Radio cole
  • Home
  • Laboratorio di Scrittura via Newsletter
  • Adelina
  • Il Mio Progetto
Io vorrei svegliarmi la mattina e trovare Yoda seduto al tavolo del soggiorno.

Vorrei fare colazione con lui, inzuppando pan di stelle nel cappuccino e spalmando nutella sul pan carré.
Vorrei iniziare ogni giornata specchiandomi in quella faccetta verde da tartaruga con le orecchie a punta.
Vorrei che, a scadenze regolari, m'illuminasse il cammino con qualche preziosa indicazione, qualcosa tipo "Molto da scrivere ancora tu hai", oppure "Una raccolta di racconti fare dovrai".

Insomma, io vorrei avere un maestro Jedi.
Voi no?

Del '98 non ricordo nulla. Nulla di nulla. E' impressionante. Tabula rasa. Niente che sia accaduto nel campo, fuori dal campo, o nella mia vita.
Fa quasi paura, anzi no, fa paura sul serio!

Cerco su Wikipedia. Scopro che quello fu il primo mondiale vinto dalla Francia. Francia che ci eliminò ai quarti di finale. Il nostro allenatore era Cesare Maldini. Ok, degli occhi spiritati di Maldini mi ricordo. E anche della Francia. Cantavano l'inno tutti abbracciati e baciavano la capoccia glabra del portiere.

Wikipedia, però, non mi è di alcun aiuto per quanto riguarda la mia vita privata. Faccio mente locale. Nell'estate del '98 uscivo già da mesi con un tizio che si chiamava Massimo. Tizio che sarebbe passato alla storia, alla mia personale storia, con due nomignoli: Magnum P.I., per l'innegabile somiglianza quando decise di farsi crescere i baffi, e Max il Fedifrago, per... e vabbé, che ve lo spiego a fare?


La mattina dopo ci svegliammo pieni di energia.
LAmicoFab era pronto a scoprire finalmente Berlino ed io ero pronta a fargli da guida.
Sì, insomma, forse è il caso che dica la verità. Io non ero piena di energia. No. Io ero divorata dall'ansia da prestazione.

Avete presente quei nonni che esibiscono i loro nipotini, tutti orgogliosi e tronfi? Avete presente quando comincia il circo dei "Fa vedere ai signori come fai questo, fai vedere ai signori come fai quest'altro"? E, soprattutto, avete presente questi nani che, con un legittimo moto di ribellione, invece di recitare la filastrocca "che sanno taaanto bene" si mettono le dita nel naso? Tutte e 10 contemporaneamente. Oppure, invece di dire i colori dell'arcobaleno in inglese, cinese e aramaico, "che le lingue sono taaanto importanti", sillabano a rutti il loro nome di battesimo? Sbagliandolo, per giunta!
Ecco la mia situazione fu identica.
Nonna Pancrazia cercò di far dire la poesiola di Natale a Berlino.
Ma quella fancazzista, anarchica, ribelle della Stadt mi si rivoltò contro.

Non avevo programmato un vero e proprio itinerario, ma mi ero fatta un vago elenco delle cose più importanti da far visitare a LAmicoFab. Elenco che vedeva al primo posto l'arioso viale Unter den Linden.
La sciccosa passeggiata. Il corridoio del lusso. Il tappeto rosso della Berlino Est.
Con Unter den Linden non potevo sbagliare. Andiamo: avevo persino scritto un racconto ambientato lì!

Saremmo partiti dalla Porta di Brandeburgo e poi avremmo passeggiato sotto i tigli.
Un doppio colpo con cui avrei steso LAmicoFab, portandolo al deliquio per la capitale teutonica in 5 minuti.
Tutti dovevano amare Berlino quanto me. Tutti!
Era questa la mia missione.
Era questo il mio piano diabolico.
Era questo il mio inevitabile futuro fallimento.

La Porta, da poco restaurata, appariva di quel biancore perfetto, privo di sfumature e anche di fascino. Così diversa da come l'avevo vista io la prima volta quel lontano settembre del 2000. Non solitaria, imponente, e malinconica, ma bianca come il latte e circondata da turisti. Chiassosi, fastidiosi turisti. Idioti che facevano la coda per farsi fotografare accanto a figuranti vestiti da Superman, Batman o Predator.
"Predator? Che cazzo vi fate la foto abbracciati a Predator? Non siete a Los Angeles. Non state passeggiando davanti al Kodak Theatre. Siete a Berlino. Dannazione! Berlino. Ma che vi dice la testa? E perché Predator non ve la stacca quella dannata testa?" sibilavo a denti stretti peggio di un'invasata.

Unter den Linden fu ancora peggio.
Lavori in corso.
Lavori in corso in ogni dove.
Tutto coperto. Niente visibile.
"Vedi là dietro?" dicevo a LAmicoFab.
"Dove?" mi rispondeva lui.
"Là!"
"Là dove?"
"Là! Se ti pieghi di 30° verso destra, giri la testa di 25° verso sinistra, strizzi gli occhi, apri la bocca, fai una giravolta e falla un'altra volta, dietro quelle due gru potrai vedere la punta del tetto dell'Opera. La vedi???"
"Sìììì bellaaaaaa" mi dava retta il mio compare, dimostrando una commovente fiducia nella riuscita del nostro viaggio.

