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Ti piace scrivere e vuoi migliorare la tua scrittura? 
Oggi ho un consiglio per te: cura il tuo vocabolario. 

Le parole sono la base della scrittura. Se vuoi raccontare una bella storia hai bisogno di avere a disposizione più parole possibili, quindi devi curare il tuo vocabolario. 

Come fare? 

Leggendo. Ovviamente. 
Leggi libri, leggi riviste, leggi quotidiani. 

Ascoltando. Ascolta podcast, ascolta le persone attorno a te, ascolta i dialoghi nelle serie, ascolta ciò che viene detto in tv. 

E prendi appunti. 
Segnati le parole che conosci ma usi poco e segnati le parole nuove, che fino a quel momento non conoscevi, cercane il significato e falle entrare nel tuo vocabolario. 

Quando questo piccolo tesoretto di parole inizia a prendere forma, comincia a utilizzarle. 
Scrivi un racconto breve in cui è inserita una parola che conosci ma che usi poco. 
E scrivine un altro dove inserisci una delle parole nuove, di cui hai da poco imparato il significato. 

In questo modo eserciterai la tua scrittura, migliorerai il tuo vocabolario e avrai nuovi spunti creativi. 

Buona scrittura!

Ti piace scrivere e vuoi un consiglio su come migliorare la tua scrittura? 
Ecco il secondo consiglio per te: scrivi! 

Sembra banale ma non lo è. 

Scrivi. Scrivi tutti i giorni. Scrivi e riscrivi. 

Non ore e ore al giorno, non ce la faresti mai, a meno che tu non sia un professionista, non ne avresti il tempo né l’energia. Ma scrivi almeno 10 minuti al giorno o un quarto d’ora. 
Non lasciare che quell’idea fantastica che hai in testa rimanga là, perché la dimenticherai, perderà valore, perderà potenza e non riuscirà mai a diventare davvero una storia. 

Perché una storia sia tale deve passare dalla tua testa alla carta o dalla tua testa al computer. 

Scrivi tutti i giorni un po’ al giorno. 

Non ti preoccupare di quello che scriverai. 
Scriverai epiche schifezze, capiterà spesso, anche i più grandi a casa hanno scatoloni pieni di brutti racconti, è normale, fa parte del processo creativo, fa parte del percorso. 

Scrivi!

Ti piace scrivere e vuoi un consiglio su come migliorare la tua scrittura? 
Il primo consiglio che ti posso dare, il più ovvio, è: leggi! 

Leggi i classici, leggi gli autori contemporanei. 
Sii curioso, sii ingorda, non leggere solo i best seller ma cerca anche nelle piccole case editrici, tra gli autori meno conosciuti. 

E non sono solo io a dirlo, lo dicono anche i grandi. 
Jane Austen consigliò a sua nipote, che voleva darsi alla scrittura, di iniziare a leggere, leggere tanto. E anche Stephen King, nel suo libro dedicato alla scrittura “On writing”, afferma di leggere circa un’ottantina di titoli all’anno e si rimprovera di essere persino un po’ pigro. Non ti consiglio ovviamente di raggiungere certi numeri ma leggi, cerca sempre nuovi stimoli, questo ti permetterà di migliorare te e soprattutto la tua scrittura. 

Io diffido di chi scrive ma non legge. Esattamente come diffido dei musicisti che non ascoltano la musica altrui.

 

Sarà per una questione anagrafica, l’autrice ha più o meno la mia età, ma leggendo “Niente di vero” di Veronica Raimo, mi sono trovata spesso a pensare “oh cavolo, sembro io a vent’anni” oppure “oh cavolo, sembra la mia amica Eli” o ancora “oh cavolo, sembro io ora”. Non necessariamente con una connotazione positiva, ben inteso. 

Il romanzo è bello e spietato, l’autrice racconta se stessa e una generazione intera. O meglio, una tipologia di donna: quelle a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, di sinistra, che amano Berlino, intellettualmente snob, hanno faticato a crescere, spesso non hanno figli, per scelta o meno, e sono in perenne ricerca di se stesse. 

Detta così sembra solo un cliché ma, guardandomi attorno, vi trovo tanti pezzi di tante persone con cui sono cresciuta, oltre che tanto di me stessa. Nel racconto autobiografico della Raimo riconosco frammenti di amiche ed ex amiche ma anche fidanzati e genitori. Ritrovo i drammi e le passioni che ho superato e coltivato. 
Insomma, Veronica Raimo racconta una tribù. Non la migliore forse ma la mia. 

Ma, sia ben chiaro, per apprezzare questo libro non si deve avere né la mia carta d’identità né la mia storia. Anche se non siete le protagoniste di questo racconto, ne siete le figlie, le madri, gli amici e i mariti. Ci siete anche voi, tranquilli. 

Niente di vero è candidato al Premio Strega di quest’anno. Io, in verità, non faccio mai il tifo per i premi letterari e, inoltre non ho letto tutti gli altri candidati, ma una vittoria, in questo caso, mi parrebbe più che giustificata. 
E comunque, nel frattempo, l’opera si è già aggiudicata il Premio Strega Giovani. 

