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Tra la fine degli anni '90 e l'inizio dei 2000 io ho vissuto, se si escludono i 6 mesi di Erasmus, dentro La Feltrinelli. Quella dell'8 Gallery, per sabauda precisione. 
Anche se forse, a ripensarci, all'epoca era la FNAC ma non fossilizziamoci su questo. 

Quale che fosse la casa madre io, comunque, ci andavo spessissimo e ci spendevo tutto lo spendibile. 

Ci compravo cd e dvd, tutta roba che adesso serve solo a prendere tristissimamente polvere, ma anche libri, libri e ancora libri. 

In particolare, ogni volta, stazionavo le ore tra le pile di volumi colorati con righe oblique a contrasto sui bordi. Gli economici della Feltrinelli, appunto. 

La casa editrice milanese, negli anni, mi aveva regalato Pennac e Benni e quindi rovistavo ogni volta tra quelle copertine in cerca di nuove scoperte, come avvenne nel caso di Allende e Coe ma anche Campo e Archetti. 

Ogni volta rovistavo e ogni volta mi bloccavo lì, a un passo da Banana Yoshimoto. 

A me la Yoshimoto incuriosiva e respingeva allo stesso tempo. Che dipendesse dal fatto che all'epoca non frequentassi affatto la letteratura del sol levante o dal nome, Banana, che onestamente trovavo irritante, il risultato era che mi leggevo tutte le retro copertine ma mai concretizzavo l'acquisto. 

La scrittrice giapponese quindi, per anni, ha occupato uno spazio invisibile nella mia libreria e nella mia memoria, una sorta di sala d'attesa, in attesa, appunto, che io ne leggessi le opere. 

La Feltrinelli ha continuato a sfornare un romanzo della Yoshimoto dopo l'altro ma io non mi sono mai decisa ad acquistarli. 

Poi un paio di anni fa ho fatto l'abbonamento a Audible, una piattaforma dedicata agli audiolibri, e Banana stava anche lì con tutta la sua prolifica nipponica produzione. 

Un click sul cellulare richiede meno sforzo e convinzione di una passeggiata dagli scaffali alla cassa e quindi alla fine l'ho fatto. Ho scaricato Kitchen, in quanto sua opera prima, ho atteso mesi, mesi e ancora mesi ma poi l'ho ascoltato. Con quei 31 anni di ritardo dalla sua pubblicazione. 

Sono rimasta folgorata dalla scrittura della Yoshimoto? No ma non mi è dispiaciuta. 
Probabilmente, a poco a poco, recupererò tutti i suoi libri dal più vecchio al più recente? Probabilmente. Con calma. 

Ciao, sono Jane Pancrazia Cole, ci metto un po' ma alla fine mi decido.

Io non lo so se sia una storia vera, l'ho trovata ripetuta in diversi siti online ma, ovviamente, potrebbe essere un'invenzione che, col passare del tempo, ha preso le sembianze della verità. 

Ora ve la racconto e sarete voi a decidere se crederci o meno. 

Innanzitutto, ve lo ricordate Indovina Chi? 
Quel gioco degli anni 80' che spopolava ovunque. Le facce dei personaggi erano conosciute da tutti, come il fatto che, se ti capitava una donna o un tizio senza capelli, non c'era possibilità alcuna che tu vincessi la partita. 

Ecco, sembrerebbe che a ideare questo gioco sia stata una coppia: Ora e Theo Coster. 
Lei, Ora, era molto brava a disegnare e, infatti, si occupò della grafica dei personaggi. 
Ora, tra le altre cose, per arrotondare collaborava con la polizia, facendo identikit di ricercati. E qua entriamo nella leggenda. Parrebbe, infatti, che, per sfornare i 24 personaggi del gioco, abbia preso a modello la realtà, partendo proprio dai ricercati. Quindi, tra quelle faccette, tra quei cappellini e quegli sguardi depressi si nasconderebbero delinquenti ma anche poliziotti e figure di spicco della comunità.

In pratica, a guardarli bene, i 24 soggetti sarebbero persone vere, con storie vere, alcune anche drammatiche. Ed è da questo che ho avuto l'idea per un nuovo esercizio di scrittura. Una nuova ispirazione per inventare una storia.

Qua in foto trovi alcuni dei personaggi più iconici e a questo link tutti gli altri. 

Tom, Robert, Claire, Anita. Scegli uno di loro e scrivi la sua storia. Vittima o carnefice, detective o sindaco, trasformati in biografo e racconta la storia che si nasconde dietro un'innocua caricatura.

