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Augusto e Lucia desideravano tanto una femminuccia e sperarono che la benedizione fosse finalmente arrivata quando Enrico aveva quasi due anni.
La sorella mia scoprì di essere di nuovo in attesa ed era talmente convinta che questa volta sarebbe stata una bimba che cominciò a ricamare dei vestitini meravigliosi, tutti lino e merletti. Degli abitini come quelli degli angioli, talmente belli che le mogli di Sandro ed Enrico li conservano ancora come dei tesori. Roba così ai giorni nostri non si trova da nessuna parte, manco a volerla pagare fior di soldi.

Il tempo passava e Lucia si faceva ogni giorno più grossa, con la pancia bella tonda e le caviglie gonfie. Un giorno, mentre passeggiava con una mano sul fianco e l’altra sull’ombelico, la Pazza la fermò per strada, le posò le mani sul ventre e disse solo: “So due pupe”.
Una volta non esistevano mica le macchine che ci sono adesso, che ti dicono se il figlio tuo è maschio o femmina, grande o piccolo, bello o brutto, sano o malato. Una volta era una sorpresa fino a quando il bambino non usciva fuori.
La levatrice lo prendeva per i piedi come una bestiolina, gli dava una bella sculacciata e poi controllava che avesse tutte le cosine al posto giusto: i diti, le mano e pure l’uccelletto.
Ma la Pazza per queste cose era una sicurezza e ci prendeva sempre.
Anche mamma sua, prima di lei, era stata uguale, anzi meglio. La signora Mariuccia era una strega, una di quelle buone però, che tolgono il malocchio, fanno arrivare i bimbi anche dove la terra sembra troppo secca e, quando c’è di bisogno, convincono i mariti, che c’hanno il vizio di correre dietro le altre gonne, a tornarsene a casa con la coda tra le gambe.

La Strega era arrivata in  paese con la creaturina sua in braccio ma senza uomo, si era piazzata in una vecchia casa mezza rotta che non voleva più nessuno e aveva fatto fruttare il  talento suo più grande: quello di saper leggere nel cuore e nella capoccia della gente. Mamma mia ci raccontava che, quando lei era ancora una bimba, a casa della signora Mariuccia ci stava sempre la coda di femmine che chiedevano qualche favore: le poveracce in cambio lasciavano quello che potevano, un ovetto o qualche frutto, mentre le signore anche un bel polletto intero. Persino nonna Ada ci andò una volta, quando il nonno aveva iniziato a fare sempre tardi e a guardare con tanto d’occhi una cugina più giovane. Una ragazza con un corpo morbido ed una bella bocca che faceva venire strani pensieri a tutti i maschi che la incontravano.
Nonno Claudio era buono come il pane ma, purtroppo, si sa che gli uomini c’hanno sto vizio qua e prima o poi ci cascano tutti. La nonna andò dalla Strega con gli occhi pieni di lacrime ed il borsellino gonfio di spicci e, nel giro di poche settimane, la bella cugina venne promessa ad un pastore che viveva dall’altra parte della valle.

La signora Mariuccia morì per una brutta febbre quando era ancora molto giovane. Annamaria non aveva manco dieci anni, ed era una bambinetta dolce ma strana, con un cuore grande grande ma una capoccetta piccola piccola. I carabinieri andarono di corsa a prenderla, per chiuderla in manicomio e buttare via la chiave, ma non la trovarono e nessuno seppe dire loro dove fosse finita.  Molti non lo sapevano per davvero ma c’era chi, come nonna Ada, dopo aver visto un carro con due Signore e una ragazzetta allontanarsi verso la valle, aveva scelto di farsi smemorato per risparmiare ad una povera creatura un destino infame. Sembra incredibile, ma pure in un paese come questo, coi muri sottili e le orecchie belle grandi, se c’è davvero di bisogno, certi segreti si riescono a tenere.

La figlia della Strega tornò ad occupare la casa della madre solo qualche anno dopo, ormai adulta. Tornò pulita ed ordinata ma sempre svitata. Fuori s’era fatta grande ma dentro non era cresciuta manco d’un minuto. Parlava con le bestie, si circondava di cani puzzolenti e cantava a squarcia gola canzoni che non conosceva nessuno tranne lei.
La Pazza aveva ereditato un solo potere da mamma sua. Non sapeva togliere il malocchio o fare filtri d’amore ma vedeva dentro le pance.

