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La settimana scorsa ho dedicato un reel a un esempio di ottima scrittura televisiva (il settimo episodio della quarta stagione di Stranger Things), oggi invece voglio portare un esempio di pessima scrittura televisiva: l’ultimo episodio di How I Met Your Mother.

Attenzione, spoiler!

Nessuno stupore, questo finale di serie è tra i più criticati e odiati di tutti i finali di serie, ma perché? 

No, non dipende dal fatto che uno possa affezionarsi o tifare per una coppia o per un’altra e quindi rimanere deluso dal risultato finale. Questa spiegazione è superficiale e, onestamente, troppo benevola nei confronti dei responsabili. 

L’odio della maggior parte dei fan per questo finale dipende in realtà dal fatto che, i suddetti responsabili, si siano macchiati di uno dei più ingenui e evidenti errori che si possano fare nella scrittura creativa. 

Ma partiamo dall’inizio. HIMYM vide la luce sugli schermi di tutto il mondo nel 2005 e, all’epoca, Craig Thomas e Carter Bays, co-creatore e showrunner della serie, avevano già ben chiaro come le vicende sarebbero andate a finire, quale fosse il senso del racconto di Ted ai suoi figli. E, infatti, le prime stagioni puntavano a quello: a Robin e Ted insieme, alla fine, in qualche modo. 
La “madre” del titolo era da definire ma la coppia finale no. 

Le cose, però, evidentemente non sono andate come previsto, il successo della serie ha portato ad aumentare il numero delle stagioni (in tutto 9) e la bravura di Neil Patrick Harris ha fatto crescere sempre di più il suo personaggio, diventato di stagione in stagione più centrale nelle vicende e, a modo suo, maturo. 

Capita spesso e chi scrive lo sa – che si stia scrivendo una serie di successo o un romanzo che non lascerà mai la nostra cameretta – che i personaggi prendano il sopravvento e le vicende conducano lungo vie inaspettate. Capita e non c’è niente di male anzi, onestamente, è uno degli aspetti più affascinanti della scrittura. 

Nel caso di HIMYM, la storia si è allungata. Ted, personaggio inconsistente, è diventato sempre più marginale mentre Barney e Robin e la di loro storia hanno preso il sopravvento. Pazzesco! 

Ecco, non così pazzesco quanto il fatto che creatore, showrunner e compagnia cantante si siano messi a tavolino a scrivere l’ultima puntata e, muti e sordi di fronte a tutto ciò che era stato il loro lavoro – a tratti egregio – fino a quel momento, abbiano riportato il tutto alla loro idea iniziale, azzerando, senza giustificazioni accettabili, quello che era stato lo sviluppo della trama e soprattutto dei personaggi fino a quel momento. 

Un errore frutto della spocchia e dell’inspiegabile innamoramento di un’idea che ormai non funzionava più. 

Non c’è bisogno di essere uno scrittore o un esperto di scrittura creativa per rendersene conto e, infatti, è per questo motivo che la maggior parte del pubblico ha bocciato questo finale. Perché stride, non è coerente con il resto del racconto. Un racconto che, fino a quel momento, si era fatto amare. 

Non innamoratevi delle vostre idee, amate la scrittura e i luoghi inaspettati dove vi conduce. 
E, anzi, già che ci siamo, ora fate un esercizio e scrivete il vostro finale di How I Met Your Mother. Sarà sicuramente migliore di quello originale. 

Buona scrittura!
Tra la fine degli anni '90 e l'inizio dei 2000 io ho vissuto, se si escludono i 6 mesi di Erasmus, dentro La Feltrinelli. Quella dell'8 Gallery, per sabauda precisione. 
Anche se forse, a ripensarci, all'epoca era la FNAC ma non fossilizziamoci su questo. 

Quale che fosse la casa madre io, comunque, ci andavo spessissimo e ci spendevo tutto lo spendibile. 

Ci compravo cd e dvd, tutta roba che adesso serve solo a prendere tristissimamente polvere, ma anche libri, libri e ancora libri. 

In particolare, ogni volta, stazionavo le ore tra le pile di volumi colorati con righe oblique a contrasto sui bordi. Gli economici della Feltrinelli, appunto. 

La casa editrice milanese, negli anni, mi aveva regalato Pennac e Benni e quindi rovistavo ogni volta tra quelle copertine in cerca di nuove scoperte, come avvenne nel caso di Allende e Coe ma anche Campo e Archetti. 

Ogni volta rovistavo e ogni volta mi bloccavo lì, a un passo da Banana Yoshimoto. 

A me la Yoshimoto incuriosiva e respingeva allo stesso tempo. Che dipendesse dal fatto che all'epoca non frequentassi affatto la letteratura del sol levante o dal nome, Banana, che onestamente trovavo irritante, il risultato era che mi leggevo tutte le retro copertine ma mai concretizzavo l'acquisto. 

La scrittrice giapponese quindi, per anni, ha occupato uno spazio invisibile nella mia libreria e nella mia memoria, una sorta di sala d'attesa, in attesa, appunto, che io ne leggessi le opere. 

