualche sacrificio de più. Sarai bellissima, figlia mia, moriranno tutte d’invidia. Che soddisfazione.”
A me sembrava di essere finita dentro un brutto sogno, uno di quelli che ti ci vuole un pizzico bello forte per svegliarti. Mamma e Lucia stavano tra lo zucchero ed io in mezzo alla merda di vacca. Proprio non riuscivo a capire che c’era da essere tanto contente. I Parise c’avevano la puzza sotto il naso, Augusto era zoppo, e babbo suo era un gran puttaniere. Che festeggiavamo a fare?
Dopo che questa serata da pazzi finì e ci trovammo finalmente sdraiate nel lettone, io mi feci coraggio e sputai fuori la domanda che mi tenevo dentro: “Ma perché Lucia deve sposare quellu storpio schifoso?”
Non l’avessi mai detto. Non ebbi neanche il tempo di vederlo arrivare ma sentì solo l’aria che si spostava. Mamma mia mi mollò uno schiaffone che, a ripensarci adesso, ancora mi brucia mezza faccia.
“Guai a te se lu dici n’altra volta. Tu si solo na ragazzina, che ne voi sapè? Sto matrimonio è na benedizione. Devi sempre farme arrabbiare, vero? Te ce diverti?” disse e poi mi voltò le spalle sbuffando e mugugnando, “Ma che ho fatto de male? Mai na soddisfazione. Figlia de babbo suo. Nata pe farme stare male”.
Io piansi in silenzio, al buio, per il dolore e l’umiliazione.
La sorella mia mi abbracciò stretta stretta e mi sussurrò all’orecchio: “Nun te devi preoccupare pe me: Augusto è nu bravo ragazzo.”
“Quello è cattivo come lu demonio! Te lo ricordi che m’ha fatto?”
“Sì e me ricordo pure quello che te hai fatto a lui.”
“E allora?”
“Quel sedere viola te lo sei proprio meritato e lo sai benissimo.”
“È brutto come lu peccato e con quel piede sembra arrivato dritto dallo inferno.”
“Nun è cuscì male. E poi nun è mica colpa sua se è stato malato.”
“Te ne puoi avere cento meglio de lui.”
“Io so senza dote: è na vera fortuna che c’è almeno Augusto che me vole.”
“Tu si bella come na regina: è normale che quellu sgorbio te vole.”
“Proprio nun voi capire? Nun sarà bello ma è n’omo serio ed è questa la cosa più importante. Lui me vole sposare pe davvero ed io n’occasione cuscì nun la voglio perdere”, e mi voltò le spalle pure Lucia mia.
“Ma che bisogno c’hai de sposarte?”
“Voglio na famiglia.”
“Io e mamma simo la famiglia tua.”
“Voglio dei figli.”
A questo non avevo proprio niente di buono da rispondere e così continuai a piangere, in silenzio, da sola, tra due schiene dritte.
Continua...
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“Ma mamma...”
“Sciò, veloce, nun te lo fare dire du volte.”
Scacciata, peggio di una mosca fetente, strascicai i piedi fino in camera e poi cercai una posizione buona per stare a sentire i fatti da grandi. Ero una ragazzetta ma mica una scema e ce lo sapevo che quella visita doveva essere una faccenda importante. A noi non ci veniva mai a trovare nessuno, figurarsi i Parise.
Da dove stavo messa, col muso infilato tra lo stipite e la porta, riuscivo a vedere solo metà della cucina e pure i discorsi m’arrivavano a smozzichi.
“Avrei preferito na scelta diversa,” cominciò Ottavio Parise, “ma c’ho nu figlio co la capoccia tosta.”
Il babbo d’Augusto se ne stava seduto stravaccato, con le gambe distese in avanti, i pollici infilati nelle bretelle e lo stomaco tutto all’infuori. Per fortuna mamma l’aveva fatto mettere sulla vecchia sedia del babbo che era bella rinforzata e, se aveva retto quel ciccione per tanti anni, poteva reggere pure questo per qualche minuto.
“Augusto è sempre stato lu preferito della bonanima de mamma sua e quindi lo voglio fare felice per rispetto a lei.”
La bella signora Parise era morta due anni prima e da quel momento il marito era diventato cliente fisso de “le due Carlone”. Mamma e figlia che vivevano in una baracca lungo il fiume e tenevano l’azienda a conduzione famigliare con grande soddisfazione dei ragazzetti curiosi, i vecchi porci, e gli uomini più devoti di tutti i paesi vicini.
Il signor Ottavio continuava a portare il lutto stretto ma pure a dire: “lu core se l’è portato in cielo l’amore mio, ma lu resto me l’ha lasciato qua e faccio peccato mortale se nun lo uso”.
Se non fosse stato che a noi Carretta ci ha sempre trattate come le peggio pezzenti, a me babbo Parise sarebbe stato proprio parecchio simpatico. Perché uno sfacciato così o lo prendi a bastonate sulla capoccia o ti ci fai una gran risata assieme, una di quelle che ti devi tenere le gambe strette per non fartela addosso.