Continua...


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Dati i preoccupanti vuoti di memoria emersi durante questo viaggio attraverso gli anni e i mondiali, ho deciso di organizzarmi per tempo e di scrivermi un efficace promemoria per il 2018.

Ha vinto la Germania.
L'Italia ha fatto schifo.
Il Brasile anche di più.
Il caldo non si decide ad arrivare.
Io ho un buco nel muro. E una vita incerta ma interessante.

Fra 4 anni Wikipedia non mi servirà.
Ecco un altro mondiale di cui non ho memoria.
E, considerando che si svolse solo quattro anni fa, il fatto è curioso oltre che preoccupante.

Ancora una volta chiedo aiuto a Wikipedia. La prima risposta è Sudafrica 2010.
Sudafrica? Ok, una tenue luce si accende tra i miei assopiti neuroni della domenica. Una tenue luce e un ritornello scemo: Waka Waka!

Un assillo che proveniva da radio, tv e suonerie di cellulari. Incessante, ripetitivo, insostenibile. Come ogni vero tormentone estivo che si rispetti! Ancora adesso, dopo 4 anni, quando lo sento inizio ad agitarmi come una tarantolata. Ancheggio, cercando di essere etnica, sensuale e latina come solo Shakira può essere. E come io, la più sabauda delle sicule, non riuscirò ad essere mai. Sob!

Un tormentone che non tormenta solo perché la cantante colombiana è impossibile da non amare. L'adorano le donne. La bramano gli uomini. Perché lei è bionda ma con la ricrescita. Perché lei è bella ma ruspante. Perché è giustamente femmina ma non felinodefunta. Perché ha quel bel sorriso perfetto all'americana incastonato in un viso che la mattina, senza trucco e luci giuste, è probabile che sia carino ma non eccezionale. Io me la immagino con le occhiaie, i capelli arruffati, e un poco di fiatella. Non troppa, il giusto. Me la immagino così e le voglio bene.

Quindi la memoria mi si è parzialmente sbloccata. L'inno me lo ricordo. Ma il resto?
Mi tocca rivolgermi nuovamente a Wikipedia. Secondo la virtuale enciclopedia quel mondiale fu vinto dalla Spagna e l'Italia uscì al primo turno. Ecco perché non ricordavo nulla. Rimozione. Rimozione del trauma.
Ecco perché, probabilmente, le mie sinapsi faranno terra bruciata anche del mondiale di quest'anno.

E la mia vita privata?
Wikipedia non può essermi di alcun aiuto, ma forse il blog sì.
Sbircio tra le pagine dell'indice e mi rendo conto che quella fu l'estate della scrittura.
L'estate che seguì la primavera della scrittura, periodo durante il quale la mia più grande passione aveva preso finalmente il giusto posto nella mia vita. Periodo in cui avevo scritto il racconto a puntate "Adelina", da cui è poi derivato il romanzo "Un marito per caso e per disgrazia". Periodo in cui avevo cominciato a frequentare l'adorato laboratorio di scrittura, luogo di scoperte, incontri, lezioni e sostegno.
Insomma la primavera era stata grandiosa.
L'estate fu un'inevitabile e piacevole conseguenza. La conferma di una direzione presa.

E ora? Tutti assieme!

Per le strade del paese incontravo spesso Tommaso e Gino. Il primo era rimasto piccoletto, con le ginocchia larghe ed ancora lo stesso sorriso furbo di quando si arrampicava sui rami più alti. L’altro si era fatto lungo e smilzo, con un bel nasone da corvo messo sopra quattro peli che gli piaceva chiamare baffi.

Tommaso mi sorrideva o mi faceva solo un cenno col capo, oramai ci eravamo fatti grandi e la confidenza di quando eravamo piccoli non ce la potevamo più permettere. Babbo suo l’aveva messo a bottega e lui faceva all’amore con Rosellina, una ragazza con i denti davanti accavallati, gli occhi svegli e la risata contagiosa.  Maso le passava davanti casa e lei usciva sulla porta con la scusa di risvegliare le braci del ferro da stiro. Lui le strizzava l’occhio, lei rideva ed io mi morivo d’invidia. Quand’ero piccoletta mi ero presa una bella botta per Tommaso e, pure dopo tutti quegli anni, a vederlo fare lo scemo con un’altra femmina mi saliva l’acido fino in bocca. Non c’avevo la dote, non ero tanto bella, non mi potevo sposare, e tutte le altre cose che diceva sempre mamma mia, ma mica ero fatta di legno.