Infine, per fuggire al dolore e risollevare la giornata, ebbi la brillante idea di andare al Pergamon. Il mio Pergamon. Il museo berlinese che meglio conoscevo e che più amavo. L'edificio tra le cui sale mi ero smarrita e ritrovata mille volte, rapita da tanta antica bellezza.
Ebbene, il Pergamon era in restauro. E credo che lo sia ancora. E credo che lo sarà per sempre. E credo che io non ci metterò mai più piede neanche trascinata per i capelli!
Metà delle sale chiuse. Metà delle opere inaccessibili. Il mio amato Attalo confinato chissà dove!

Non era ancora l'ora del tramonto ed io, nonna Pancrazia, ero già sull'orlo di una crisi di nervi.
Berlino si era messa le dita nel naso, anche quelle dei piedi. Aveva sillabato a rutti nome, cognome e persino numero di telefono. E, da un momento all'altro, avrebbe sicuramente fatto pipì in soggiorno. L'avrebbe fatto se non fosse intervenuto lui.
Lui: LAmicoFab.

Continua...
Pochi giorni prima delle nozze ci fu l’esposizione del corredo. Entravano tante femmine in casa, toccavano le lenzuola, ribaltavano le coperte, si guardavano in giro e ficcavano il naso zozzo dappertutto.

Quel giorno arrivarono le zie, le cognate e pure una cugina alla lontana di Augusto. Non mancò neanche la solita Zaccaria che si portò dietro pure quelle sceme delle figlie sue. Due gemelle con i capelli di paglia, gli occhi storti ed il cervello da gallina. E pensare che la madre non si è mai saputa spiegare come mai i giovanotti non si azzuffassero per portarsele all’altare. Come se qualcuno con un poco di sale nella capoccia potesse davvero desiderare una racchia scema per moglie, una scema racchia per cognata, ed un’impicciona cattiva per suocera.

Lucia, con la calma di una santa, sorrideva e rispondeva a tutte le domande delle Parise che, solo perché venivano da una famiglia di signori, pensavano di poterci trattare come piaceva a loro. Se glielo avessero chiesto, lei probabilmente avrebbe anche aperto la bocca per farsi controllare i denti come si fa coi cavalli. E non perché fosse debole e sottomessa. Proprio il contrario: Lucia era troppo signora nell’animo per dar loro soddisfazione e far capire l’umiliazione che c’aveva nel cuore.

“Bellino sto ricamo, chi l’ha fatto?” chiese zia Caterina, la sorella più grande di Ottavio Parise. Una donna alta alta e secca secca, con la faccia scura e gli occhi tristi. Era diventata vedova presto, non aveva manco fatto in tempo a fare un figlioletto, e se ne stava sempre da sola. Da sola con il rosario tra le mani.
“Io” rispose Lucia.
“Sei brava”
“Ve ringrazio”
“Per fortuna quei ditini sottili e fragili te servono a qualcosa”, si mise in mezzo zia Rita, sorella più piccola della zia Caterina. Bassa e tonda, con le guanciotte piene e rosse come quella di una bimba e la lingua avvelenata come quella di una vipera.
“Ricamo fin da piccola. E’ na tradizione de famiglia”
“Pensavo che la tradizione vostra era quella de ubriacarse e fare li svergognati in giro.”
“No. Nun da parte de mamma”
Lucia é sempre stata brava a lasciare le persone mute con la bocca aperta, senza bisogno di offese o di alzare la voce, ma con una gentilezza ed un’educazione che facevano sentire l’altro piccolo e zozzo. Io, purtroppo, certe raffinatezze non le ho imparate mai.
Anche mamma, come me, era di natura molto più sanguigna e  si mordeva la lingua per non parlare e dire quello che le passava per la capoccia in quei momenti, che altrimenti quelle signore tanto per benino le avremmo dovute tirar su con i sali ed un goccio di vinello.

Io assistevo a questo teatrino con lo stomaco annodato dalla rabbia e, quando non resistetti più, andai fuori a prendere un poco d’aria, che il puzzo delle cattiverie è pure peggio di quello delle bestie.

Nel cortile incontrai Augusto che, dopo essere venuto ad accompagnare la famiglia sua, stava ad aspettare fuori appoggiato al muro della stalla.
“Avete finito?” mi chiese.
“No, le zie tue nun se so ancora divertite abbastanza. Perché nun guardate anche che c’abbiamo in dispensa o date n’occhiata allu pollaio?”
Lui abbassò lo sguardo: “Me dispiace che dovete passare tutto questo.”
“Te dispiace? E allora perché nun entri là dentro e le sbatti tutte de fora?”
“Perché nun posso e Lucia lo sa e lo capisce. C’avrò la terra solo dopo le nozze. Ma una volta sposato nun permetterò mai più a nisciunu de mancare de rispetto a lei, e manco a voi.”
“E come faccio a crederte?”
“Te do la parola mia”, mi rispose pacifico, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Io a certi discorsi non c’ero mica abituata: era la prima volta che qualcuno mi trattava come una persona grande.
Fui talmente sorpresa che decisi anch’io di mantenere una promessa che avevo fatto alla sorella mia qualche sera prima.

