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Sono giorni un po' così.
Giorni in cui aggiusti una cosa e se ne rompe un'altra.
Giorni in cui le spese sono molte più dei guadagni.
Giorni in cui hai un  milione di cose da fare e il tempo non è abbastanza.
Giorni in cui subisci un danno, e poi un altro, e poi un altro ancora.
Giorni in cui desideri fortemente trasferirti altrove. Ma proprio altrove. Tipo su un altro pianeta.

"Ecce ancilla domina", Rossetti
Poi, nonostante tutto, vai ad una mostra con un'amica.
E ritrovi la bellezza. La bellezza che supera tutto, e tutto addolcisce. La bellezza che ridimensiona piccolezze e difficoltà. La bellezza che non risolve ma nutre di nuova speranza. Perché in un mondo dove esistono cose tanto belle vale comunque la pena di restare e quindi, per ora no, non ti trasferisci su un altro pianeta.

Stamattina sono andata a vedere la mostra dei Preraffaelliti a Torino.
Mi sono riempita gli occhi e l'anima.
Ho guardato ed ascoltato. Ho visto opere nei cui mille particolari è possibile perdersi. Ho scoperto storie drammatiche lontane. Quelle troppo distanti per commuovere, ma tanto appassionate da bruciare.

L'arte, l'amore, il dolore, le donne, il sacro e il profano.
Questa è l'ultima settimana. Se non ci siete ancora andati: correte!

Germania 2006.

Cosa ricordo di quell'evento? Tutto.
Ricordo che indovinai i pronostici di ogni partita dell'Italia. No, non provai a scommettere, ma forse avrei dovuto, anche perché il talento divinatorio non mi si è più palesato in nessuna forma e occasione. Non sarebbe stata una brutta idea approfittarne un po'.
Ricordo l'orgasmo della semifinale. Noi che, per l'ennesima volta, facevamo a pezzi i tedeschi. Che io a quel popolo gli voglio bene, ma il piacere di asfaltarlo durante i mondiali è sempre di una dolcezza infinita.
Ricordo la testata di Zidane e l'ubriacatura di gioia quando Cannavaro alzò la coppa.

Ricordo l'insensata euforia, la musica dei White Stripe, la voglia di festeggiare fino a quando non si chiudevano gli occhi.

Il 1982 fu lieve poesia. Il 2006 uno sfrenato rave.


I Mondiali del 2002 sono perfettamente impressi nella mia mente.
Perfettamente e dolorosamente.

Furono i campionati della Corea e dell'arbitro Moreno. Ma, per me, furono soprattutto i mondiali di Elmar.
Elmar chi? Il mio storico fidanzato teutonico. Conosciuto in Erasmus un anno prima, trascorse gran parte di quell'estate a casa mia.
Oh che gioia! Oh che meraviglia!
Non foss'altro che io, con mira da cecchino, avevo scovato l'unico tedesco allergico al calcio. Allergico al calcio e pure discretamente scassamaroni. Perché non è che lui schifasse il pallone ma lasciasse agli altri il diritto di goderne. No, ma quando mai! Sarebbe stato troppo democratico! Lui schifava il pallone e mi trascinava in giro ogni volta che in tv c'erano gli azzurri.

"Non vorrai mica stare chiusa in casa a guardare quegli scemi che giocano?" mi diceva.
"Non vorrai mica perdere 90 minuti della tua vita dietro una partita di calcio?" continuava.
"Non vorrai mica costringere anche me a questa tortura?" chiosava.
"Ma perché no? Esattamente! Ma tu puoi andartene dove ti pare, anzi se ti fai un giro è pure meglio, che secondo me porti tigna!" gli rispondevo, aggraziata e dolce come un camionista bulgaro ubriaco.

Eppure niente, non c'era nulla da fare. Lui era insistente oltre ogni umana sopportazione. Ed io mi arrendevo pur di zittirlo.