Gino invece non se l’era ancora acchiappato nessuna, ma lui aveva messo gli occhi su una femmina dal carattere dolce come il miele, una famiglia di signori alle spalle e pure una dote grande per far felice mamma sua. Quel fesso s’era preso una bella botta per me.
Quando mi vedeva arrivare dal fondo del viale, si lisciava i capelli e mi veniva incontro con un sorriso da imbambolato. Io cercavo di evitarlo, guardavo per terra, affrettavo il passo, ma lui da quell’orecchio proprio non ci sentiva ed ogni volta m’attaccava un bottone grande quanto una medaglia.
“Ciao Adelì, come stai?”
“Bene, grazie.”
“Io mo lavoro al forno del babbo. E tu che fai?”
“Le cose solite.”
“Perché nun te fermi a chiacchierare nu poco?”
“Perché so de corsa e poi nun stà bene, lo sai.”
“E perché nun stà bene? Noi simo amici da na vita.”
“Nun fare lu finto tonto. Ormai simo grandi e, se me fermo a parlare co te, nel giro di un’ora tutti dicheno che facciamo all’amore.”
Lui aveva il pudore di arrossire ma comunque non mollava, “Io però te devo dire na cosa importante”, mi diceva abbassando un poco la voce.
“Dimmela.”
“Ma no. Mica cuscì. Nun davanti a tutti. Dobbiamo stare solo io e te, core a core.”
“Stai fresco!” gli rispondevo.
Lui allora si allontanava con le mani in tasca e la faccia triste. Io ogni volta speravo che l’aveva capita, ma quel caprone il giorno dopo ricominciava da capo.
A me Gino non piaceva, non in quel senso almeno, ma mi piaceva tanto avere un corteggiatore. In fondo ce l’avevano tutte, pure quelle brutte come la fame. Tutte tranne le Zaccaria, quelle non le ha mai volute nessuno. Anche se, secondo me, Bastiano un giro con una delle due se lo deve essere fatto. Che quello era buono e caro ma mica un santo e Saretta, che c’aveva gli occhi un poco meno storti e i capelli un poco meno stopposi della sorella, con lui giocava sempre a “Cecco me tocca, toccame Cecco”. Io sta cosa a Bastiano gliel’ho anche chiesta quando eravamo già vecchiarelli ma lui, che ormai aveva seguito la strada sua e s’era fatto frate, ha avuto la faccia di rispondermi: “Ma te sembrano discorsi da farse tra n’omo de chiesa e na signora pe bene?”
Che a casa mia se uno ti dice così vuol dire solo che la risposta è sì. E bravo Bastiano!

Io, ad averci un corteggiatore, mi sentivo più grande e persino più bella. Delle volte, dopo averlo incontrato, correvo a guardarmi allo specchio del cassettone di mamma per capire cosa ci trovasse lui di tanto interessante in me. Quando non c’era nessuno mi tiravo anche su i capelli per cercare di assomigliare alle attrici che si vedevano nei cartelloni del cinematografo a valle. Ma il risultato non era mai un granché.
Per tutta la vita non mi sono mai vista bella ma, Gino prima ed Augusto poi, mi ci hanno fatta sentire spesso. E questo è uno dei più bei regali che un uomo può fare alla donna sua.