“Nun riesci proprio a fartelo piacere?” mi aveva chiesto Lucia mentre stavamo sedute attorno al tavolo a finire l’ultima tovaglia.
“Io nun c’ho niente contro de lui.”
“E allora perché ogni volta che lo vedi metti su na brutta faccia scura?”
“Nun è vero.”
“Sì, che lo è.”
“E va bene, forse nu pochetto. Ma nun te preoccupà, c’avrò la capoccia dura, ma l’ho capito pure io ch’è na brava persona.”
“E allora perché nun si contenta pe me?”
“Io so contenta.”
“E meno male, chissà che faccia c’avevi allora se nun eri felice.”
“Ma che voi da me?”
“Che me dici che c’hai!”
“Nun è gnente de importante.”
“E io lo voglio sapere pure se nun è importante.”
“Va bene. Io te dico che c’ho, ma tu nun devi ridere o arrabbiarte e nun me devi rompere più co sta storia. Va bene?”
“Nun rido, nun m’arrabbio e nun rompo. Te lo giuro.”
“Croce su lu core?”
“Nun simo troppo grandi pe ste cose?”
“Croce su lu core?”
“Croce su lu core che me possino cadere li diti. Fa abbastanza schifo cuscì?”
“Sì.” Feci un bel respiro e poi buttai fuori tutto di filato, “C’ho paura che quello te porta via e che noi nun te vediamo più perché tu diventi na Parise fatta e finita e a noi puzzone nun ce voi vicino.”
“Quasi quasi me verrebbe da prenderte a schiaffi. Ma che si scema? Augusto nun me porta da nisciuna parte. Andiamo a vivere al fondo della strada. Tu sarai sempre la sorella mia. Certe cose mica cambieno. Me ce vedi a passare le giornate mia coi Parise?”
“Me lo prometti?”
“Certo. Croce su lu core, che possa murì bruciata. E tu me la fai na promessa?”
“Che voi?”
“Gli chiedi scusa?”
“A chi?”
“Ad Augusto mio, a chi se no?”
“Scusa? E pe cosa?”
“Lo sai.”
“Ma che scherzi? Nun ce penso nemmeno.”
“Dai, Adelì, io lo so che in fondo c’hai lu core bono e te si pentita.”
“Ma quando mai? Proprio pe niente! Me so pentita de nun averlo mai beccato su quella capoccia dura che se retrova!”
“E’ lui quello co la capoccia dura, mò? Senti senti, lo bue che dice cornuto all’asino. Dai Adelì, nun fare la difficile: te lo chiedo pe piacere.”
“No.”
“Fallo pe me.”
“No e nun fare quella faccia da madonnina crocefissa, che tanto nun m’entenerisci.”
“Adelì…”
“No.”
“Eddai…”
“Marò, quanto si noiosa! E va bene!”
“Grazie, Adelì. Lo sapevo io che c’avevi lu core de burro.”
“Ma famme lu piacere!”

E così quel giorno di fronte alla stalla, mi feci coraggio e, guardandomi i piedi, bofonchiai: “Scusame.”
“Pe cosa?”
“Lo sai. Quella volta. Li sassi. Lu gioco.”
Lui mi guardò stupito: “E’ roba vecchia, nun me lo ricordavo manco più. Nun c’è mica bisogno de scuse ma, già che ce sei, me prometti na cosa?”
“Che?”
“Che, quando sarà ora, gli insegni te alli figli mia ad arrampicarse sull’alberi. Io nun posso e Lucia nun è capace.”
“Certo, te li faccio diventare svelti come li gatti!” risposi tutta orgogliosa, che bravi come me ad arrampicarsi in paese ce ne stavano pochi.
“Però alla fionda ce penso io. Ho una bella mira, te ricordi?” mi disse con lo stesso sorriso da furbo di tanti anni prima.
“Io me ricordo solo che tu si bravo a fare lu finto morto. Quella è la specialità tua!” risposi io arrossendo per l’imbarazzo.
Augusto era sempre bravo a farmi fessa ma, accidentaccio a lui, cominciava pure a starmi simpatico. Almeno un poco.

Mentre mi allontanavo, mi richiamò: “Adelì, ancora na cosa.”
“Che voi?”
“C’ho na domanda da farte”
“Che?”
“Te nun ne sai gnente de nu brutto cane?”
“Quale cane? Noi nun ce n’abbiamo.”
“Lo so, ma na volta so venuto qua e m’è venuto dietro na bestia cattiva. Te nun ne sai gnente?”
“Gnente”, dissi alzando le spalle.

Le nozze si celebrarono il 3 luglio del 1937.
Lucia era tanto bella da far sembrare racchie tutte le spose mai passate nella parrocchia di Santa Rita. Augusto era quasi carino con l’abito della festa ed i pantaloni della lunghezza giusta. Mamma aveva gli occhi lucidi e sembrava più giovane di dieci anni. Mentre io, appena quattordicenne ma già fiorita, ero infagottata in un vecchio vestito che mi stava corto e mi tirava dappertutto. Ero bella e femmina quanto un salame ma non me ne fregava niente: sorridevo contenta e quel giorno mi sembrava di voler bene a tutti, persino ai Parise.
Vedere Lucia mia così bella e felice mi riempiva il cuore e pensare al rinfresco nuziale mi riempiva lo stomaco.
Mamma mia però mi aveva avvertita: “Nun c’è tanta robba, lascia magnà prima li ospiti e tu, se ce ne sono, te prendi solo li avanzi. Me raccomanno.”
Ma io mi ero già messa d’accordo con Gino, invitato perché la madre era cugina alla lontana dei Parise. Lui si sarebbe riempito le tasche di frutta, pagnottelle ed olive e poi ci saremmo nascosti dietro la stalla.
“Ma quant’è bona sta robba?”, gli chiesi con la bocca piena.
“Si, nun è male.”
“Nun è male? Se vede che tu si abituato alli banchetti: beato a te!”
“So contento che siamo ancora amici, Adelì.”
“Pur’io.”
“Te sta bene lu vestito”, disse guardandomi fisso, manco fossi un bel pezzo di faraona.
“Ma che si orbo? Me sta tutto stretto. Fra poco me scoppia.”
“Appunto.”
“Appunto? Appunto che? Maiale, ma dove guardi? La faccia mia è qua sopra, razza de porco!”
“Nun c’è mica bisogno d’offendere, che caratteraccio che hai messo su. Uno mo nun pò manco guardare?”
“No, che nun pò!” 
“Come no? Nun siamo amici?”
“Ma fammi lu piacere! Che c’entra essere amici co guardare lu petto mio?”
Quella volta ci andò meglio dell’altra. Non fummo interrotti dal babbo, ormai morto stecchito da tempo, ma dalla mamma. Lei si arrabbiò tantissimo, non perché ero da sola a chiacchierare con un maschio ma perché avevo le mani e la bocca piene delle delizie preparate per gli ospiti, “A suon di schiaffoni te le dovrei far sputare ste olive. Mi sono costate na fortuna: sciagurata!”, mi urlò all’improvviso facendomi andare tutto per traverso.
Ma quel giorno era troppo speciale per essere rovinato e me la cavai solo con un buffetto.