Per questo motivo di quei maledetti mondiali ricordo soprattutto delle scene degne di Fantozzi.
Io che, priva di autoradio, chiedo il risultato parziale al tizio nella macchina accanto alla mia.
Io che, passeggiando, origlio le televisioni degli appartamenti a piano terra.
Io che, coi nervi a fior di pelle, scoppio in lacrime per strada appena vengo a sapere del gol di Del Piero contro il Messico.

Certe esperienze ti segnano e t'insegnano molto.
Una cosa su tutte: peggio di un uomo fissato col calcio c'è solo un uomo che lo odia!

Augusto si godeva le gioie del matrimonio e di una compagna dolce e morbida come un’albicocca matura.
Lucia si godeva la vita che aveva desiderato per tanto tempo e che era arrivata quando non ci sperava manco più.

A me mancava la famiglia com’era prima ma giorno dopo giorno mi abituai e poi, quando iniziarono ad arrivare i nipotini, scoprii che la nuova situazione poteva anche essere meglio della vecchia e che a fare la zia c’ero proprio portata.

Il primo a nascere fu Sandrino, grosso e scuro, con le guanciotte tonde da mordere e gli occhi grandi e neri come pozzi. Era serio e forte: un piccolo ometto responsabile fin dal primo momento passato su questa terra.
Il giorno del parto ce lo passammo tutti assieme. Lucia, la mamma e la levatrice stavano chiuse in camera da letto. Augusto in cortile faceva i buchi nella terra a forza di marciare avanti e indietro. Zia Caterina, zia Rita ed io aspettavamo sedute intorno al tavolo della cucina.

Lucia urlava come un capretto a Pasqua. Augusto pareva sul punto di vomitare dall’agitazione. Io ringraziavo in silenzio il Signore di avermi fatta troppo povera e brutta per sposarmi, avere figli, e passare un inferno così. Zia Caterina sgranava il rosario tutta seria manco si stesse avvicinando il giudizio universale. Solo zia Rita non stava zitta manco un secondo: “I giovani d’oggi nun sono forti e nun sono capaci de sopportare nu poco de dolore” diceva. “Nun ho mai sentito na femmina gridare cuscì tanto, se vede proprio che nun arriva da na famiglia come se deve”, continuava. “Lo si capiva a guardarla nella faccia, cuscì delicatina e chiara, che nun era bona pe fare figli”, malignava. 

Alla fine al posto dei gridi arrivò un pianto forte ed arrabbiato. Il primo ad andare a vedere fu Augusto, poi venne il turno mio e delle zie. La giovane tanto delicata aveva messo al mondo un torello forte e sano. Zia Rita chiuse finalmente quella ciabatta velenosa e, da quel giorno, un piede nella casa di Lucia non ce lo mise più: Augusto c’aveva l’udito fino ed era un uomo che sapeva mantenere le promesse sue.

L’anno dopo fu la volta di Enrico il Bello, chiaro come la mamma, con i capelli sottili ed i lineamenti delicati ma un carattere furbetto fin dalla culla, dove imparò in fretta come attirare l’attenzione per farsi prendere in braccio e coccolare.
Enrico è rimasto così pure da grande, capace di rigirarsi tutti intorno al mignolino suo. Ha fatto perdere la testa a molte femmine e delle volte se n’è pure approfittato quel mascalzone. Io gli ho sempre voluto un mondo di bene ma, quand’era già un uomo fatto e finito, spesso gli avrei voluto dare un paio di begli schiaffoni per raddrizzare quella capoccia leggera. Per fortuna ad un certo punto ha incontrato Lisuccia sua, una brava ragazza, intelligente e giudiziosa che gli ha saputo tenere testa e si è fatta sposare. Ed ancora adesso, che c’hanno tutti e due i capelli grigi e i denti finti, Enrico se la guarda con certi occhi innamorati che pare un pesce lesso. Ora è lui quello a girare intorno al dito piccolo.