Niente di vero. 
Veronica Raimo. 
Edizioni Einaudi. 

Consigliato.


La settimana scorsa ho dedicato un reel a un esempio di ottima scrittura televisiva (il settimo episodio della quarta stagione di Stranger Things), oggi invece voglio portare un esempio di pessima scrittura televisiva: l’ultimo episodio di How I Met Your Mother.

Attenzione, spoiler!

Nessuno stupore, questo finale di serie è tra i più criticati e odiati di tutti i finali di serie, ma perché? 

No, non dipende dal fatto che uno possa affezionarsi o tifare per una coppia o per un’altra e quindi rimanere deluso dal risultato finale. Questa spiegazione è superficiale e, onestamente, troppo benevola nei confronti dei responsabili. 

L’odio della maggior parte dei fan per questo finale dipende in realtà dal fatto che, i suddetti responsabili, si siano macchiati di uno dei più ingenui e evidenti errori che si possano fare nella scrittura creativa. 

Ma partiamo dall’inizio. HIMYM vide la luce sugli schermi di tutto il mondo nel 2005 e, all’epoca, Craig Thomas e Carter Bays, co-creatore e showrunner della serie, avevano già ben chiaro come le vicende sarebbero andate a finire, quale fosse il senso del racconto di Ted ai suoi figli. E, infatti, le prime stagioni puntavano a quello: a Robin e Ted insieme, alla fine, in qualche modo. 
La “madre” del titolo era da definire ma la coppia finale no. 

Le cose, però, evidentemente non sono andate come previsto, il successo della serie ha portato ad aumentare il numero delle stagioni (in tutto 9) e la bravura di Neil Patrick Harris ha fatto crescere sempre di più il suo personaggio, diventato di stagione in stagione più centrale nelle vicende e, a modo suo, maturo. 

Capita spesso e chi scrive lo sa – che si stia scrivendo una serie di successo o un romanzo che non lascerà mai la nostra cameretta – che i personaggi prendano il sopravvento e le vicende conducano lungo vie inaspettate. Capita e non c’è niente di male anzi, onestamente, è uno degli aspetti più affascinanti della scrittura. 

Nel caso di HIMYM, la storia si è allungata. Ted, personaggio inconsistente, è diventato sempre più marginale mentre Barney e Robin e la di loro storia hanno preso il sopravvento. Pazzesco! 

Ecco, non così pazzesco quanto il fatto che creatore, showrunner e compagnia cantante si siano messi a tavolino a scrivere l’ultima puntata e, muti e sordi di fronte a tutto ciò che era stato il loro lavoro – a tratti egregio – fino a quel momento, abbiano riportato il tutto alla loro idea iniziale, azzerando, senza giustificazioni accettabili, quello che era stato lo sviluppo della trama e soprattutto dei personaggi fino a quel momento. 

Un errore frutto della spocchia e dell’inspiegabile innamoramento di un’idea che ormai non funzionava più. 

Non c’è bisogno di essere uno scrittore o un esperto di scrittura creativa per rendersene conto e, infatti, è per questo motivo che la maggior parte del pubblico ha bocciato questo finale. Perché stride, non è coerente con il resto del racconto. Un racconto che, fino a quel momento, si era fatto amare. 

Non innamoratevi delle vostre idee, amate la scrittura e i luoghi inaspettati dove vi conduce. 
E, anzi, già che ci siamo, ora fate un esercizio e scrivete il vostro finale di How I Met Your Mother. Sarà sicuramente migliore di quello originale. 

Buona scrittura!
Tra la fine degli anni '90 e l'inizio dei 2000 io ho vissuto, se si escludono i 6 mesi di Erasmus, dentro La Feltrinelli. Quella dell'8 Gallery, per sabauda precisione. 
Anche se forse, a ripensarci, all'epoca era la FNAC ma non fossilizziamoci su questo. 

Quale che fosse la casa madre io, comunque, ci andavo spessissimo e ci spendevo tutto lo spendibile. 

Ci compravo cd e dvd, tutta roba che adesso serve solo a prendere tristissimamente polvere, ma anche libri, libri e ancora libri. 

In particolare, ogni volta, stazionavo le ore tra le pile di volumi colorati con righe oblique a contrasto sui bordi. Gli economici della Feltrinelli, appunto. 

La casa editrice milanese, negli anni, mi aveva regalato Pennac e Benni e quindi rovistavo ogni volta tra quelle copertine in cerca di nuove scoperte, come avvenne nel caso di Allende e Coe ma anche Campo e Archetti. 

Ogni volta rovistavo e ogni volta mi bloccavo lì, a un passo da Banana Yoshimoto. 

A me la Yoshimoto incuriosiva e respingeva allo stesso tempo. Che dipendesse dal fatto che all'epoca non frequentassi affatto la letteratura del sol levante o dal nome, Banana, che onestamente trovavo irritante, il risultato era che mi leggevo tutte le retro copertine ma mai concretizzavo l'acquisto. 