Anche se Lucia era ormai moglie e madre ogni tanto riusciva comunque a dedicarmi un poco di tempo per chiacchiere e confidenze.
“Lucì, te la posso chiedere na cosa?”
“Certo.”
“Pure se è na cosa nu poco delicata?”
“E che sarà mai? Da quand’è che te sei fatta timida? Chiedeme quello che voi.”
“Tu s’innamorata?”
“Sì”, mi rispose subito col sorriso sincero e gli occhi belli che le brillavano.
“D’Augusto?”
“E certo, Adelì, de chi se no? Dellu vecchio della vigna?”
“Ma s’innamorata d’Augusto come d’Emilio?” le chiesi tutta seria e a bassa voce, perché certi discorsi sarebbe meglio non farli proprio, ma quando si fanno bisogna sussurrarli appena appena, che le malelingue c’hanno l’orecchio più fino di quello del diavolo.
“No, è na cosa tutta diversa. Emilio me faceva sentire le farfalle nellu stomaco. So passati tanti anni, io ero piccina e lui me pareva cuscì bello.”
“Pe esse bello era bello ma pure nu stronzo come pochi.”
“Già.”
“Ma era meglio lui o Augusto?”
“Emilio era come nu cavallo, uno de quelli sempre agitati. Te cerchi de starce su ma prima o poi finisci co la faccia a terra. Augusto invece è come una de quelle bestie forti, che magari nun sono cuscì belle, ma quando ce sali sopra possono portarte fino alla fine dellu monno.”
“Ho capito: Augusto è nu mulo”, dissi non riuscendo a trattenere le risate, che io a fare un discorso serio per troppo tempo non ci sono riuscita mai.
“Adelì, si proprio scema! Pensa all’ asino tuo e lascia stare lu mulo mio!”
“Quale asino?”
“Nun fare quella faccia da santarellina, che lo sai benissimo de chi sto a parlà. Gino te gira sempre intorno. Quello s’è preso na botta pe te quando eravate du pupetti e nun gli è passata più.”
“A me li asini nun me piacciono e nun me sono piaciuti mai. Me possono girare attorno quanto vogliono ma nun me ne frega gnente.”
“Pe davvero?”
“Certo.”
“Allora diglielo, nun lo devi prendere in giro”, mi disse con la migliore vocetta da maestrina severa, che manco La Pera c’aveva na voce così.
“Io nun prendo in giro proprio a nisciunu, sa. Quello fa tutto da solo. Che ce posso fare?”
“Nun glie devi da dare corda.”
“Co la corda ce se pò appendere”, e me ne andai sbuffando. Lucia era peggio della coscienza mia. Pure se non avevo ancora fatto niente, riusciva comunque a farmi sentire già in colpa.

In quel periodo molti ragazzi del paese partirono per la guerra: due dei Parise, Tommaso e i tre fratelli Casotti. Quando pure Gino ricevette la cartolina mi pregò d’incontrarlo al ruscello dove ci trovavamo da piccoletti, ed io non ebbi cuore di dirgli di no.
“Devo andare in guerra, Adelì.”
“L’ho saputo. Me raccomanno sta attento e nun fare lu coraggioso, che nun si capace. Pensa solo a tornare alla casa tua tutto intero.”
“Ma allora t’importa?”
“Ma che si scemo? Certo che m’importa!”
“Allora me voi bene?”
“Nun cominciare Gino. Te voglio bene come a n’amico.”
“Solo?”
“E te pare poco?”
“No, per carità, è na cosa bella, ma io te voglio più bene ancora. Io te penso sempre e quando te vedo me viene caldo e me gira la capoccia.”
“Nun avrai mica magnato qualcosa coi vermi?”
“Eddai Adelì, stai sempre a scherzare tu! Io so serio: me piace tutto de te, li occhi che te brillano quando ridi e pure li ricci tua. Tutto.”
“Se, vabbè, da quand’è che te si fatto poeta?”
“Adelì, perché nun me credi?”
“Nun è che nun te credo, io lo so che tu certe cose le pensi, ma è che sei nu poco esagerato.”
“Se n’omo dice quello che tiene ne lu core nun è mai esagerato. E poi li complimenti alle femmine piacciono.”
“E tu che ne sai delle femmine?”
“Io gnente, ma Carlo m’ha detto cuscì e fratello mio de ste cose ci capisce.”
“Ancora retta a quello dai? Secondo me è meglio che t’impari a fare da solo, che fratello tuo dalle femmine c’ha preso solo dei gran calcioni nellu di dietro.”
“Nun è mica colpa sua, è che s’innamora sempre della femmina sbagliata.”
“Davvero? Sarà na tradizione de famiglia allora.”
“Che voi dire?”
“Gnente, nun è importante. Senti, Gino, mo devo proprio andare, tu prometteme solo de stare attento.”
“Aspetta ancora nu minuto: te devo chiedere na cosa.”
“Cosa c’è? Che voi ancora?”
“Te posso scrivere?”
“Ma che dici? No, che nun puoi!”
“Perché no?”
“Perché nun so leggere, razza de rincojonito! Avrò fatto una mesata de scola scarsa in tutta la vita mia!”
“Scusa, pensavo che avevi imparato ormai.”
“E quando? Mentre ricamavo o quando toglievo la merda dal pollaio?”
Se c’era una cosa di cui mi vergognavo tanto era proprio l’essere ignorante. A casa mia tutti sapevano leggere e scrivere solo io ero peggio d’una capra.
“Dai Adelì, nun c’è bisogno che t’arrabbi. Magari te fai leggere le lettere da quarghidunu.”
“E da chi? Noi nun simo fidanzati, te lo voi mettere nella capoccia? Ste cose le possono fare l’innamorati, mica noi.”
“E se te prometto che quando torno te sposo?”
“Certo, come no! E gliel’hai già detta a mamma tua sta grande idea? Chissà come sta contenta.”
“Che c’entra mamma mia? Sono io che devo sceglierme la moglie, mica lei.”
“Ma se nun te fa scegliere manco li calzini.”
“Nun è vero.”
“Te li fa ancora mettere i mutandoni che pungono?”
“Solo quando fa friddu. Ma questo che c’entra?”
“C’entra, eccome se c’entra! Senti, facciamo na cosa: tu pensa a tornare vivo e poi ne riparliamo, va bene?”