I parenti dello sposo guardavano noi Carretta come se c’avessimo le zecche ma a noi non c’importava. Quel giorno gli sposi erano felici e noi con loro.

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6-7- 8 - 9 - 10- 11- 12- 13- 14- 15- 16- 17
Ogni anno vado al Salone Internazionale del Libro di Torino. Ogni anno mi diverto un poco di meno. Ogni anno sento puzza di minestra riscaldata.
E i libri? Ogni anno prendo fregature epiche!

Quest'anno no!
O meglio, il divertimento è stato in calo e la minestra tristemente tiepida ma...
Ma? Ma!
Ma essermi fermata a fare un saluto a Ilaria Urbinati ha svoltato il mio Salone.
Prima di tutto: chi è Ilaria Urbinati?
Ignoranti! E' una blogger.
Ma soprattutto è una bravissima illustratrice. Ma brava assai, eh!
E, anche, un'ottima maestra. Colei che ha tenuto i laboratori di disegno che ho seguito lo scorso autunno.
Lei è un'ottima maestra. Io una pessima allieva. Ma questa è un'altra storia!

Dicevo, sono passata a fare un saluto a Ilaria, che era ospite presso lo stand di Compagine.
Cos'è Compagine?
Una piccola, giovane, e fiorente casa editrice. Figlia di Emma Cavigliasso e Andrea Gualano.
E chi è Emma Cavigliasso? Una blogger pure lei!
E chi è Andrea...

Ok, mi fermo, inizia a girarmi la testa!

Vi siete persi?
Pure io!
Per farla breve: sono andata a salutare Ilaria ed Emma.
Ho dato una sbirciata ai titoli proposti dal catalogo di Compagine.
Sono stata subito attratta da "Piglia un uovo che ti sbatto" di Dario Benedetto. Un libro di cui avevo già sentito parlare spesso.

Benedetto è un attore, che porta in giro il proprio spettacolo in ogni dove. Ma proprio ogni dove, eh! Tipo caffè, pub, cinema, salotti, soggiorni, cucinini, stadi, palestre, caselli autostradali e, persino, teatri!
Emma ha assistito a una sua esibizione, è rimasta folgorata, e gli ha proposto di trasformare lo show in un libro. E così è stato!

Un libro di divertimento e poesia.
Che coinvolge e si fa leggere di corsa, pagina dopo pagina, immagine dopo immagine.
Una seduta di psicanalisi pubblica, dove l'autore racconta tic, ossessioni, sogni e deliri.
L'infanzia, le donne, e pure i gatti.
Il tutto accompagnato da una virtuale colonna sonora.

Una volta finito il libro è impossibile non desiderare di andare a vedere anche l'artista dal vivo.
Intanto, vi consiglio caldamente di fare come me: leggete "Piglia un uovo che ti sbatto" di Dario Benedetto, edito da Compagine. Poi andremo a vederlo assieme, ok?

Non vi ho ancora convinto? Ci penserà questo piccolo estratto:

Travis, Flowers in the Windows

Questa canzone la metto nelle giornate in cui posso permettermi il lusso della pigrizia.

Rimango nel letto anche dopo aver spento la sveglia per dodici volte, ogni volta con il sorriso.
Perché già la sensazione di sentirla e poterla annientare con un semplice tasto dà felicità.
Una manciata di dolcissimi secondi prima di alzarmi arrivo a questa conclusione:
«L'immaginazione non è una via di fuga, ma il luogo che vorrei raggiungere».

Ci sono delle donne hawaiane che danzano vicino al letto. Cori anni Sessanta che cantano a ritmo su terzine allegre. Aerei che passano così radenti alla casa che le hostess mi dicono di non alzarmi dal letto, per evitare incidenti. I miei vicini di casa sono i Beatles, che stanno decidendo come concludere Strawberry Fields.
Busso dal muro, sussurrando: «Forever».

In giardino c'è Dio, che invece di camminare sulle acque fa surf nella mia piscina d'appartamento. Mi sorride e mi dice che la caffettiera aspetta solo di essere accesa.
Le tende sono musicali e, a seconda di come le apri, suonano una melodia diversa.
Dall'altra parte del muro, i Beatles protestano:
«Silenzio! Qui c'è gente che lavora!»

Sento che il mio appartamento appartato appartenuto a Partenope comincia a vibrare.
Nel frattempo Dio fa emergere dalle acque della piscina i Beach Boys. Avvicina a loro le donne hawaiane e le terzine allegre a confermare che le vibrations sono davvero good.

