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Ho saputo dell'iniziativa solo questo pomeriggio e quindi rispondo all'appello quasi allo scadere del tempo.
Oggi, 12 aprile 2011, su molti blog e social network si parla della scuola italiana. Ognuno porta la propria opinione ed esperienza.

Io non ho figli, non ancora almeno, ma se un giorno ne avrò spero che frequentino una scuola come quella che ho frequentato io.
Nella mia classe delle elementari eravamo solo in 15.
15 bambini ognuno diverso dall'altro. C'era il ragazzino con gli occhi verdi che mi faceva battere forte forte il cuore e che ogni tanto se ne arrivava in aula senza calze o col maglione scucito. Ma c'era anche la mia compagna di banco, una bambolina bionda, tutta volant e fiocchetti rosa, con un guardaroba da principessa.
Eravamo tutti uguali ma tutti diversi. Vedevamo le differenze, eravamo piccoli mica stupidi, ma per noi non avevano importanza. E lo stesso valeva per la maestra ed i nostri genitori.
Ad ogni festa di compleanno venivano invitati tutti ed ogni gita veniva scelta in modo che tutti potessero parteciparvi.
O tutti o nessuno.

La mia era un'orgogliosa scuola pubblica dove non ci mancava mai niente. C'erano i gessetti e la carta igienica, non ce li dovevamo portare da casa o autotassarci. E per le grandi occasioni il bidello Aldo tirava fuori dallo stanzino delle meraviglie un televisore, un videoregistratore, uno stereo e persino un proiettore di diapositive. Certo, quest'ultimo s'incastrava spesso. Ma quale proiettore non lo fa? E' nella natura stessa dei proiettori, no? Una botta qua, un colpetto là, l'immagine al rovescio, gira, riprova, ecco ora funziona.
Sarò naif oppure è il (tanto) tempo passato a rendere i ricordi troppo romantici, ma a noi queste cose bastavano, le lezioni non erano mai noiose ed in cinque anni ho imparato moltissimo ed ho partecipato ad attività che ancora ricordo  con piacere.
La maestra Egle c'insegnò la storia, l'italiano, la geografia e la matematica. Ci fece fare l'Iliade a fumetti ed un fotoromanzo dei Promessi sposi. Un'ora alla settimana poi venivamo divisi in gruppi e seguivamo i laboratori d'inglese, scienze e teatro. Io ricordo soprattutto la maestra Bruna che mi regalò l'emozione del ruolo di Colombina e la maestra Anna che ripeteva sempre quanto le mie fossero "domande molto intelligenti", facendomi diventare rossa dall'imbarazzo e la contentezza.
Io sono stata fortunata. Ho avuto il privilegio d'incontrare molte insegnanti piene di passione ed iniziativa. Ma sono sicura che il corpo docente attuale sia ancora ricco di soggetti di questo tipo. Persone che amano il proprio lavoro e che, se messe nelle condizioni adeguate, possono davvero fare la differenza e lasciare ricordi indelebili e doni preziosi agli adulti di domani.

In terza elementare arrivò Fabio, un compagno nuovo con una famiglia complicata alle spalle, un carattere aggressivo e molta difficoltà nel leggere. E con lui arrivò anche Carla, la sua maestra di sostegno. Vorrei che i miei figli, anzi vorrei che i figli di tutti, potessero avere la fortuna d'incontrare un Fabio sulla loro strada e che tutti i Fabio d'Italia potessero esercitare il diritto di essere guidati dalla loro maestra Carla.
Lui imparò a far parte di un gruppo, a smussare i propri spigoli ed anche a leggere. A noi venne insegnato che fermarsi ad aspettare qualcuno non è mai una perdita di tempo e che si può essere tanto orgogliosi anche per le conquiste di qualcun altro.