“Io c’ho intenzioni serie”, dichiarò Augusto, che quella sera era riuscito perfino ad essere più brutto del solito. E non era mica una cosa facile. Per l’occasione s’era messo il vestito buono, ma i pantaloni gli andavano corti e dall’orlo tagliato male gli spuntavano le caviglie pelose: quella normale e anche l’altra, quella secca secca, che mi faceva tanta impressione.
“Se me sposo me tocca nu pochetto de terra”, aggiunse, mentre cercava con gli occhi Lucia, che si guardava fissa la punta delle scarpe.
“Che ne pensi figlia mia?” chiese mamma, che ci provava a fare la signora ma si capiva benissimo che non si teneva più da quant’era contenta.
“Dovete decidere voi. Io faccio quello che mi dite voi.”
“Avete sentito com’è educata Lucia mia? Nun è solo bella ma tanto pe bene e rispettosa” aggiunse, come manco un vaccaro alla fiera delle bestie.
Soldi, terra, galline, ova e corredo. I due vecchi andarono avanti a parlare per un’ora buona. I due giovani invece non fecero più un fiato. Ed io mi morivo di noia e preoccupazione con il sedere ghiacciato e i ginocchi incriccati. Lucia mia c’aveva sto viziaccio di fare sempre la santa e ci dovevo pensare io a difenderla, a salvarla da quel mostro, a convincere mamma nostra a cambiare idea. Manco per un secondo mi passò per la capoccia che la sorella mia potesse essere contenta di sposarsi. Non l’avevo sentita lamentarsi, sbattere i piedi ed urlare ma lei certe cose non le faceva mica. Certe cose le facevo io e quindi era compito mio quello di salvarla dallo storpio.
Appena quei due se ne andarono per tornare alla casa loro, corsi in cucina. Lucia, sentendomi arrivare, si voltò verso di me, “Adelì, Adelì, me sposo!”, disse con gli occhi che le brillavano. Ma mica di lacrime. Di felicità.
Lei rideva e io stavo lì, con la bocca spalancata dalla sorpresa.
“Me sposo, te rendi conto?”
E la bocca mi restava aperta come a una fessa.
“Hai capito?” e mi prese le mani per girare in tondo come non facevamo neanche da piccine.
Mamma camminava avanti e indietro, “Che soddisfazione”, ripeteva, “la bimba mia. Che soddisfazione. Se c’era nonna Ada chissà quanto era felice mo. Che soddisfazione. Soldi ce ne stanno pochi, ma nun dobbiamo farce ridere dietro da nisciuno. Basterà fare qualche sacrificio de più. Sarai bellissima, figlia mia, moriranno tutte d’invidia. Che soddisfazione.”
A me sembrava di essere finita dentro un brutto sogno, uno di quelli che ti ci vuole un pizzico bello forte per svegliarti. Mamma e Lucia stavano tra lo zucchero ed io in mezzo alla merda di vacca. Proprio non riuscivo a capire che c’era da essere tanto contente. I Parise c’avevano la puzza sotto il naso, Augusto era zoppo, e babbo suo era un gran puttaniere. Che festeggiavamo a fare?
Dopo che questa serata da pazzi finì e ci trovammo finalmente sdraiate nel lettone, io mi feci coraggio e sputai fuori la domanda che mi tenevo dentro: “Ma perché Lucia deve sposare quellu storpio schifoso?”
Non l’avessi mai detto. Non ebbi neanche il tempo di vederlo arrivare ma sentì solo l’aria che si spostava. Mamma mia mi mollò uno schiaffone che, a ripensarci adesso, ancora mi brucia mezza faccia.
“Guai a te se lu dici n’altra volta. Tu si solo na ragazzina, che ne voi sapè? Sto matrimonio è na benedizione. Devi sempre farme arrabbiare, vero? Te ce diverti?” disse e poi mi voltò le spalle sbuffando e mugugnando, “Ma che ho fatto de male? Mai na soddisfazione. Figlia de babbo suo. Nata pe farme stare male”.
Io piansi in silenzio, al buio, per il dolore e l’umiliazione.
La sorella mia mi abbracciò stretta stretta e mi sussurrò all’orecchio: “Nun te devi preoccupare pe me: Augusto è nu bravo ragazzo.”
“Quello è cattivo come lu demonio! Te lo ricordi che m’ha fatto?”
“Sì e me ricordo pure quello che te hai fatto a lui.”
“E allora?”
“Quel sedere viola te lo sei proprio meritato e lo sai benissimo.”
“È brutto come lu peccato e con quel piede sembra arrivato dritto dallo inferno.”
“Nun è cuscì male. E poi nun è mica colpa sua se è stato malato.”
“Te ne puoi avere cento meglio de lui.”
“Io so senza dote: è na vera fortuna che c’è almeno Augusto che me vole.”
“Tu si bella come na regina: è normale che quellu sgorbio te vole.”
“Proprio nun voi capire? Nun sarà bello ma è n’omo serio ed è questa la cosa più importante. Lui me vole sposare pe davvero ed io n’occasione cuscì nun la voglio perdere”, e mi voltò le spalle pure Lucia mia.
“Ma che bisogno c’hai de sposarte?”
“Voglio na famiglia.”
“Io e mamma simo la famiglia tua.”
“Voglio dei figli.”
A questo non avevo proprio niente di buono da rispondere e così continuai a piangere, in silenzio, da sola, tra due schiene dritte.
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