Mentre Augusto si occupava della poca terra che avevano e delle loro bestie, Lucia continuava a ricamare da noi. Di lavoro non ce n’era molto, che nel frattempo era scoppiata la guerra ed anche i ricchi di città stringevano un poco la cinghia, ma noi riuscivamo comunque ad andare avanti con tanti sacrifici e le ossa che sporgevano.
Ogni giorno sorella mia veniva a casa nostra e si portava dietro i bambini. Loro giocavano nel cortile tra le galline e il fango mentre noi li tenevamo d’occhio dalla finestra. Quando rientravano erano sempre tutti inzaccherati, belli e zozzi come dei maialini da latte. Mamma e Lucia facevano la voce grossa e li sgridavano, e quei due mascalzoni, un poco per finta e un poco sul serio, si rifugiavano dietro di me.
L’avevano capito subito che io non ero proprio capace a resistere ai loro musetti e alle loro vocette sottili, “Zia Adelìììì” mi chiamavano ed io mi scioglievo peggio d’una scema. Per loro sarei andata a piedi fino al santuario della Madonna, per loro avrei sfidato un re a duello, per loro avrei fatto qualsiasi cosa.

Ogni volta che c’avevo una commissione o una compera da fare  me li portavo dietro: Enrico in braccio, appoggiato al  fianco mio, e Sandro che mi trotterellava accanto.
Delle volte ci fermavamo un poco lungo il ruscello dove, dopo aver preso qualche cerasa dal fondo del frutteto grande, ci sedevamo sull’erba a giocare. Il piccolo si  metteva dritto sui piedi grassocci ma non ci provava neanche ad allontanarsi: mi restava appiccicato fino a quando non gli davo la frutta. Goloso e fastidioso peggio di zia sua. Il grande faceva a gara con me a chi sputava gli ossi più lontano. Io ogni tanto lo lasciavo persino vincere, e da questo si capisce il bene grande che gli dovevo volere fin da quel tempo lì.

Continua...

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Io vorrei svegliarmi la mattina e trovare Yoda seduto al tavolo del soggiorno.

Vorrei fare colazione con lui, inzuppando pan di stelle nel cappuccino e spalmando nutella sul pan carré.
Vorrei iniziare ogni giornata specchiandomi in quella faccetta verde da tartaruga con le orecchie a punta.
Vorrei che, a scadenze regolari, m'illuminasse il cammino con qualche preziosa indicazione, qualcosa tipo "Molto da scrivere ancora tu hai", oppure "Una raccolta di racconti fare dovrai".

Insomma, io vorrei avere un maestro Jedi.
Voi no?

Del '98 non ricordo nulla. Nulla di nulla. E' impressionante. Tabula rasa. Niente che sia accaduto nel campo, fuori dal campo, o nella mia vita.
Fa quasi paura, anzi no, fa paura sul serio!

Cerco su Wikipedia. Scopro che quello fu il primo mondiale vinto dalla Francia. Francia che ci eliminò ai quarti di finale. Il nostro allenatore era Cesare Maldini. Ok, degli occhi spiritati di Maldini mi ricordo. E anche della Francia. Cantavano l'inno tutti abbracciati e baciavano la capoccia glabra del portiere.

Wikipedia, però, non mi è di alcun aiuto per quanto riguarda la mia vita privata. Faccio mente locale. Nell'estate del '98 uscivo già da mesi con un tizio che si chiamava Massimo. Tizio che sarebbe passato alla storia, alla mia personale storia, con due nomignoli: Magnum P.I., per l'innegabile somiglianza quando decise di farsi crescere i baffi, e Max il Fedifrago, per... e vabbé, che ve lo spiego a fare?


La mattina dopo ci svegliammo pieni di energia.
LAmicoFab era pronto a scoprire finalmente Berlino ed io ero pronta a fargli da guida.
Sì, insomma, forse è il caso che dica la verità. Io non ero piena di energia. No. Io ero divorata dall'ansia da prestazione.