Citofona Yoko Ono e tutti fanno finta di non sentirla, tranne John. Ma gli altri lo hanno imbavagliato.
La hostess dell'aereo che passa vicino a casa la prende per gli spessi capelli giapponesi.
La fa precipitare da ottomila metri in casa dei Rolling Stones. Keith Richards aggiunge una stropicciatura al suo viso per la sorpresa.
«Sciogli loro, adesso!», urla la hostess, mentre Yoko compone, con le sue grida di aiuto, una strampalata canzone disarmonica.

Immagino che il lusso della pigrizia sia questo: arriva il tempo che bussa alla tua fronte.
Tic tac.
E tu rispondi:
«Ancora un minutino».
Tolga la canzone, Dottore, o mi assopisco.

Ora vi ho convinto, vero?
Del '94 ricordo Sacchi,...

Buuuuuuuuuuuu! Basta! Non se ne può più!

...ehi cos'è questo rumoreggiare in sala? Cosa c'è che non va?
Aspettate un attimo, non agitatevi, mollate quegli ortaggi, lasciatemi spiegare.
  
Sì, lo so che l'Italia è stata eliminata.
Lo so che a molti di voi, adesso, non frega nulla del Mondiale.
E a molti, probabilmente, fregava poco anche prima.
Ma io di  questi post ora che ne faccio?
Non vorrete mica che li butti?
Sappiate che non ci riesco. Sono tutti lì, tra le bozze, in ordine. Mi fanno tenerezza, non posso cliccare su "elimina". Non ne ho la forza!

Facciamo così, troviamo un compromesso, io li pubblico e voi, se proprio ciò vi fa stare meglio, li ignorate.
Contenti voi.
Contenta io.
Contenti tutti.
Siamo d'accordo?
Allora proseguo, eh?
Grazie.

Del '94 ricordo Sacchi, che odiavo con raro trasporto. Fastidioso, spocchioso, presuntuoso, e un'altra decina di caratteristiche negative che terminano in "oso". Mettete voi quelle che preferite.
L'intera squadra, in realtà, non risvegliava la mia simpatia. Tanto che vidi l'infelice finale facendo i compiti delle vacanze. Può esistere una dimostrazione di disinteresse maggiore di questa?
E per fortuna ero disinteressata perché, altrimenti, non mi sarei mai ripresa da quel rigore!

Partimmo da Malpensa.
All'aeroporto eravamo in tre: io, LAmicoFab, e la sua influenza intestinale. Un virus che lo stava tormentando da più di una settimana, devastandolo nel fisico ma non nello spirito.
"Ma te la senti davvero di venire?" gli chiesi poche ore prima della partenza.
"Certo!" mi risposero lui, le sue occhiaie, e il suo colorito verde ramarro.

La Germania, in quell'occasione, mi regalò l'ennesimo miracolo.
LAmicoFab, appena toccato il suolo berlinese, cominciò a stare meglio. Così lui si poté godere le vacanze, e io smisi di preoccuparmi delle pratiche burocratiche eventuali e necessarie per far rientrare la salma in patria.

Atterrammo a sera tarda. 
Prendemmo l'autobus e poi la metro.
"Lo senti questo profumo?" gli chiesi scendendo verso i binari.
"Sta puzza vorrai dire? Ma che schifo è?"
"Questo è l'odore dell'U-bahn. L'aria densa fatta d'acciaio e fumo. Questa è la vera essenza della città" gli risposi con gli occhi che brillavano di lucida follia. Mentre i suoi cominciavano a brillare di opaco terrore.

Dopo la metro ci toccò fare anche un quarto d'ora a piedi. Due zombie forniti di trolley.
L'unica cosa che ci tenne svegli fu Derrick. Il vecchio teutonico ispettore nella versione parodiata di Tortora e Giusti.

"Harry, chi è meglio? Io o il tenente Colombo?"
"Lei ispettò"
"Si vede il tupè?"
"Mai ispettò"
"Bravo Harry"
Ripeteva senza soluzione di continuità LAmicoFab. Facendomi ridere ogni volta.

Avete capito di cosa sto parlando, no?
No? Agevolo il video.



Eravamo due zombie ridanciani che passeggiavano per le strade deserte di Wedding, "il fiorente quartiere di Wedding", come recitavano i siti più informati.
Questa fu la prima differenza che scoprii rispetto ai miei ricordi. Quello stesso quartiere ai tempi del mio Erasmus era considerato poco più di un dormitorio per sfigati. Ora, a quanto pare, era diventata la nuova frontiera dei giovani artisti alternativi che fuggivano da Prenzlauerberg e Mitte, ormai irrimediabilmente cari e fighetti.

Noi avevamo trovato alloggio tramite internet. In uno di quei siti con le offerte spettacolari.
Dell'infelice scelta mi ero occupata io.
Avevo prenotato una stanza da un privato.
Non molto vicina alla metro.
Quarto piano senza ascensore.
Un proprietario di casa che alle 2 di notte, quando arrivammo, ebbe solo una preoccupazione: mostrarci il prodigio tecnico per cui, appena si accendeva la luce del bagno, partiva anche la radio.
"Oooooooooohhhh che meraviglia!" feci io alla terza dimostrazione, per dargli soddisfazione, interrompere l'esibizione e riuscire, finalmente, ad andare a dormire.

Che volete che vi dica? Io sono ancora convinta che il prezzo fosse talmente buono da meritare qualche piccolo sacrificio. LAmicoFab non del tutto.

Continua...
Augusto tornò a trovarci l’indomani, il giorno dopo ed il giorno dopo ancora. Insomma: ce l’avevamo sempre tra i piedi.