Forse avrei dovuto essere più sincera, come mi aveva detto Lucia mia, ma Gino stava per partire per la guerra: non gli potevo mica dire che lui ed io non ci saremmo sposati mai, che io non ero innamorata e che gli volevo bene come a un fratello. Si può dire una cosa così ad uno che sta per andare in guerra?
E poi quel pomeriggio pensai che lui poteva anche non tornare mai più, e che quella poteva essere la prima ed ultima occasione per provare ciò che provavano le altre. Quelle con la dote. Quelle con un fidanzato. Quelle che nel futuro c’avevano un marito e dei figlioletti.
Così presi coraggio, feci un passo avanti, gli buttai le braccia al collo e lo baciai. Fu una cosa da imbranati, tutta bava e denti. Io che lo tenevo per gli orecchi e lui che m’impastava fianchi e culo come se fossi un bel pezzo di pasta lievitata.
Gino non fece manco in tempo a cercare di stendermi come una focaccia che io me n’ero già corsa via.

Mamma mia, che mi vide arrivare con il fiatone e le guance rosse, mi fece gli occhiacci ma non disse niente. Io andai subito al cassettone. Volevo vedere se ero cresciuta, se dopo quel bacio m’ero fatta donna. Ma allo specchio ci stava la solita ragazzotta senza finezza e con la faccia da furba.

Quando Gino tornò dalla guerra fu molto deluso dal trovarmi già sposata. Ma se ne fece in fretta una ragione e, pochi mesi dopo, portò all’altare una ragazza di un paese vicino, che aveva conosciuto ed ingravidato alla festa del loro santo patrono. Un donnone dalle forme generose ed il carattere da generalessa.

Al figliolo del fornaio sono sempre piaciute le donne dalla crosta tosta e croccante ma dal corpo morbido come la mollica del pane.

Continua...


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Sono giorni un po' così.
Giorni in cui aggiusti una cosa e se ne rompe un'altra.
Giorni in cui le spese sono molte più dei guadagni.
Giorni in cui hai un  milione di cose da fare e il tempo non è abbastanza.
Giorni in cui subisci un danno, e poi un altro, e poi un altro ancora.
Giorni in cui desideri fortemente trasferirti altrove. Ma proprio altrove. Tipo su un altro pianeta.

"Ecce ancilla domina", Rossetti
Poi, nonostante tutto, vai ad una mostra con un'amica.
E ritrovi la bellezza. La bellezza che supera tutto, e tutto addolcisce. La bellezza che ridimensiona piccolezze e difficoltà. La bellezza che non risolve ma nutre di nuova speranza. Perché in un mondo dove esistono cose tanto belle vale comunque la pena di restare e quindi, per ora no, non ti trasferisci su un altro pianeta.

Stamattina sono andata a vedere la mostra dei Preraffaelliti a Torino.
Mi sono riempita gli occhi e l'anima.
Ho guardato ed ascoltato. Ho visto opere nei cui mille particolari è possibile perdersi. Ho scoperto storie drammatiche lontane. Quelle troppo distanti per commuovere, ma tanto appassionate da bruciare.