Avete presente quei nonni che esibiscono i loro nipotini, tutti orgogliosi e tronfi? Avete presente quando comincia il circo dei "Fa vedere ai signori come fai questo, fai vedere ai signori come fai quest'altro"? E, soprattutto, avete presente questi nani che, con un legittimo moto di ribellione, invece di recitare la filastrocca "che sanno taaanto bene" si mettono le dita nel naso? Tutte e 10 contemporaneamente. Oppure, invece di dire i colori dell'arcobaleno in inglese, cinese e aramaico, "che le lingue sono taaanto importanti", sillabano a rutti il loro nome di battesimo? Sbagliandolo, per giunta!
Ecco la mia situazione fu identica.
Nonna Pancrazia cercò di far dire la poesiola di Natale a Berlino.
Ma quella fancazzista, anarchica, ribelle della Stadt mi si rivoltò contro.

Non avevo programmato un vero e proprio itinerario, ma mi ero fatta un vago elenco delle cose più importanti da far visitare a LAmicoFab. Elenco che vedeva al primo posto l'arioso viale Unter den Linden.
La sciccosa passeggiata. Il corridoio del lusso. Il tappeto rosso della Berlino Est.
Con Unter den Linden non potevo sbagliare. Andiamo: avevo persino scritto un racconto ambientato lì!

Saremmo partiti dalla Porta di Brandeburgo e poi avremmo passeggiato sotto i tigli.
Un doppio colpo con cui avrei steso LAmicoFab, portandolo al deliquio per la capitale teutonica in 5 minuti.
Tutti dovevano amare Berlino quanto me. Tutti!
Era questa la mia missione.
Era questo il mio piano diabolico.
Era questo il mio inevitabile futuro fallimento.

La Porta, da poco restaurata, appariva di quel biancore perfetto, privo di sfumature e anche di fascino. Così diversa da come l'avevo vista io la prima volta quel lontano settembre del 2000. Non solitaria, imponente, e malinconica, ma bianca come il latte e circondata da turisti. Chiassosi, fastidiosi turisti. Idioti che facevano la coda per farsi fotografare accanto a figuranti vestiti da Superman, Batman o Predator.
"Predator? Che cazzo vi fate la foto abbracciati a Predator? Non siete a Los Angeles. Non state passeggiando davanti al Kodak Theatre. Siete a Berlino. Dannazione! Berlino. Ma che vi dice la testa? E perché Predator non ve la stacca quella dannata testa?" sibilavo a denti stretti peggio di un'invasata.

Unter den Linden fu ancora peggio.
Lavori in corso.
Lavori in corso in ogni dove.
Tutto coperto. Niente visibile.
"Vedi là dietro?" dicevo a LAmicoFab.
"Dove?" mi rispondeva lui.
"Là!"
"Là dove?"
"Là! Se ti pieghi di 30° verso destra, giri la testa di 25° verso sinistra, strizzi gli occhi, apri la bocca, fai una giravolta e falla un'altra volta, dietro quelle due gru potrai vedere la punta del tetto dell'Opera. La vedi???"
"Sìììì bellaaaaaa" mi dava retta il mio compare, dimostrando una commovente fiducia nella riuscita del nostro viaggio.

Infine, per fuggire al dolore e risollevare la giornata, ebbi la brillante idea di andare al Pergamon. Il mio Pergamon. Il museo berlinese che meglio conoscevo e che più amavo. L'edificio tra le cui sale mi ero smarrita e ritrovata mille volte, rapita da tanta antica bellezza.
Ebbene, il Pergamon era in restauro. E credo che lo sia ancora. E credo che lo sarà per sempre. E credo che io non ci metterò mai più piede neanche trascinata per i capelli!
Metà delle sale chiuse. Metà delle opere inaccessibili. Il mio amato Attalo confinato chissà dove!