La Feltrinelli ha continuato a sfornare un romanzo della Yoshimoto dopo l'altro ma io non mi sono mai decisa ad acquistarli. 

Poi un paio di anni fa ho fatto l'abbonamento a Audible, una piattaforma dedicata agli audiolibri, e Banana stava anche lì con tutta la sua prolifica nipponica produzione. 

Un click sul cellulare richiede meno sforzo e convinzione di una passeggiata dagli scaffali alla cassa e quindi alla fine l'ho fatto. Ho scaricato Kitchen, in quanto sua opera prima, ho atteso mesi, mesi e ancora mesi ma poi l'ho ascoltato. Con quei 31 anni di ritardo dalla sua pubblicazione. 

Sono rimasta folgorata dalla scrittura della Yoshimoto? No ma non mi è dispiaciuta. 
Probabilmente, a poco a poco, recupererò tutti i suoi libri dal più vecchio al più recente? Probabilmente. Con calma. 

Ciao, sono Jane Pancrazia Cole, ci metto un po' ma alla fine mi decido.

Io non lo so se sia una storia vera, l'ho trovata ripetuta in diversi siti online ma, ovviamente, potrebbe essere un'invenzione che, col passare del tempo, ha preso le sembianze della verità. 

Ora ve la racconto e sarete voi a decidere se crederci o meno. 

Innanzitutto, ve lo ricordate Indovina Chi? 
Quel gioco degli anni 80' che spopolava ovunque. Le facce dei personaggi erano conosciute da tutti, come il fatto che, se ti capitava una donna o un tizio senza capelli, non c'era possibilità alcuna che tu vincessi la partita. 

Ecco, sembrerebbe che a ideare questo gioco sia stata una coppia: Ora e Theo Coster. 
Lei, Ora, era molto brava a disegnare e, infatti, si occupò della grafica dei personaggi. 
Ora, tra le altre cose, per arrotondare collaborava con la polizia, facendo identikit di ricercati. E qua entriamo nella leggenda. Parrebbe, infatti, che, per sfornare i 24 personaggi del gioco, abbia preso a modello la realtà, partendo proprio dai ricercati. Quindi, tra quelle faccette, tra quei cappellini e quegli sguardi depressi si nasconderebbero delinquenti ma anche poliziotti e figure di spicco della comunità.

In pratica, a guardarli bene, i 24 soggetti sarebbero persone vere, con storie vere, alcune anche drammatiche. Ed è da questo che ho avuto l'idea per un nuovo esercizio di scrittura. Una nuova ispirazione per inventare una storia.

Qua in foto trovi alcuni dei personaggi più iconici e a questo link tutti gli altri. 

Tom, Robert, Claire, Anita. Scegli uno di loro e scrivi la sua storia. Vittima o carnefice, detective o sindaco, trasformati in biografo e racconta la storia che si nasconde dietro un'innocua caricatura.

Durante la mia vacanza parigina, per la prima volta, ho fatto un giro nella libreria Shakespeare & Co. 

Per chi non lo sapesse, si tratta di una libreria notissima, a pochissimi passi dalla cattedrale di Notre Dame, specializzata in letteratura in lingua inglese. Frequentata nei tempi andati da personaggi quali Ernest Hemingway e James Joyce, è diventata prima una meta obbligata per i lettori accaniti, ora più probabilmente una trappola per turisti. 

Io, in quanto lettrice e turista, ho ovviamente deciso di andarci. 

Ecco, Shakespeare & Co. sarà anche una trappola per turisti amanti della lettura, ma chi se ne frega? È una gran bella trappola! 
Un dedalo di sale e salette, un piano superiore delizioso, dove accomodarsi, importunare il gatto francese che ti guarda con quella tipica espressione da felino scocciato, sedie e divanetti dove sedersi a leggere, angoli appartati, macchine da scrivere e poi libri, libri, libri. 

Troppo affollata? Certo. 
Deliziosa? Absolutely! 

In questo trionfo di letteratura e comfort vecchio stile, mi sentivo orgogliosa mentre mi dirigevo verso la cassa con un solo libro tra le mani: “A Shakespeare Motley”, un viaggio illustrato attraverso il vocabolario shakesperiano, da “Actor” a “Zodiac” passando per “Hands”. Mi sentivo in gamba, avevo resistito alle sirene del consumismo. Sì, stavo acquistando un giocattolino letterario per appassionati spendaccioni, ma solo uno. Ero brava. Solo uno. Ecco, così pensavo avvicinandomi alla cassa, fino a quando non l’ho visto, proprio lì, civettuolo e irresistibile. “Orgoglio e pregiudizio”. Preziosa copertina rigida. Versione illustrata. In francese. Maledetti, maledetti maghi del marketing. Me l’hanno messo accanto alla cassa! Vabbè, però sono stata brava, comunque sono uscita da quella trappola per turisti topi di biblioteca con due soli libri. E una deliziosa shopper in tela. Non giudicatemi.

In un rovente maggio, a Torino è tornato il Salone del Libro. 