La mia scuola elementare era (ed è ancora) intitolata a Martin Luther King ed un indimenticabile mattina la maestra Egle ci fece uscire dal portone tutti in fila per leggere la targa: "Sapete chi era questo signore?" ci chiese e poi ci raccontò la sua vita, i suoi ideali ed il suo sacrificio. Il mio petto si riempì d'orgoglio: quel signore era stato forte, coraggioso e giusto, e anche noi eravamo un po' speciali a cominciare il nostro percorso sotto il suo nome.

E' così che vorrei la scuola italiana di adesso. Esattamente come quella che ho fatto io.


Il link dell'iniziativa su facebook.
Hanno detto la loro anche: Lumaca a 1000, Panzallaria, Mammamsterdam e tanti altri.
Spiaggiata sul divano, avvolta come un salame nel plaid, con la mente annebbiata dalla febbre, e la televisione a riempire il tempo e lo spazio. Sono queste le tristi condizioni in cui ho trascorso le serate di giovedì, venerdì e sabato. E così, complice l'influenza, dopo anni ho rivisto Sanremo.

Mentre sul palco si alternavano Lucio Dalla che fingeva di dirigere l'orchestra, Josè Feliciano che riproponeva l'inarrivabile "Che sarà", e Celentano che dava spazio al proprio ipertrofico ego, mi sono tornate in mente tutte le canzoni che mi piacevano tanto da piccina. Quelle già vecchie. Quelle che raccontavano una storia. Quelle che mi trasportavano nelle vite degli altri. Io le ascoltavo e ogni volta inventavo svolte improvvise nelle vicende, sottotrame e lieti fine.

Fosse dipeso da me, il protagonista di "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones" sarebbe tornato a casa vivo, a cantare le brutture della guerra e la bellezza della pace. Non sarebbe mai diventato un cantante famoso ma avrebbe conosciuto una ragazza carina e simpatica. Avrebbero messo su famiglia e sarebbero invecchiati insieme sereni. Alla faccia di Morandi che gli voleva tanto male!
Lo straniero di "4/3/1943" sarebbe stato condannato a morte per un crimine non commesso, ma l'avrebbe fatta franca scappando di notte con il suo giovanissimo amore. Arrivati in un piccolo villaggio lui si sarebbe inventato un lavoro da pescatore e lei avrebbe imparato a cucire le reti con le mani e con i piedi, veloce come una scimmia. Bella ma pure un poco pazza.
Lo sposo di "Alice" sarebbe uscito di corsa dalla chiesa. Ma mica da solo: con la fidanzata e tutto il pancione. Lui i dubbi ce li avrebbe avuti non su di lei o sul loro amore, solo sui suoceri. Avidi e prepotenti. I due sposini mancati, ancora con i vestiti da cerimonia addosso, sarebbero saliti di corsa su un treno per costruirsi una vita e una famiglia nuove in un'altra città.


Un giorno la mia maestra delle elementari decise di insegnarci una canzone che a lei piaceva tanto. Io quella canzone lì non l'avevo mai sentita, ma mi piacque da subito. Aveva un titolo che profumava di posti sconosciuti e raccontava una storia magica. C'erano un cavaliere, una dama misteriosa ed una folle corsa.
Io, trascinata dalle note, feci il tifo per il giovane soldato che scappava, scappava per non farsi prendere dalla nera signora.
Quando il nastro terminò la maestra Egle prese subito a spiegarci il significato della canzone.
"Non si può sfuggire alla morte," ci disse, "questa è sempre in grado di trovarci!"
"Oh perdincibacco", pensai io, che per una bimba di 8 anni è l'equivalente di un "Esticazzi!"
Così elaborai di corsa una mia interpretazione. Una in cui la nera signora sarebbe stata una maga potente ma non cattiva. Una maga grande e grossa, tutta vestita di nero, con un viso bianco e tondo come la luna nascosto sotto il velo spesso. Lei, sedutasi accanto al soldato, gli avrebbe finalmente svelato le sue nobili origini e gli avrebbe donato le chiavi del castello da cui governare come principe il suo immenso regno.