Non era ancora l'ora del tramonto ed io, nonna Pancrazia, ero già sull'orlo di una crisi di nervi.
Berlino si era messa le dita nel naso, anche quelle dei piedi. Aveva sillabato a rutti nome, cognome e persino numero di telefono. E, da un momento all'altro, avrebbe sicuramente fatto pipì in soggiorno. L'avrebbe fatto se non fosse intervenuto lui.
Lui: LAmicoFab.

Continua...
Pochi giorni prima delle nozze ci fu l’esposizione del corredo. Entravano tante femmine in casa, toccavano le lenzuola, ribaltavano le coperte, si guardavano in giro e ficcavano il naso zozzo dappertutto.

Quel giorno arrivarono le zie, le cognate e pure una cugina alla lontana di Augusto. Non mancò neanche la solita Zaccaria che si portò dietro pure quelle sceme delle figlie sue. Due gemelle con i capelli di paglia, gli occhi storti ed il cervello da gallina. E pensare che la madre non si è mai saputa spiegare come mai i giovanotti non si azzuffassero per portarsele all’altare. Come se qualcuno con un poco di sale nella capoccia potesse davvero desiderare una racchia scema per moglie, una scema racchia per cognata, ed un’impicciona cattiva per suocera.

Lucia, con la calma di una santa, sorrideva e rispondeva a tutte le domande delle Parise che, solo perché venivano da una famiglia di signori, pensavano di poterci trattare come piaceva a loro. Se glielo avessero chiesto, lei probabilmente avrebbe anche aperto la bocca per farsi controllare i denti come si fa coi cavalli. E non perché fosse debole e sottomessa. Proprio il contrario: Lucia era troppo signora nell’animo per dar loro soddisfazione e far capire l’umiliazione che c’aveva nel cuore.

“Bellino sto ricamo, chi l’ha fatto?” chiese zia Caterina, la sorella più grande di Ottavio Parise. Una donna alta alta e secca secca, con la faccia scura e gli occhi tristi. Era diventata vedova presto, non aveva manco fatto in tempo a fare un figlioletto, e se ne stava sempre da sola. Da sola con il rosario tra le mani.
“Io” rispose Lucia.
“Sei brava”
“Ve ringrazio”
“Per fortuna quei ditini sottili e fragili te servono a qualcosa”, si mise in mezzo zia Rita, sorella più piccola della zia Caterina. Bassa e tonda, con le guanciotte piene e rosse come quella di una bimba e la lingua avvelenata come quella di una vipera.
“Ricamo fin da piccola. E’ na tradizione de famiglia”
“Pensavo che la tradizione vostra era quella de ubriacarse e fare li svergognati in giro.”
“No. Nun da parte de mamma”
Lucia é sempre stata brava a lasciare le persone mute con la bocca aperta, senza bisogno di offese o di alzare la voce, ma con una gentilezza ed un’educazione che facevano sentire l’altro piccolo e zozzo. Io, purtroppo, certe raffinatezze non le ho imparate mai.
Anche mamma, come me, era di natura molto più sanguigna e  si mordeva la lingua per non parlare e dire quello che le passava per la capoccia in quei momenti, che altrimenti quelle signore tanto per benino le avremmo dovute tirar su con i sali ed un goccio di vinello.

Io assistevo a questo teatrino con lo stomaco annodato dalla rabbia e, quando non resistetti più, andai fuori a prendere un poco d’aria, che il puzzo delle cattiverie è pure peggio di quello delle bestie.

Nel cortile incontrai Augusto che, dopo essere venuto ad accompagnare la famiglia sua, stava ad aspettare fuori appoggiato al muro della stalla.
“Avete finito?” mi chiese.
“No, le zie tue nun se so ancora divertite abbastanza. Perché nun guardate anche che c’abbiamo in dispensa o date n’occhiata allu pollaio?”
Lui abbassò lo sguardo: “Me dispiace che dovete passare tutto questo.”
“Te dispiace? E allora perché nun entri là dentro e le sbatti tutte de fora?”
“Perché nun posso e Lucia lo sa e lo capisce. C’avrò la terra solo dopo le nozze. Ma una volta sposato nun permetterò mai più a nisciunu de mancare de rispetto a lei, e manco a voi.”
“E come faccio a crederte?”
“Te do la parola mia”, mi rispose pacifico, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Io a certi discorsi non c’ero mica abituata: era la prima volta che qualcuno mi trattava come una persona grande.
Fui talmente sorpresa che decisi anch’io di mantenere una promessa che avevo fatto alla sorella mia qualche sera prima.