L'arte, l'amore, il dolore, le donne, il sacro e il profano.
Questa è l'ultima settimana. Se non ci siete ancora andati: correte!

Germania 2006.

Cosa ricordo di quell'evento? Tutto.
Ricordo che indovinai i pronostici di ogni partita dell'Italia. No, non provai a scommettere, ma forse avrei dovuto, anche perché il talento divinatorio non mi si è più palesato in nessuna forma e occasione. Non sarebbe stata una brutta idea approfittarne un po'.
Ricordo l'orgasmo della semifinale. Noi che, per l'ennesima volta, facevamo a pezzi i tedeschi. Che io a quel popolo gli voglio bene, ma il piacere di asfaltarlo durante i mondiali è sempre di una dolcezza infinita.
Ricordo la testata di Zidane e l'ubriacatura di gioia quando Cannavaro alzò la coppa.

Ricordo l'insensata euforia, la musica dei White Stripe, la voglia di festeggiare fino a quando non si chiudevano gli occhi.

Il 1982 fu lieve poesia. Il 2006 uno sfrenato rave.


I Mondiali del 2002 sono perfettamente impressi nella mia mente.
Perfettamente e dolorosamente.

Furono i campionati della Corea e dell'arbitro Moreno. Ma, per me, furono soprattutto i mondiali di Elmar.
Elmar chi? Il mio storico fidanzato teutonico. Conosciuto in Erasmus un anno prima, trascorse gran parte di quell'estate a casa mia.
Oh che gioia! Oh che meraviglia!
Non foss'altro che io, con mira da cecchino, avevo scovato l'unico tedesco allergico al calcio. Allergico al calcio e pure discretamente scassamaroni. Perché non è che lui schifasse il pallone ma lasciasse agli altri il diritto di goderne. No, ma quando mai! Sarebbe stato troppo democratico! Lui schifava il pallone e mi trascinava in giro ogni volta che in tv c'erano gli azzurri.

"Non vorrai mica stare chiusa in casa a guardare quegli scemi che giocano?" mi diceva.
"Non vorrai mica perdere 90 minuti della tua vita dietro una partita di calcio?" continuava.
"Non vorrai mica costringere anche me a questa tortura?" chiosava.
"Ma perché no? Esattamente! Ma tu puoi andartene dove ti pare, anzi se ti fai un giro è pure meglio, che secondo me porti tigna!" gli rispondevo, aggraziata e dolce come un camionista bulgaro ubriaco.

Eppure niente, non c'era nulla da fare. Lui era insistente oltre ogni umana sopportazione. Ed io mi arrendevo pur di zittirlo.

Per questo motivo di quei maledetti mondiali ricordo soprattutto delle scene degne di Fantozzi.
Io che, priva di autoradio, chiedo il risultato parziale al tizio nella macchina accanto alla mia.
Io che, passeggiando, origlio le televisioni degli appartamenti a piano terra.
Io che, coi nervi a fior di pelle, scoppio in lacrime per strada appena vengo a sapere del gol di Del Piero contro il Messico.

Certe esperienze ti segnano e t'insegnano molto.
Una cosa su tutte: peggio di un uomo fissato col calcio c'è solo un uomo che lo odia!

Augusto si godeva le gioie del matrimonio e di una compagna dolce e morbida come un’albicocca matura.
Lucia si godeva la vita che aveva desiderato per tanto tempo e che era arrivata quando non ci sperava manco più.

A me mancava la famiglia com’era prima ma giorno dopo giorno mi abituai e poi, quando iniziarono ad arrivare i nipotini, scoprii che la nuova situazione poteva anche essere meglio della vecchia e che a fare la zia c’ero proprio portata.

Il primo a nascere fu Sandrino, grosso e scuro, con le guanciotte tonde da mordere e gli occhi grandi e neri come pozzi. Era serio e forte: un piccolo ometto responsabile fin dal primo momento passato su questa terra.
Il giorno del parto ce lo passammo tutti assieme. Lucia, la mamma e la levatrice stavano chiuse in camera da letto. Augusto in cortile faceva i buchi nella terra a forza di marciare avanti e indietro. Zia Caterina, zia Rita ed io aspettavamo sedute intorno al tavolo della cucina.