A distanza di anni continuo ancora ad amare quelle canzoni, ma anche a farne vivere i protagonisti nelle mie più rassicuranti versioni.


Oggi è il 227° anniversario della nascita di Alessandro Manzoni.
Non che io tenga uno schedario con tutte le date di nascita e morte dei maggiori rappresentanti della nostra cultura, ma stamattina la ricorrenza mi è stata ricordata da Google, che ormai per queste cose è diventato più preciso della prozia Ninuzza. "Pancrazia, ti sei ricordata del compleanno dello zio Filippo? Dell'onomastico della cugina Serafina? Dell'anniversario di nozze della portinaia? Dell'estinzione dei dinosauri? Dei 7000 anni dall'invenzione della ruota? O del primo uomo sulla Luna? No???"

Quindi, in onore del caro Sandrino, che tanta compagnia mi tenne durante i lunghi anni di scuola, ho deciso di raccontarvi un simpatico aneddoto risalente alla mia infanzia.
Ebbene sì, torniamo sul luogo del delitto. Torniamo ad affrontare i fatti e misfatti della mia, nonostante tutto, amata maestra Egle.
In quinta, per festeggiare la fine del ciclo scolastico, la maestra decise di organizzare un vero e proprio Colossal: "I promessi sposi" della 5b. Inizialmente, mossa dal fuoco sacro del teatro, pensò di fare un'ambiziosa rappresentazione su palcoscenico. Poi, resasi conto di non avere a disposizione Carmelo Bene e Paola Borboni ma piuttosto Luca Pistacchio e Angela Mirtilla, optò per uno spettacolo post futurista con diapositive e dialoghi registrati in sottofondo.

Il giorno precedente l'assegnazione dei ruoli, mentre i maschi erano impegnati in attività pregne di contenuto come "chi sputa più lontano", "chi rutta più forte" o "chi piscia più lungo", noi femmine sognavamo un futuro nello spettacolo, e litigavamo per decidere chi avrebbe interpretato chi.
La notte poi nessuna riuscì a prendere sonno per l'eccitazione e la preoccupazione dell'indomani.
Ed il giorno stesso la tensione si tagliava col coltello. Stefi ed io, in lizza per il ruolo di Agnese, ci sorridevamo infingarde ma in realtà avremmo voluto eliminarci vicendevolmente a cartellate. Annamaria e Jessica, vogliose di rivestire il ruolo della protagonista, ebbero uno stravaso di bile quando videro entrare in classe Cristina, con le trecce arrotolate e gli spilloni. Evocativa acconciatura opera della sua astuta ed ambiziosa madre.

La Maestra entrò e ci guardò tutti con un dolce sorriso ed un'aria più materna del solito. E noi, poveri innocenti, non comprendemmo subito cosa significava quello sguardo pieno di colpa.
Ella, pavida, decise di prenderla un poco alla lontana: "Bambini adorati, voi siete in 16, giusto?"
"Giusto"
"E le femminucce sono 10, giusto?"
"Giusto"
"Ma non ci sono abbastanza ruoli femminili per tutte"
"..."
"Quindi..."
"Quindi?"
"Quindi, le bambine con i capelli corti..."
"NOOOOOOOOO", urlammo terrorizzate Stefi, Francesca ed io, immediatamente consapevoli del futuro che ci attendeva.
Accidenti ai capelli ricci! Accidenti alle mamme pigre! Accidenti ai pregiudizi tricotici!

Ricordo ancora le calde lacrime versate da quella mollacciona di Stefania, mentre si aggirava per la classe con il suo mini saietto e la barba finta da Fra Cristoforo.
Ma ricordo anche che Franci ed io, con i cappelli piumati ed i baffoni da Innominato e Don Rodrigo, la prendemmo in maniera molto più dignitosa e professionale.
"E no, maestra, io Don Rodrigo lo faccio pure, però lei non la può tagliare la scena della morte. Io sono il cattivo! Io ESIGO il mio gran finale!", chiesi come una vera diva, sbatacchiando a destra e a manca il mio fioretto da moschettiere.