Durante la mia vacanza parigina, per la prima volta, ho fatto un giro nella libreria Shakespeare & Co. 

Per chi non lo sapesse, si tratta di una libreria notissima, a pochissimi passi dalla cattedrale di Notre Dame, specializzata in letteratura in lingua inglese. Frequentata nei tempi andati da personaggi quali Ernest Hemingway e James Joyce, è diventata prima una meta obbligata per i lettori accaniti, ora più probabilmente una trappola per turisti. 

Io, in quanto lettrice e turista, ho ovviamente deciso di andarci. 

Ecco, Shakespeare & Co. sarà anche una trappola per turisti amanti della lettura, ma chi se ne frega? È una gran bella trappola! 
Un dedalo di sale e salette, un piano superiore delizioso, dove accomodarsi, importunare il gatto francese che ti guarda con quella tipica espressione da felino scocciato, sedie e divanetti dove sedersi a leggere, angoli appartati, macchine da scrivere e poi libri, libri, libri. 

Troppo affollata? Certo. 
Deliziosa? Absolutely! 

In questo trionfo di letteratura e comfort vecchio stile, mi sentivo orgogliosa mentre mi dirigevo verso la cassa con un solo libro tra le mani: “A Shakespeare Motley”, un viaggio illustrato attraverso il vocabolario shakesperiano, da “Actor” a “Zodiac” passando per “Hands”. Mi sentivo in gamba, avevo resistito alle sirene del consumismo. Sì, stavo acquistando un giocattolino letterario per appassionati spendaccioni, ma solo uno. Ero brava. Solo uno. Ecco, così pensavo avvicinandomi alla cassa, fino a quando non l’ho visto, proprio lì, civettuolo e irresistibile. “Orgoglio e pregiudizio”. Preziosa copertina rigida. Versione illustrata. In francese. Maledetti, maledetti maghi del marketing. Me l’hanno messo accanto alla cassa! Vabbè, però sono stata brava, comunque sono uscita da quella trappola per turisti topi di biblioteca con due soli libri. E una deliziosa shopper in tela. Non giudicatemi.

In un rovente maggio, a Torino è tornato il Salone del Libro. 

E, nonostante un torcicollo devastante che da qualche giorno mi fa indossare uno sciccosissimo collare, Marito ed io abbiamo affrontato il clima tropicale e siamo andati a fare un giretto al Lingotto. 

È stata la visita più rapida nella mia personale storia delle visite al Salone, andare in giro rigida come uno stoccafisso ha ridotto il piacere e quindi i tempi, ma ciò non ci ha impedito di tornare a casa con un discreto bottino. 

Dal Libraccio: 
- I Beatles – tutte le canzoni,
perché Marito è un grande appassionato dei ragazzi di Liverpool, 
- Il libro dei personaggi letterari di Fabio Stassi e Scrivere di Anne Lamott, 
perché io ho il feticcio della lettura, della scrittura e di tutto ciò che ci gira attorno. 

Da Sui Generis, Another Country di Julian Mitchell, perché è la casa editrice de Il Morandazzo e Marito e io ne conosciamo l'abilità nella scelta, la passione nel lavoro e l'innegabile mazzo che si fa da 7 anni a questa parte. 

E, infine, da Sefirot, Fabula Deck for Kids, perché non solo lavoro con loro ma sono una grande fan dei loro progetti. E sicuramente presto mi darò alla sperimentazione anche con questo prodotto dedicato ai bambini, perché in fondo, nonostante gli acciacchi da ottuagenaria, sono ancora una fanciullina. 
Incriccata ma fanciullina.

Perché sulle copertine di Harry Potter troneggia il nome J.K. Rowling e non Joanne Rowling? 

Non ve lo siete mai chiesto? 
Non importa, ve lo spiego lo stesso. 

Fu un’idea dell’editore che voleva camuffare un po’ il fatto che l’autrice fosse una donna. Prese questa decisione, convinto che gli autori uomini vendessero più delle donne e anche che, una storia che aveva come protagonista un ragazzino maschio, fosse destinata a essere letta solo da ragazzini maschi che, a loro volta, avrebbero preferito un autore maschio. 
Maschio l’ho già detto? 