Lucia urlava come un capretto a Pasqua. Augusto pareva sul punto di vomitare dall’agitazione. Io ringraziavo in silenzio il Signore di avermi fatta troppo povera e brutta per sposarmi, avere figli, e passare un inferno così. Zia Caterina sgranava il rosario tutta seria manco si stesse avvicinando il giudizio universale. Solo zia Rita non stava zitta manco un secondo: “I giovani d’oggi nun sono forti e nun sono capaci de sopportare nu poco de dolore” diceva. “Nun ho mai sentito na femmina gridare cuscì tanto, se vede proprio che nun arriva da na famiglia come se deve”, continuava. “Lo si capiva a guardarla nella faccia, cuscì delicatina e chiara, che nun era bona pe fare figli”, malignava. 

Alla fine al posto dei gridi arrivò un pianto forte ed arrabbiato. Il primo ad andare a vedere fu Augusto, poi venne il turno mio e delle zie. La giovane tanto delicata aveva messo al mondo un torello forte e sano. Zia Rita chiuse finalmente quella ciabatta velenosa e, da quel giorno, un piede nella casa di Lucia non ce lo mise più: Augusto c’aveva l’udito fino ed era un uomo che sapeva mantenere le promesse sue.

L’anno dopo fu la volta di Enrico il Bello, chiaro come la mamma, con i capelli sottili ed i lineamenti delicati ma un carattere furbetto fin dalla culla, dove imparò in fretta come attirare l’attenzione per farsi prendere in braccio e coccolare.
Enrico è rimasto così pure da grande, capace di rigirarsi tutti intorno al mignolino suo. Ha fatto perdere la testa a molte femmine e delle volte se n’è pure approfittato quel mascalzone. Io gli ho sempre voluto un mondo di bene ma, quand’era già un uomo fatto e finito, spesso gli avrei voluto dare un paio di begli schiaffoni per raddrizzare quella capoccia leggera. Per fortuna ad un certo punto ha incontrato Lisuccia sua, una brava ragazza, intelligente e giudiziosa che gli ha saputo tenere testa e si è fatta sposare. Ed ancora adesso, che c’hanno tutti e due i capelli grigi e i denti finti, Enrico se la guarda con certi occhi innamorati che pare un pesce lesso. Ora è lui quello a girare intorno al dito piccolo.

Mentre Augusto si occupava della poca terra che avevano e delle loro bestie, Lucia continuava a ricamare da noi. Di lavoro non ce n’era molto, che nel frattempo era scoppiata la guerra ed anche i ricchi di città stringevano un poco la cinghia, ma noi riuscivamo comunque ad andare avanti con tanti sacrifici e le ossa che sporgevano.
Ogni giorno sorella mia veniva a casa nostra e si portava dietro i bambini. Loro giocavano nel cortile tra le galline e il fango mentre noi li tenevamo d’occhio dalla finestra. Quando rientravano erano sempre tutti inzaccherati, belli e zozzi come dei maialini da latte. Mamma e Lucia facevano la voce grossa e li sgridavano, e quei due mascalzoni, un poco per finta e un poco sul serio, si rifugiavano dietro di me.
L’avevano capito subito che io non ero proprio capace a resistere ai loro musetti e alle loro vocette sottili, “Zia Adelìììì” mi chiamavano ed io mi scioglievo peggio d’una scema. Per loro sarei andata a piedi fino al santuario della Madonna, per loro avrei sfidato un re a duello, per loro avrei fatto qualsiasi cosa.

Ogni volta che c’avevo una commissione o una compera da fare  me li portavo dietro: Enrico in braccio, appoggiato al  fianco mio, e Sandro che mi trotterellava accanto.
Delle volte ci fermavamo un poco lungo il ruscello dove, dopo aver preso qualche cerasa dal fondo del frutteto grande, ci sedevamo sull’erba a giocare. Il piccolo si  metteva dritto sui piedi grassocci ma non ci provava neanche ad allontanarsi: mi restava appiccicato fino a quando non gli davo la frutta. Goloso e fastidioso peggio di zia sua. Il grande faceva a gara con me a chi sputava gli ossi più lontano. Io ogni tanto lo lasciavo persino vincere, e da questo si capisce il bene grande che gli dovevo volere fin da quel tempo lì.

Continua...

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