C'è poco da fare, io ho tanti difetti, ma fin da piccola mi si riconosce un grande spirito di adattamento e una spiccata vena artistica.
E il mio Don Rodrigo rimarrà nella storia dello spettacolo. Che intensità, che profondità, che baffoni!
Brava! Bis!
Avere i capelli ricci è una missione.

Non tutte le donne se li possono permettere. Non è un caso che le permanenti chimiche siano spesso un fallimento, o che i bigodini diano risultati deludenti. Se uno i ricci non ce li ha non se li può dare. Ricce si nasce, non si diventa. E, comunque, non tutte le ricce naturali hanno la forza d’animo, lo charme e la personalità necessari per poter gestire una testa anarchica.

Avere i capelli ricci è una missione, una vocazione e, a tratti, una condanna.

Quand’ero piccola mia madre, stritolata tra il lavoro fuori casa e l’animo da casalinga disperata, per ridurre i tempi di gestione della mia criniera non faceva altro che tagliare. Tagliare senza pietà. Regalandomi un’acconciatura in bilico tra un marine e un impiegato del catasto. Regalandomi così anche un bonus per una manciata di anni di analisi.
“Ma che bel bambino!”, dicevano al mercato. “Sono una femmina!”, ringhiavo io.
“Avete fatto anche il maschietto?”, chiedevano i lontani parenti incontrati per caso. “Sono una femmina”, urlavo io.
“Visto che hai i capelli corti ti faccio fare Don Rodrigo”, mi diceva la maestra Egle. “Va bene, ma voglio pure un cappello con la piuma”, rispondevo io cercando di ricavare qualcosa di buono dalla mia incresciosa situazione tricotica.

Di notte io non sognavo svolazzanti mini poni color pastello o vasche piene di orsetti gommosi. Io sognavo di avere i capelli lunghi. Perché quando hai una sorella molto più grande di te e molto gnocca, ti senti cozza già di tuo, senza bisogno che ogni tre per due si metta in dubbio addirittura la tua appartenenza al genere femminile.

Dovetti aspettare fino alle medie per avere carta bianca e totale controllo della mia chioma. “Mi farò crescere i capelli”, annunciai al mondo. “Cresceranno in larghezza e non in lunghezza”, sentenziò mia madre.

I miei ricci crebbero, crebbero e crebbero. Prima in larghezza. Ma poi anche in lunghezza.

I miei ricci con il tempo sono diventati medi, lunghi, lunghissimi, corti, cortissimi e poi di nuovo medi, lunghi, lunghissimi, corti e cortissimi. I miei ricci sono diventati rossi, biondi, biondissimi, neri, castani e poi di nuovo rossi, biondi, biondissimi, neri, castani. I miei ricci hanno provato spuma, gel e centinaia di tipi diversi di balsamo.
I miei ricci hanno espresso tutte le proprie potenzialità.
I miei ricci esprimono ancora tutte le proprie potenzialità.

Avere i capelli ricci è una missione.
Non tutte le donne se li possono permettere.
Io sì.

L'altro giorno, di punto in bianco, mi è tornato in mente il libro delle cornicette.
Voi ce l'avevate il libro delle cornicette?
La mia maestra di prima elementare, l'anziana Giannetta che venne poi sostituita dalla giovane Egle, ne possedeva diverse versioni. C'era quella delux, quella intermedia e quella per bambini particolarmente imbranati.
Pagine e pagine di cornicette da copiare sul proprio quaderno per dividere le lezioni dai compiti, l'italiano dalla matematica, le note dai bei voti.
Credo che, in realtà, la vera funzione di questi grafici orpelli fosse rendere noi giovani neoalfabetizzati più abili con penna e matita, meno impacciati nei movimenti, più disinvolti nell'approccio alla scrittura.
Insomma, le cornicette dei miei tempi erano la versione moderna e creativa delle "aste" delle generazioni a me precedenti.