Mamma mia, appena poteva, lo invitava a fermarsi pure per cena, e spesso mi spediva perfino a comprare un poco di carne da aggiungere alla zuppa. Io non ci capivo più niente: noi ci ammazzavamo di fatica per un tozzo di pane e ora buttavamo i soldi per far contento quello lì?
“Augusto è abituato a magnare come se deve”, mi spiegava mamma.
“E nun pò starsene a magnà alla casa sua? Da noi deve venire?”
“Nun me fare incazzà, Adelì, ricordate che lo dobbiamo trattare come nu principe.”

Negli ultimi quattro anni eravamo sempre state solo noi tre intorno allo stesso tavolo. E alla maniera nostra eravamo state felici. Non avevamo avuto bisogno di nessuno, soprattutto non di un altro uomo in casa che si mettesse a fare il padrone. Ora però ci stava questo estraneo, seduto capotavola, a succhiare il brodo dal cucchiaio del babbo.

Ma la cosa che mi faceva venire davvero il nervoso era che più conoscevo Augusto e meno riuscivo a farmelo stare  antipatico. Gliel’avevo giurata da quando mi aveva fatto venire la chiappa viola, ma ora che ero costretta a passarci un poco di tempo assieme dovevo ammettere che non era poi così male. Certo, mangiava quanto noi tre messe assieme, accidenti a lui. Ma era sempre gentile e non si dava manco la metà delle arie che si davano gli altri parenti suoi. E poi aveva un bel modo di guardare Lucia. Il suo era proprio il modo giusto. Non quello furbo di Emilio o quello zozzo degli altri porci del paese, ma quello pulito e sincero che ogni uomo dovrebbe dedicare alla donna sua e che io non avevo visto mai, da nessuna parte, figurarsi a casa nostra.

Sorella mia ricamava e lui la guardava come se stesse facendo un dipinto, sorella mia gli cuoceva la zuppa e lui la tirava su con un risucchio soddisfatto manco fosse un piatto da re, sorella mia gli sorrideva e a lui s’intorcinava la lingua e non riusciva più a parlare come si deve per cinque minuti buoni. Insomma, s’era preso proprio una gran botta, una di quelle serie, una di quelle che delle volte ti fanno far la figura del fesso ma che ti riempiono il cuore.

Ma mentre Augusto guardava Lucia e vedeva una principessa, tutti i parenti suoi vedevano solo un bel faccino con le mani vuote. La sorella mia non teneva neanche un soldo di dote ed ai Parise non poteva portare né uno sputacchio di terra né una gallina zoppa. Ma il corredo sì. Quello lo dovevano portare tutte, pure le pezzenti come noi.
Ora queste cose non si usano più, ma una volta il corredo era un affare serio e le famiglie iniziavano a prepararlo per le figlie femmine quando queste si facevano ancora la pipì addosso. La biancheria doveva essere bella e durare tutta la vita. Le cose non si buttavano mica via al primo buchetto come si fa adesso.

Un corredo completo era una spesa enorme se lo si comprava o un lavoro da pazzi se, come nel caso nostro, lo si preparava a mano. Per risparmiare soldi e fatica mamma passò a Lucia le lenzuola più belle che conservava dai tempi delle nozze sue, ma che non aveva usato mai. Le aveva preparate assieme a nonna Ada, molti anni prima di conoscere il babbo, quand’era una bimbetta e sognava un marito per bene e tanti figlioletti. C’erano ricamati angeli e rose ed erano tanto raffinate che il posto loro non sembrava mica il letto di due contadini in un paesello, ma quello del re e della regina che stavano a Roma.
Tutte noi tre assieme ci occupammo del resto. Lavorammo come dannate per quasi sei mesi. Metà del tempo lo dedicavamo ai mestieri che ci dava la Barbagallo e l’altra metà al corredo della sorella mia. I giorni non erano mai abbastanza lunghi, gli occhi ci si facevano piccoli piccoli dalla fatica e gli stomaci talmente vuoti che dentro ci si sentiva l’eco.
Dopo quattro mesi di quest’inferno un giorno, mentre stavo a dare da mangiare alle galline, vidi arrivare la Pazza.
“Ciao Adelì, perché nun te fai più vedè? Si arrabbiata co me? T’ho fatto qualcosa? Nun sei più amica mia?”, mi chiese senza prendere aria.
“Nun m’hai fatto gnente, ma nun tengo lu tempo manco pe respirà altro che venirte a fare nu saluto.”
“E perché?”
“Perché devo faticà.”
“E perché?”
“Se nun se fatica nun se magna.”
“Nun è vero! Io magno sempre la zuppa della Signora ma nun fatico mica.”
“Beata a te!”
“Voi che ce chiedo alla Signora se te fa la zuppa pure a te?”
“Grazie Annamarì ma nun è na bona idea.”
“Perché?”
“Perché no.”
“E perché no?”
“Perché nun sono na pezzente.”
“E che è na pezzente?”
“Marò Annamarì, nun c’ho tempo pe dare retta alle fesserie tue! E cresci nu poco!”, e la mollai in mezzo al cortile con gli occhioni che già le si allagavano tutti.