In realtà, alla fine, Harry Potter si è rivelato un successo editoriale e culturale senza precedenti. Le vicende del maghetto sono state lette da ragazzini, ragazzine, adulti, bambini, anziani. E tutti ormai lo sanno, J.K. è Joanne, una donna. Che, tra l’altro, non ha nessun secondo nome: quella K di J.K. è un omaggio alla nonna Katherine. 
Un’altra donna, ovviamente.

Dopo Palais de Tokyo, più emozionante fuori che dentro, l’immancabile Louvre e la splendida Versailles, che giro canticchiando tutto il tempo “Grande festa alla corte di Francia c’è nel Regno una bimba in più…”, perché posso essere oltremodo molesta, chiedetelo a mio marito! 

Dicevo, dopo questi ultimi giri, è ora di lasciare Parigi e tornare a casa. 

Lasciare una Parigi soleggiata, bella e gentile. Dove i francesi parlano tranquillamente inglese (lo giuro) e i ragazzi si offrono di aiutarti a portare la valigia sulle scale della metro. 
Sarò strana io ma tutte le mie esperienze in Francia, dal sud al nord, dagli anni ’90 ad adesso, sono sempre state caratterizzate dall’incontro con persone sorridenti, educate e lontane millemiglia dallo stereotipo del francese snob. 
Sarà fortuna o il retaggio sabaudo che mi porto dietro, chi lo sa? 

Ma comunque, sempre, vive la France!

Pensieri sparsi emersi negli ultimi due giorni.

A Parigi chi annaffia le piante lo fa senza timidezza alcuna.  
Passeggi, pensi che stia iniziando a piovere e poi scopri che no, non è il meteo fetente ma il tizio tre piani più su che dà l'acqua ai gerani. 
Una, due, tre volte, in diversi giorni e diversi quartieri della città. L'esperienza empirica pare suggerire che i parigini se ne fottano di chi passa sotto i loro balconi. Difficile stabilire se si tratti proprio d'indifferenza o addirittura di sadismo.

Al museo d'Orsay, di fronte all'autoritratto di Van Gogh, i turisti vengono colti dal medesimo disturbo del comportamento che caratterizza i turisti di fronte alla Gioconda. Non guardano il quadro ad occhio nudo, non sia mai! Si mettono in fila e poi lo fotografano, ignorando volutamente l'esperienza diretta per una brutta documentazione da dimenticare nel proprio cellulare.

Parigi è invasa da enormi orsi di peluche. 
Mi sono documentata: il fenomeno pare aver avuto inizio del 2018. Li trovi seduti ai tavoli dei ristoranti o nelle vetrine dei negozi. Impossibile non amarli con trasporto. 

Gli studenti della Sorbonne hanno le stesse facce e fanno le stesse pause pranzo di tutti gli studenti universitari del mondo. Il che, ne converrete con me, è di gran consolazione. 

Il Croque monsieur meriterebbe di essere importato anche in Italia. Non sarò l'unica a pensarlo? 

Ps: non metto foto illustrative ma questa perché mi piace.

Ieri abbiamo dedicato la giornata a una boulangerie, un mercatino delle pulci e il centre de Pompidou. 

La prima per fare una colazione dolce al volo, alla faccia dei ristoranti vietnamiti. 

Il secondo, quello di Saint-Ouen per la precisione, perché Marito potesse sfogare la sua passione per i vinili. Abbiamo passato le ore tra antiquariato, arte contemporanea, modernariato, un cacciatore di autografi, un collezionista di puffi, poster di moda, tappeti e poi mille milioni di rivenditori dischi. 
Mentre Marito ampliava orgoglioso la sua collezione, io gironzolavo tra i mobili con Edith Piaf di sottofondo e i proprietari che mi salutavano "Bonjour Madame" "Au revoir Madame". Che c'è poco da fare, il "Madame" francese ti fa sentire subito Catherine Denueve, mentre il nostro "Signora" fa millenaria a cui cedono il posto in autobus. 

Il Centre de Pompidou è stata la nostra meta pomeridiana. 
Marito e io, durante i diversi viaggi, abbiamo sviluppato una collezione di musei di arte moderna e contemporanea che abbiamo molto amato, alcuni scoperti per caso altri con cognizione di causa. Come il Berardo a Lisbona e il Mass Moca in Massachusetts, per dirne due. Quindi non ci siamo potuti esimere da una visita al Pompidou per poi svaligiarne lo shop. Perché io non lo so se esistono le anime gemelle o cose così, ma trovare qualcuno con cui condividere le stesse passioni e scegliere senza difficoltà le stesse mete in vacanza è di certo una gran cosa.
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