Perché vi sto dicendo tutto questo?
Perché il ricordo delle cornicette e, soprattutto, dell'assurdo libro che ne custodiva al proprio interno millemilioni di differenti versioni, si è tirato dietro tutta una serie di memorie e riflessioni strettamente legate ai miei anni delle elementari.
Anni durante i quali si poteva tenere il mondo in ordine con l'uso di semplici disegni geometrici ad ornare una pagina.
O questo è un falso ricordo? Una ricostruzione faziosa del tempo che fu?
Forse, a guardar bene, ad osservare più da vicino, si riescono a vedere anche le scalfiture, le ammaccature dell'imperfetto tempo andato.
Forse anche quelli erano anni incasinati, anni di delusioni e traumi, anni di rapporti appassionati e burrascosi.

Ve la ricordate l'amicizia ai tempi delle cornicette?
Io sì.
Mi ricordo soprattutto le mie tre migliori amiche. Le mie tre compagne di classe preferite.
Noi ci muovevamo sempre in quattro: Rita, Paola, Silvia ed io.

Il padre di Rita lavorava in banca. La madre insegnava inglese. Nelle dinamiche interne della mia proletarissima scuola elementare, ciò era più che sufficiente per darle un ruolo privilegiato, per metterla sopra un piccolo invisibile gradino.
Il tutto era amplificato dalla sua naturale e pacata eleganza, dal suo principesco atteggiamento, dalla sua connaturata aristocratica sobrietà.
Sobrietà che scricchiolò solo per pochi secondi durante uno dei primi giorni di scuola. Quando Rita si presentò in classe con un volantino di un negozio di giocattoli. E io mi avvicinai, come gli altri, per dare un'occhiata.
"È inutile che guardi. I tuoi genitori fanno gli operai: non te le puoi permettere queste cose", disse lei, perdendo il suo proverbiale aplomb ed esibendo una sorprendente acidità.
"I miei genitori lavorano tanto e mi vogliono bene. Quello che puoi avere tu lo posso avere pure io!", risposi, reprimendo faticosamente il desiderio di attaccarle una caccola tra i capelli, e dimostrando tutto il mio amore per le dichiarazioni enfatiche da colonna sonora drammatica.
Questo semplice scambio bastò a farmi guadagnare il ruolo di sua parigrado. I giocattoli non c'entravano niente, era questione di rispetto, dato e dovuto.
A lei piaceva il fatto che io non facessi alcuno sforzo per guadagnarmi il suo affetto.
A me piaceva il fatto che, dietro quella laccatissima maschera, fossero presenti difetti e debolezze. E che solo io conoscessi il suo lato oscuro, più oscuro di tutti, la sua notevole capacità nel fare rutti a comando.

Sempre un passo dietro alla reginetta della classe, a tenerle servilmente il nobile strascico, c'era Paola.
Paola era amica mia solo per sbaglio, per convenzione, per noiosa abitudine.
Lei ed io non avevamo niente in comune, ma ci toccava condividere tutto: la strada per andare a scuola, il cortile, e persino le nostre due migliori amiche.
Io ho sempre pensato che l'antipatia fosse evidente e reciproca. Ma, in realtà, una volta finite le elementari lei cercò, a differenza mia, di mantenere i contatti. Atteggiamento inspiegabile, se non partendo dal presupposto che Paola un po' di bene me ne volesse sul serio.
A tal proposito, fu indimenticabile una sua telefonata fattami in terza media. Io ero di corsa e così, semplicemente, finsi che avesse sbagliato numero.
E quando, pochi giorni dopo, lei mi richiamò per raccontarmi il curioso episodio, e aggiungere "Strano, però, al telefono sembravi proprio tu", io negai. Negai con tutta la sfacciataggine di cui ero e di cui sono capace. Negai. Non per proteggere i suoi sentimenti ma il santino di "buona" che faticosamente mi ero autocostruita. Santino che ancora porto con me. Perché peggio delle prigioni che ci erigono gli altri, esistono solo quelle che ci erigiamo da soli.
Buona? Ma buona de che? Posso essere stronza come gli altri. Anzi, no, lo posso essere in maniera molto più creativa ed esuberante della media. E ciò mi riempie d'orgoglio.
Per la cronaca: sono convinta che lei non mi credette neanche per un secondo.