Due giorni dopo, al ritorno da una commissione in paese, passai davanti a casa sua e quell’anima buona mi venne incontro urlando: “Adelì, che bello che si venuta!”
“Veramente sto solo a passare, devo tornare subito alla casa, se no chi la sente mamma mia.”
“Dai viene nu minuto dentro.”
“Nun posso Annamarì”, le risposi sbuffando.
“Vieni, veloce veloce, c’ho avuto n’idea pe no farte faticà più”, mi disse a voce bassa, mettendosi una mano davanti la bocca come fanno le creature quando raccontano un segreto.
“E va bene, ma nu minuto solo” e la seguì in casa.
Lei andò subito a prendere una scatola di latta: “Questi so li tesori mia. So cose importanti. La Signora dice sempre che so meglio dell’oro e che me li devo tenere stretti stretti.”
“E a me che me frega delli tesori tua?” 
“Ho pensato che te ne regalo uno, cuscì tu ce fai li soldi e nun c’hai più bisogno de faticà.”
Aprii la scatola solo per farla contenta e poter tornarmene subito a lavorare. Dentro ci stavano tre bottoni, una matassa di filo, un nastro di raso giallo, qualche dente marcio, una treccia di capelli e il ritratto di un uomo con gli occhi da ranocchio: “E questo chi è?”
“Lu babbo mio.”
“C’hai nu babbo?”
“Eccerto. Me l’ha spiegato la Signora: nun è vero che li bambini nascono sotto nu cavolo. Ce vole nu babbo e na mamma che se vogliono bene. Nun lo sapevi?”
Ma io manco l’ascoltavo più perché m’ero accorta che al fondo della scatola, sotto tutte quelle schifezze inutili, ci stava un anello. Un pataccone con un granato grande quanto un cecio.
“E questo?”
“Era de mamma mia ma a me nun me piace quel sasso scuro scuro. A me me piace lu nastro giallo. Hai visto che bello che è? E’ lu preferito mio, ma se lo voi te lo poi prendere.”
Quell’anima candida, con gli occhi da bambina e il muso pieno di rughe, mi sorrideva innocente mentre io, che innocente forse non c’ero stata mai, sentivo le mani che prudevano e mi mancava l’aria dalla voglia che c’avevo di prendermi quel gioiello. La Pazza non ce ne aveva di bisogno, a lei bastava la Signora che la serviva e riveriva meglio di una regina. Mentre noi Carretta c’ammazzavamo di lavoro per far contenti i Parise che, ad averci in famiglia una come Lucia, avrebbero dovuto ringraziare il Signore, altro che pretendere che noi ci facessimo sceme ed orbe dietro a ricami e merletti.
“Me prendo questo”, dissi stringendo forte il pugno.
“Va bene”, mi sorrise Annamaria, “cuscì te poi riposare nu poco e faticare de meno. Si contenta?”
“Sì, grazie, so proprio fortunata ad averce n’amica come a te.”
E me ne corsi via col cuore che mi batteva forte e le mani che mi sudavano. Corsi col vestito rattoppato e le scarpe rotte. Corsi a casa con la testa che mi scoppiava e lo spirito pesante.

“Era ora!”, disse mamma mia quando sentì aprire la porta, ma poi appena mi guardò in faccia: “Che c’hai? Che hai visto? Stai male?”
“Nun ve preoccupate, mo me passa”, dissi sedendomi in un angolo.
“Che tieni là?”, mi chiese Lucia facendosi vicina.
“Gnente.”
“Fammi vedere.”
“No.”
“Come no? Che nascondi?”
“Nun nascondo gnente. Guarda se ce tieni tanto. Guarda”, e le piantai la mano aperta davanti al muso.
“Nu bottone? E che ce fai co sto bottone?”
“Gnente, l’ho trovato pe strada.”

Mi mancò il coraggio o forse il cuore di prendere quell’anello. Ma quel bottone ancora lo conservo insieme alla catenina di nonna Ada e alla fede d’Augusto. Lo conservo per ricordarmi che la fame ed il bisogno ti possono far diventare peggio d’una bestia. Ma che io bestia non ci sono diventata mai.

Continua...

 Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6-7- 8 - 9 - 10- 11- 12- 13- 14- 15- 16
Post più recenti Post più vecchi Home page

Il mio Laboratorio di Scrittura via Newsletter

Il mio Laboratorio di Scrittura via Newsletter

IL MIO SITO

IL MIO SITO

La mia vetrina Amazon

La mia vetrina Amazon
Dai un'occhiata ai miei consigli di lettura e scrittura...

Social

POPULAR POSTS

  • Capitolo due: "I ragazzi"
  • Un diverso punto di vista
  • And the Post goes to...

Categories

IlMioProgetto chiacchiere libri Racconti viaggi cinema Torino RadioCole attualità musica televisione società DiarioRacconti sport Nella Rete blogosfera Laboratorio Condiviso teatro citazioni microracconti FacceDaPalco arte Un marito per caso e per disgrazia scrittura creativa Erasmus HumansTorino Peanuts cabaret lavoro Rugby meme ImprovvisazioneTeatrale PrincipeV poesia OffStage articolo sponsorizzato Pancrazia Consiglia pubblicità twitter PancraziaChi? TronoDiSpade articolo Adelina Harry Potter Podcast premi tennis graficamente PancraziaInBerlin laboratorio scrittura materiale di scarto DaFacebookAlBlog Pancrazia and the City Roma True Colors DonnePensanti EnglishVersion favole sogni CucinaCole IlRitorno chiavi di ricerca dasegnalare help 2.0 video Le piccole cose belle Mafalda Rossana R. cucina dixit kotiomkin live blog candy branding copywriting da segnalare metropolitana personal branding satira viaggio dell'eroe
Powered by Blogger.