La scrittrice giapponese quindi, per anni, ha occupato uno spazio invisibile nella mia libreria e nella mia memoria, una sorta di sala d'attesa, in attesa, appunto, che io ne leggessi le opere. 

La Feltrinelli ha continuato a sfornare un romanzo della Yoshimoto dopo l'altro ma io non mi sono mai decisa ad acquistarli. 

Poi un paio di anni fa ho fatto l'abbonamento a Audible, una piattaforma dedicata agli audiolibri, e Banana stava anche lì con tutta la sua prolifica nipponica produzione. 

Un click sul cellulare richiede meno sforzo e convinzione di una passeggiata dagli scaffali alla cassa e quindi alla fine l'ho fatto. Ho scaricato Kitchen, in quanto sua opera prima, ho atteso mesi, mesi e ancora mesi ma poi l'ho ascoltato. Con quei 31 anni di ritardo dalla sua pubblicazione. 

Sono rimasta folgorata dalla scrittura della Yoshimoto? No ma non mi è dispiaciuta. 
Probabilmente, a poco a poco, recupererò tutti i suoi libri dal più vecchio al più recente? Probabilmente. Con calma. 

Ciao, sono Jane Pancrazia Cole, ci metto un po' ma alla fine mi decido.

Io non lo so se sia una storia vera, l'ho trovata ripetuta in diversi siti online ma, ovviamente, potrebbe essere un'invenzione che, col passare del tempo, ha preso le sembianze della verità. 

Ora ve la racconto e sarete voi a decidere se crederci o meno. 

Innanzitutto, ve lo ricordate Indovina Chi? 
Quel gioco degli anni 80' che spopolava ovunque. Le facce dei personaggi erano conosciute da tutti, come il fatto che, se ti capitava una donna o un tizio senza capelli, non c'era possibilità alcuna che tu vincessi la partita. 

Ecco, sembrerebbe che a ideare questo gioco sia stata una coppia: Ora e Theo Coster. 
Lei, Ora, era molto brava a disegnare e, infatti, si occupò della grafica dei personaggi. 
Ora, tra le altre cose, per arrotondare collaborava con la polizia, facendo identikit di ricercati. E qua entriamo nella leggenda. Parrebbe, infatti, che, per sfornare i 24 personaggi del gioco, abbia preso a modello la realtà, partendo proprio dai ricercati. Quindi, tra quelle faccette, tra quei cappellini e quegli sguardi depressi si nasconderebbero delinquenti ma anche poliziotti e figure di spicco della comunità.

In pratica, a guardarli bene, i 24 soggetti sarebbero persone vere, con storie vere, alcune anche drammatiche. Ed è da questo che ho avuto l'idea per un nuovo esercizio di scrittura. Una nuova ispirazione per inventare una storia.

Qua in foto trovi alcuni dei personaggi più iconici e a questo link tutti gli altri. 

Tom, Robert, Claire, Anita. Scegli uno di loro e scrivi la sua storia. Vittima o carnefice, detective o sindaco, trasformati in biografo e racconta la storia che si nasconde dietro un'innocua caricatura.

Durante la mia vacanza parigina, per la prima volta, ho fatto un giro nella libreria Shakespeare & Co. 

Per chi non lo sapesse, si tratta di una libreria notissima, a pochissimi passi dalla cattedrale di Notre Dame, specializzata in letteratura in lingua inglese. Frequentata nei tempi andati da personaggi quali Ernest Hemingway e James Joyce, è diventata prima una meta obbligata per i lettori accaniti, ora più probabilmente una trappola per turisti. 

Io, in quanto lettrice e turista, ho ovviamente deciso di andarci. 

Ecco, Shakespeare & Co. sarà anche una trappola per turisti amanti della lettura, ma chi se ne frega? È una gran bella trappola! 
Un dedalo di sale e salette, un piano superiore delizioso, dove accomodarsi, importunare il gatto francese che ti guarda con quella tipica espressione da felino scocciato, sedie e divanetti dove sedersi a leggere, angoli appartati, macchine da scrivere e poi libri, libri, libri. 

Troppo affollata? Certo. 
Deliziosa? Absolutely! 

In questo trionfo di letteratura e comfort vecchio stile, mi sentivo orgogliosa mentre mi dirigevo verso la cassa con un solo libro tra le mani: “A Shakespeare Motley”, un viaggio illustrato attraverso il vocabolario shakesperiano, da “Actor” a “Zodiac” passando per “Hands”. Mi sentivo in gamba, avevo resistito alle sirene del consumismo. Sì, stavo acquistando un giocattolino letterario per appassionati spendaccioni, ma solo uno. Ero brava. Solo uno. Ecco, così pensavo avvicinandomi alla cassa, fino a quando non l’ho visto, proprio lì, civettuolo e irresistibile. “Orgoglio e pregiudizio”. Preziosa copertina rigida. Versione illustrata. In francese. Maledetti, maledetti maghi del marketing. Me l’hanno messo accanto alla cassa! Vabbè, però sono stata brava, comunque sono uscita da quella trappola per turisti topi di biblioteca con due soli libri. E una deliziosa shopper in tela. Non giudicatemi.
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