“Nun riesci proprio a fartelo piacere?” mi aveva chiesto Lucia mentre stavamo sedute attorno al tavolo a finire l’ultima tovaglia.
“Io nun c’ho niente contro de lui.”
“E allora perché ogni volta che lo vedi metti su na brutta faccia scura?”
“Nun è vero.”
“Sì, che lo è.”
“E va bene, forse nu pochetto. Ma nun te preoccupà, c’avrò la capoccia dura, ma l’ho capito pure io ch’è na brava persona.”
“E allora perché nun si contenta pe me?”
“Io so contenta.”
“E meno male, chissà che faccia c’avevi allora se nun eri felice.”
“Ma che voi da me?”
“Che me dici che c’hai!”
“Nun è gnente de importante.”
“E io lo voglio sapere pure se nun è importante.”
“Va bene. Io te dico che c’ho, ma tu nun devi ridere o arrabbiarte e nun me devi rompere più co sta storia. Va bene?”
“Nun rido, nun m’arrabbio e nun rompo. Te lo giuro.”
“Croce su lu core?”
“Nun simo troppo grandi pe ste cose?”
“Croce su lu core?”
“Croce su lu core che me possino cadere li diti. Fa abbastanza schifo cuscì?”
“Sì.” Feci un bel respiro e poi buttai fuori tutto di filato, “C’ho paura che quello te porta via e che noi nun te vediamo più perché tu diventi na Parise fatta e finita e a noi puzzone nun ce voi vicino.”
“Quasi quasi me verrebbe da prenderte a schiaffi. Ma che si scema? Augusto nun me porta da nisciuna parte. Andiamo a vivere al fondo della strada. Tu sarai sempre la sorella mia. Certe cose mica cambieno. Me ce vedi a passare le giornate mia coi Parise?”
“Me lo prometti?”
“Certo. Croce su lu core, che possa murì bruciata. E tu me la fai na promessa?”
“Che voi?”
“Gli chiedi scusa?”
“A chi?”
“Ad Augusto mio, a chi se no?”
“Scusa? E pe cosa?”
“Lo sai.”
“Ma che scherzi? Nun ce penso nemmeno.”
“Dai, Adelì, io lo so che in fondo c’hai lu core bono e te si pentita.”
“Ma quando mai? Proprio pe niente! Me so pentita de nun averlo mai beccato su quella capoccia dura che se retrova!”
“E’ lui quello co la capoccia dura, mò? Senti senti, lo bue che dice cornuto all’asino. Dai Adelì, nun fare la difficile: te lo chiedo pe piacere.”
“No.”
“Fallo pe me.”
“No e nun fare quella faccia da madonnina crocefissa, che tanto nun m’entenerisci.”
“Adelì…”
“No.”
“Eddai…”
“Marò, quanto si noiosa! E va bene!”
“Grazie, Adelì. Lo sapevo io che c’avevi lu core de burro.”
“Ma famme lu piacere!”