Blog Archive

  • ▼  2023 (31)
    • ▼  settembre (4)
      • Laboratorio d'Autore
      • On line
      • Diretta Instagram
      • A ognuno il suo racconto
    • ►  agosto (2)
    • ►  luglio (4)
    • ►  giugno (1)
    • ►  maggio (3)
    • ►  aprile (5)
    • ►  marzo (4)
    • ►  febbraio (6)
    • ►  gennaio (2)
  • ►  2022 (57)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (10)
    • ►  settembre (5)
    • ►  agosto (3)
    • ►  luglio (6)
    • ►  giugno (6)
    • ►  maggio (9)
    • ►  aprile (3)
    • ►  marzo (1)
    • ►  febbraio (3)
    • ►  gennaio (3)
  • ►  2021 (20)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  novembre (1)
    • ►  settembre (1)
    • ►  agosto (6)
    • ►  aprile (2)
    • ►  marzo (2)
    • ►  febbraio (2)
    • ►  gennaio (3)
  • ►  2020 (84)
    • ►  dicembre (6)
    • ►  novembre (6)
    • ►  ottobre (6)
    • ►  settembre (6)
    • ►  agosto (6)
    • ►  luglio (10)
    • ►  giugno (9)
    • ►  maggio (11)
    • ►  aprile (8)
    • ►  marzo (8)
    • ►  febbraio (4)
    • ►  gennaio (4)
  • ►  2019 (6)
    • ►  dicembre (1)
    • ►  agosto (1)
    • ►  luglio (2)
    • ►  febbraio (1)
    • ►  gennaio (1)
  • ►  2018 (37)
    • ►  dicembre (1)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (3)
    • ►  settembre (7)
    • ►  agosto (3)
    • ►  luglio (2)
    • ►  maggio (1)
    • ►  aprile (7)
    • ►  marzo (8)
  • ►  2017 (23)
    • ►  settembre (2)
    • ►  maggio (2)
    • ►  aprile (4)
    • ►  marzo (8)
    • ►  febbraio (6)
    • ►  gennaio (1)
  • ►  2016 (20)
    • ►  settembre (2)
    • ►  giugno (2)
    • ►  maggio (1)
    • ►  aprile (7)
    • ►  marzo (2)
    • ►  febbraio (1)
    • ►  gennaio (5)
  • ►  2015 (78)
    • ►  dicembre (1)
    • ►  ottobre (4)
    • ►  settembre (4)
    • ►  agosto (8)
    • ►  luglio (6)
    • ►  giugno (7)
    • ►  maggio (6)
    • ►  aprile (6)
    • ►  marzo (11)
    • ►  febbraio (11)
    • ►  gennaio (14)
  • ►  2014 (242)
    • ►  dicembre (17)
    • ►  novembre (8)
    • ►  ottobre (8)
    • ►  settembre (10)
    • ►  agosto (7)
    • ►  luglio (18)
    • ►  giugno (18)
    • ►  maggio (19)
    • ►  aprile (23)
    • ►  marzo (40)
    • ►  febbraio (38)
    • ►  gennaio (36)
  • ►  2013 (353)
    • ►  dicembre (40)
    • ►  novembre (37)
    • ►  ottobre (48)
    • ►  settembre (33)
    • ►  agosto (35)
    • ►  luglio (39)
    • ►  giugno (35)
    • ►  maggio (40)
    • ►  aprile (23)
    • ►  marzo (8)
    • ►  febbraio (10)
    • ►  gennaio (5)
  • ►  2012 (126)
    • ►  dicembre (10)
    • ►  novembre (9)
    • ►  ottobre (12)
    • ►  settembre (13)
    • ►  agosto (19)
    • ►  luglio (10)
    • ►  giugno (10)
    • ►  maggio (7)
    • ►  aprile (6)
    • ►  marzo (10)
    • ►  febbraio (10)
    • ►  gennaio (10)
  • ►  2011 (95)
    • ►  dicembre (18)
    • ►  novembre (6)
    • ►  ottobre (4)
    • ►  settembre (9)
    • ►  agosto (5)
    • ►  luglio (10)
    • ►  giugno (12)
    • ►  maggio (4)
    • ►  aprile (7)
    • ►  marzo (9)
    • ►  febbraio (4)
    • ►  gennaio (7)
  • ►  2010 (97)
    • ►  dicembre (9)
    • ►  novembre (6)
    • ►  ottobre (2)
    • ►  settembre (7)
    • ►  agosto (7)
    • ►  luglio (16)
    • ►  giugno (10)
    • ►  maggio (8)
    • ►  aprile (9)
    • ►  marzo (9)
    • ►  febbraio (6)
    • ►  gennaio (8)
  • ►  2009 (61)
    • ►  dicembre (4)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (10)
    • ►  settembre (8)
    • ►  agosto (3)
    • ►  luglio (5)
    • ►  giugno (2)
    • ►  maggio (4)
    • ►  aprile (6)
    • ►  marzo (5)
    • ►  febbraio (4)
    • ►  gennaio (5)
  • ►  2008 (76)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (8)
    • ►  settembre (5)
    • ►  agosto (5)
    • ►  luglio (6)
    • ►  giugno (6)
    • ►  maggio (11)
    • ►  aprile (12)
    • ►  marzo (8)
    • ►  febbraio (5)
    • ►  gennaio (2)
  • ►  2007 (132)
    • ►  dicembre (2)
    • ►  settembre (18)
    • ►  agosto (11)
    • ►  luglio (33)
    • ►  giugno (13)
    • ►  maggio (13)
    • ►  aprile (16)
    • ►  marzo (26)

Copyright © Radio cole. Designed & Developed by OddThemes