L'ultima del gruppo era Silvia. La mia anima gemella.
Nella foto di classe Rita e Paola sono sedute, eleganti come due damine e si tengono per mano.
Silvia ed io siamo in piedi, dietro di loro, ognuna con il braccio intorno alla spalla dell'altra.
Le prime due sorridono compite.
Noi ridiamo sguaiate.
Loro sembrano appena arrivate da una festa di famiglia.
Noi da un pomeriggio ai giardinetti.

Le cornicette mi hanno portato a ripensare ad Silvia e alla nostra amicizia. Ho ripensato che pure in quel periodo di cartoni animati, collezione dei puffi e maglioncini rosa i rapporti potevano essere complicati. Anche se ci si provava, delle volte era difficile rispettare i quadretti del foglio, il tratto diveniva incerto, la matita sbavava, le mani sudaticce si attaccavano alla carta.
Silvia era la mia migliore amica. La più migliore di tutte. Meglio di Rita. Un milione di volte meglio di Paola. Eppure litigavamo come cane e gatto. Non ricordo minimamente quali fossero le motivazioni. Ricordo solo che ci urlavamo contro e ci facevamo del male. Passavamo dall'affetto incondizionato alle ripicche più ridicole.
Eppure eccoci là nella foto, abbracciate, testa riccia contro testa riccia, sorridenti. E non solo perché quello era evidentemente un momento di serena tregua, ma perché eravamo amiche sul serio. Non c'era bisogno di troppe spiegazioni. Ci volevamo bene. Nella nostra maniera chiassosa, sconclusionata ma sincera.

Ora che sono passati mille anni le cornicette non le faccio più. Ma litigo ancora, alternando al dolore dello scontro la gioia della riappacificazione.
Silvia non la frequento più, ma ho trovato un suo degno sostituto.
Io odio il Primo d'Aprile.
Per quanto mi riguarda dovrebbe essere cancellato dal calendario.
Il mondo è pieno di persone che detestano il Natale oppure il Capodanno. A me sta sulle balle il Pesce d'Aprile.

Tutto ebbe inizio molti, molti, molti, ma proprio molti anni or sono.
Era il lontano 1987, alcuni di voi non erano neanche ancora nati (e per questo vi odio, sappiatelo), ma io già frequentavo la quarta elementare. Ero un mucchietto di ossa con due guanciotte paffute ed una montagna di ricci sulla capoccia. La mia infanzia scorreva placida e serena tra la puntata giornaliera di Bim Bum Bam e le ossessive repliche di Happy Days, il mio unico mito era Alessandra Martines ed il mio sogno proibito Marc Lenders, i miei improrogabili impegni consistevano nel catechismo e le lezioni di danza con la maestra Marina (la ballerina con il culo più grande dell'universo, che se l'avesse vista la Celentano l'avrebbe fustigata sulla pubblica piazza). Insomma, andava tutto bene, fino a quel maledetto, maledettissimo primo aprile.

La maestra Egle, insegnante dal sorriso gentile e l'animo giocherellone, quella mattina ci riportò i nostri quaderni di matematica corretti.
15 bambini. 15 quaderni. 15 pesci di carta, con annessa spiritosissima e personalizzata frase, occultati tra le pagine a quadretti.
Oh che ridere!
Oh che gran divertimento!