E così quel giorno di fronte alla stalla, mi feci coraggio e, guardandomi i piedi, bofonchiai: “Scusame.”
“Pe cosa?”
“Lo sai. Quella volta. Li sassi. Lu gioco.”
Lui mi guardò stupito: “E’ roba vecchia, nun me lo ricordavo manco più. Nun c’è mica bisogno de scuse ma, già che ce sei, me prometti na cosa?”
“Che?”
“Che, quando sarà ora, gli insegni te alli figli mia ad arrampicarse sull’alberi. Io nun posso e Lucia nun è capace.”
“Certo, te li faccio diventare svelti come li gatti!” risposi tutta orgogliosa, che bravi come me ad arrampicarsi in paese ce ne stavano pochi.
“Però alla fionda ce penso io. Ho una bella mira, te ricordi?” mi disse con lo stesso sorriso da furbo di tanti anni prima.
“Io me ricordo solo che tu si bravo a fare lu finto morto. Quella è la specialità tua!” risposi io arrossendo per l’imbarazzo.
Augusto era sempre bravo a farmi fessa ma, accidentaccio a lui, cominciava pure a starmi simpatico. Almeno un poco.

Mentre mi allontanavo, mi richiamò: “Adelì, ancora na cosa.”
“Che voi?”
“C’ho na domanda da farte”
“Che?”
“Te nun ne sai gnente de nu brutto cane?”
“Quale cane? Noi nun ce n’abbiamo.”
“Lo so, ma na volta so venuto qua e m’è venuto dietro na bestia cattiva. Te nun ne sai gnente?”
“Gnente”, dissi alzando le spalle.

Le nozze si celebrarono il 3 luglio del 1937.
Lucia era tanto bella da far sembrare racchie tutte le spose mai passate nella parrocchia di Santa Rita. Augusto era quasi carino con l’abito della festa ed i pantaloni della lunghezza giusta. Mamma aveva gli occhi lucidi e sembrava più giovane di dieci anni. Mentre io, appena quattordicenne ma già fiorita, ero infagottata in un vecchio vestito che mi stava corto e mi tirava dappertutto. Ero bella e femmina quanto un salame ma non me ne fregava niente: sorridevo contenta e quel giorno mi sembrava di voler bene a tutti, persino ai Parise.
Vedere Lucia mia così bella e felice mi riempiva il cuore e pensare al rinfresco nuziale mi riempiva lo stomaco.
Mamma mia però mi aveva avvertita: “Nun c’è tanta robba, lascia magnà prima li ospiti e tu, se ce ne sono, te prendi solo li avanzi. Me raccomanno.”
Ma io mi ero già messa d’accordo con Gino, invitato perché la madre era cugina alla lontana dei Parise. Lui si sarebbe riempito le tasche di frutta, pagnottelle ed olive e poi ci saremmo nascosti dietro la stalla.
“Ma quant’è bona sta robba?”, gli chiesi con la bocca piena.
“Si, nun è male.”
“Nun è male? Se vede che tu si abituato alli banchetti: beato a te!”
“So contento che siamo ancora amici, Adelì.”
“Pur’io.”
“Te sta bene lu vestito”, disse guardandomi fisso, manco fossi un bel pezzo di faraona.
“Ma che si orbo? Me sta tutto stretto. Fra poco me scoppia.”
“Appunto.”
“Appunto? Appunto che? Maiale, ma dove guardi? La faccia mia è qua sopra, razza de porco!”
“Nun c’è mica bisogno d’offendere, che caratteraccio che hai messo su. Uno mo nun pò manco guardare?”
“No, che nun pò!” 
“Come no? Nun siamo amici?”
“Ma fammi lu piacere! Che c’entra essere amici co guardare lu petto mio?”
Quella volta ci andò meglio dell’altra. Non fummo interrotti dal babbo, ormai morto stecchito da tempo, ma dalla mamma. Lei si arrabbiò tantissimo, non perché ero da sola a chiacchierare con un maschio ma perché avevo le mani e la bocca piene delle delizie preparate per gli ospiti, “A suon di schiaffoni te le dovrei far sputare ste olive. Mi sono costate na fortuna: sciagurata!”, mi urlò all’improvviso facendomi andare tutto per traverso.
Ma quel giorno era troppo speciale per essere rovinato e me la cavai solo con un buffetto.

I parenti dello sposo guardavano noi Carretta come se c’avessimo le zecche ma a noi non c’importava. Quel giorno gli sposi erano felici e noi con loro.

Continua...

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