E, nonostante un torcicollo devastante che da qualche giorno mi fa indossare uno sciccosissimo collare, Marito ed io abbiamo affrontato il clima tropicale e siamo andati a fare un giretto al Lingotto. 

È stata la visita più rapida nella mia personale storia delle visite al Salone, andare in giro rigida come uno stoccafisso ha ridotto il piacere e quindi i tempi, ma ciò non ci ha impedito di tornare a casa con un discreto bottino. 

Dal Libraccio: 
- I Beatles – tutte le canzoni,
perché Marito è un grande appassionato dei ragazzi di Liverpool, 
- Il libro dei personaggi letterari di Fabio Stassi e Scrivere di Anne Lamott, 
perché io ho il feticcio della lettura, della scrittura e di tutto ciò che ci gira attorno. 

Da Sui Generis, Another Country di Julian Mitchell, perché è la casa editrice de Il Morandazzo e Marito e io ne conosciamo l'abilità nella scelta, la passione nel lavoro e l'innegabile mazzo che si fa da 7 anni a questa parte. 

E, infine, da Sefirot, Fabula Deck for Kids, perché non solo lavoro con loro ma sono una grande fan dei loro progetti. E sicuramente presto mi darò alla sperimentazione anche con questo prodotto dedicato ai bambini, perché in fondo, nonostante gli acciacchi da ottuagenaria, sono ancora una fanciullina. 
Incriccata ma fanciullina.

Perché sulle copertine di Harry Potter troneggia il nome J.K. Rowling e non Joanne Rowling? 

Non ve lo siete mai chiesto? 
Non importa, ve lo spiego lo stesso. 

Fu un’idea dell’editore che voleva camuffare un po’ il fatto che l’autrice fosse una donna. Prese questa decisione, convinto che gli autori uomini vendessero più delle donne e anche che, una storia che aveva come protagonista un ragazzino maschio, fosse destinata a essere letta solo da ragazzini maschi che, a loro volta, avrebbero preferito un autore maschio. 
Maschio l’ho già detto? 

In realtà, alla fine, Harry Potter si è rivelato un successo editoriale e culturale senza precedenti. Le vicende del maghetto sono state lette da ragazzini, ragazzine, adulti, bambini, anziani. E tutti ormai lo sanno, J.K. è Joanne, una donna. Che, tra l’altro, non ha nessun secondo nome: quella K di J.K. è un omaggio alla nonna Katherine. 
Un’altra donna, ovviamente.

Dopo Palais de Tokyo, più emozionante fuori che dentro, l’immancabile Louvre e la splendida Versailles, che giro canticchiando tutto il tempo “Grande festa alla corte di Francia c’è nel Regno una bimba in più…”, perché posso essere oltremodo molesta, chiedetelo a mio marito! 

Dicevo, dopo questi ultimi giri, è ora di lasciare Parigi e tornare a casa. 

Lasciare una Parigi soleggiata, bella e gentile. Dove i francesi parlano tranquillamente inglese (lo giuro) e i ragazzi si offrono di aiutarti a portare la valigia sulle scale della metro. 
Sarò strana io ma tutte le mie esperienze in Francia, dal sud al nord, dagli anni ’90 ad adesso, sono sempre state caratterizzate dall’incontro con persone sorridenti, educate e lontane millemiglia dallo stereotipo del francese snob. 
Sarà fortuna o il retaggio sabaudo che mi porto dietro, chi lo sa? 

Ma comunque, sempre, vive la France!

Pensieri sparsi emersi negli ultimi due giorni.

A Parigi chi annaffia le piante lo fa senza timidezza alcuna.  
Passeggi, pensi che stia iniziando a piovere e poi scopri che no, non è il meteo fetente ma il tizio tre piani più su che dà l'acqua ai gerani. 
Una, due, tre volte, in diversi giorni e diversi quartieri della città. L'esperienza empirica pare suggerire che i parigini se ne fottano di chi passa sotto i loro balconi. Difficile stabilire se si tratti proprio d'indifferenza o addirittura di sadismo.

Al museo d'Orsay, di fronte all'autoritratto di Van Gogh, i turisti vengono colti dal medesimo disturbo del comportamento che caratterizza i turisti di fronte alla Gioconda. Non guardano il quadro ad occhio nudo, non sia mai! Si mettono in fila e poi lo fotografano, ignorando volutamente l'esperienza diretta per una brutta documentazione da dimenticare nel proprio cellulare.

Parigi è invasa da enormi orsi di peluche. 
Mi sono documentata: il fenomeno pare aver avuto inizio del 2018. Li trovi seduti ai tavoli dei ristoranti o nelle vetrine dei negozi. Impossibile non amarli con trasporto. 

Gli studenti della Sorbonne hanno le stesse facce e fanno le stesse pause pranzo di tutti gli studenti universitari del mondo. Il che, ne converrete con me, è di gran consolazione. 

Il Croque monsieur meriterebbe di essere importato anche in Italia. Non sarò l'unica a pensarlo? 

Ps: non metto foto illustrative ma questa perché mi piace.
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