Lo so che vi starete chiedendo in questo momento: "Che cavolo ci sarà stato mai scritto su quello della piccola Jane? E' possibile che lei sia così permalosa da ricordare ancora con astio un'innocente scherzo fatto un'eternità fa?"

Ve lo dico subito cosa c'era scritto: un bel niente!
In effetti i pesci non erano 15, ma 14!
Quella rimbambita della maestra si era dimenticata di farne uno anche per me. Eravamo solo 15 in classe mica 300, ma lei se ne dimenticò comunque uno: il mio.

Io ancora non mi sono ripresa dal trauma. Sob.



N.d.A (1) Avete notato la raffinatezza? Disprezzo talmente tanto il primo d'aprile che questo post l'ho scritto il 2.

N.d.A (2) Guai a voi se provate a convincermi che anche la povera maestrina, una volta resasi conto dell'errore, ci sarà rimasta molto male. Echissenefrega! I commenti solidali con quella stordita scateneranno la mia rabbia cieca. Vi ho avvertito.
Moltissimi anni or sono, la mia ormai celeberrima maestra Egle ci portò nella saletta proiezioni della scuola.
Noi ci mettemmo buoni buoni al nostro posto, lei litigò per un quarto d'ora con la tecnologia ostile, fino a quando non cominciò lo spettacolo.

Non so perché, non so quale funzione educativa fosse stata ravvisata nella pellicola, fatto sta che quel giorno la mia classe ed io godemmo della visione di "Ritorno al Futuro", e dei suoi 118 minuti di puro divertimento.

Alla fine la povera insegnante si trovò a dover gestire una folla di piccoli esaltati, in piedi su sedie e banchi, che urlavano come degli ossessi: "Corri Marty, corri!", con il trasporto e la fede che solo a quell'età ancora si possiedono.

Questo film per me è un dolce ricordo d'infanzia, che mi ha poi accompagnata per tutta l'adolescenza, e che ancora adesso occupa un posto speciale nel mio cuore.

Immaginatevi dunque lo stupore quando ho scoperto che proprio oggi, 5 dicembre 2012, in tutta Italia questa pellicola tornerà ad essere proiettata. Solo per questa sera si potranno godere le avventure di Doc, Marty e della pazzesca Delorean nuovamente sul grande schermo.

È giunto il tempo di tirare fuori dagli armadi i piumini smanicati, e correre tutti al cinema per rivivere un sogno!
Si può citare una citazione?....certo che si può!

L'altro giorno, girovagando tra i blog, mi sono imbattuta nell' "Antonella Beccaria's Blog".
Giovane scrittrice, amante dei gialli e della fotografia (tra le altre cose!).
Nella sua home page campeggia una frase di cui mi sono innamorata e quindi la prendo in prestito....

Non credo nelle otto del mattino. Però esistono. Le otto del mattino sono l'incontrovertibile prova della presenza del male nel mondo.
Gli ultimi giorni, Andrew Masterson, Marsilio Editori.

Essendo ignorante come una capra (come direbbe la maestra Egle), ignoravo assolutamente codesto scrittore e quindi prima di citarlo mi sono un po' informata, ecco quello che ho scoperto:
Classe 1961. Nato in Inghilterra, ma cresciuto in Australia, dove risiede tutt'ora.
Giornalista e scrittore, esperto in noir e polizieschi.

"Gli ultimi giorni", romanzo da cui è tratta la citazione,
è un thriller, che ha come protagonista Joe Panther, spacciatore di professione, detective per hobby, con una peculiare caratteristica: la convinzione di essere Gesù Cristo!!!

...sicuramente un libro particolare, che mi affretterò a leggere!Un uomo capace di partorire un tale pensiero merita tutta la mia attenzione!
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