Girai intorno alla Villa...


Eccomi finalmente alle prese con il primo esercizio del laboratorio di scrittura. In molti (molti di più di quanto mi aspettassi) l’avete svolto. Ne sono nate tante storie diverse, qualcuna profuma di mistero e qualcuna di casa. Per non fare torto a nessuno e non ricordare gli infausti tempi della scuola dell’obbligo, ho scelto di elencare le vostre opere – non in ordine alfabetico – ma nell’ordine in cui le ho ricevute, dalla prima all’ultima. E dopo l’ultima troverete anche il mio racconto. Perché un laboratorio condiviso è sempre un’ottima scusa per mettersi a scrivere, anche per me.

A questo link un “magazine” fatto con le mie manine durante il week end con tutti i nostri racconti, illustrati da una serie di foto che spero essere le più azzeccate possibili. Ho pensato che questo fosse un modo più piacevole e accattivante per leggere il tutto. Ma, se non avete il modo o la voglia di sfogliare questa “rivista”, trovate i racconti anche di seguito.

Buona lettura!

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta principale. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi perché mai, mai, mai e poi mai nella vita io facevo qualcosa che qualcun altro mi diceva di fare.
Una sorta di comandamento nuovo il mio, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi, e non fare mai quel cazzo che ti dice la gente di fare.
Alle elementari ero quello che portava alle maestre i disegni venuti male.
Alle medie non guardavo le bimbe che strillavano nei bagni per segnalarci la posizione.
Al liceo non ho mai studiato una volta, una sola fottutissima volta, per la versione di latino. o veniva a sentimento o non veniva. niente avrebbe potuto farmi cambiare idea.
E all'università ho scelto matematica solo perché era la materia che tutti mi sconsigliavano di seguire. E così eccomi qua, statistico di professione, ad analizzare le abitudini degli altri, a censire quante volte comprate il pane, o andate su google o cazzeggiate sul cellulare con quei vostri giochi da vecchi, facebook, candy crush, fattorie, castelli in aria e cazzate varie.
Avete mai calcolato quanta vita perdete dietro a un cellulare?
Io sì.
Io calcolo ogni cosa.
Io passavo dietro allo schermo di un telefono dalle cinque alle sette ore al giorno.
Un lavoro.
Soltanto non pagato.
L'ho buttato.
Basta scemenze.
Basta tastiere.
Solo vita, vita vera.
Come la vecchia, come questo giardino, come quei ragazzini brufolosi e puzzolenti dell'autobus che mi ha portato qui.
La vecchia ha un gatto. Un gatto più vecchio di lei. Un gatto dal pelo fossile, forse egiziano, o fenicio, ma anziano come il mondo. con in bocca meno denti di lei.
La vecchia e il gatto li vado a trovare ogni giorno.
Il primo giorno fu per chiedere quanto spendeva di luce, gas e riscaldamento.
Mi cacciò via, come un pallone caduto nel giardino sbagliato. un calcio nel culo e amen.
Mi piacque.
Ci tornai, con la scusa di misurare il flusso dell'acqua.
Incredibile i vecchi come credono a qualsiasi cosa.
Mi fece il caffè, accarezzai le ossa del gatto, appena ricoperte di un logoro tappetino.
Poi i giorni diventarono tre, quattro, cinque, sei.
Fino a che non decisi che era l'ora di conoscere i vicini. Dalla porta principale naturalmente.
Aveva a passarci lei, da quella secondaria, lei e il lattaio o il giardiniere.
Io ero la scienza, e la scienza bussa sempre alla porta con la scritta "welcome".
La porta si aprì.

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fui proprio lì che mi diressi… il cuore mi batteva forte. La sensazione di proibito mi seccava la gola, sentivo di star sudando, nonostante i 10 gradi centigradi di temperatura. L’inverno era ormai arrivato e quel giardino, così spettrale e lugubre, sembrava perfetto per una fotografia da cartolina di Halloween. La signora era stata precisa, nelle sue indicazioni. Ed eccomi davanti all’uscio, quello di una casa di campagna fatiscente eppure affascinante, carica di storie. Aprii la porta. Non so cosa accadde ma in quell’istante persi la vista. Non vidi nulla eppure non era buio. Una luce artificiale illuminava la stanza ma io non la vidi. Sapevo che c’era ma non la percepii. Divenni cieca in un istante. Mi appellai agli altri sensi: sentivo odore di stantio e umidità, ma anche di caldo e dolce. Tutto era perfettamente in silenzio, solo le foglie facevano sentire la loro musica attraverso la porta ancora aperta. In bocca, un’aria dolciastra di biscotti e muschio. Sotto i pedi sentivo un pavimento duro, forse ceramiche antiche, forse nuove ma mai pulite, con una patina gelatinosa che premeva contro la suola delle mie scarpe. Dove sono finita? Perché non riesco a vedere nulla? Io mi sforzavo ma, nulla, più tentavo di vedere e meno percepivo con gli occhi. Decisi di andare avanti. Feci un passo. La sostanza sotto i miei stivali premeva e premeva ancora. Ne feci un altro, con cautela. Girai la testa. Avanzai con le braccia in avanti e, istintivamente, misi un braccio piegato sulla testa. Non vedevo nulla, eppure, sapevo DOVE VOLEVO ANDARE. Mi fermai di colpo. Avevo chiuso la porta? Il vento gelido alle mie spalle mi suggeriva che, no, era ancora aperta. Non importa, mi dissi. Proseguii il mio viaggio all’interno di una stanza che non conoscevo, in una casa fatiscente, in un luogo sconosciuto dove una vecchia, sì, vecchia, sconosciuta anch’essa, mi aveva proibito di andare. Cosa cercavo? Perché ero li? Mi domandai. Ora lo so.
Marika De Sandoli

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi. Andai a passo sicuro verso il cortile nel retro della villa che sicuramente aveva visto giorni migliori. Salii i gradini di legno marcio sperando di non rompermi una caviglia e afferrai il pomello della porta, che si aprì in un gemito scricchiolante di cerniere arrugginite. Quello che si parò di fronte ai miei occhi fu uno spettacolo desolante: mobili coperti, polvere e ragnatele ovunque. Non feci in tempo a pensare al fatto che l’anziana signora mi aveva raccomandato di non utilizzare l’ingresso posteriore che una trave di legno cadde fragorosamente accanto alla porta, mancandomi di un soffio. A quella trave ne seguirono molte altre, comprese la scalinata che portava ai piani superiori, le pareti interne, il caminetto si sbriciolò come un castello di carte, levando un fitto polverone di cenere e detriti. Accecato, terrorizzato e disorientato cercai una via di uscita; la porta dalla quale ero entrato era ostruita da travi e macerie, quindi feci un balzo disperato verso l’ingresso principale. Schivando macerie e suppellettili, corsi con la forza della disperazione, ma tutto sembrava crollarmi intorno. Venni colpito da un lampadario ad una gamba, un dolore terribile mi pervase. Cercai comunque di rialzarmi nonostante il dolore e correre verso l’aria aperta e la libertà. Da quel momento in poi ricordo solo polvere, dolore e macerie intorno a me. Subito dopo ero sdraiato supino sull’erba del giardino dell’ingresso principale. Ero salvo. La casa stava collassando su sé stessa: il tetto crollava sulla veranda, le finestre esplodevano lanciando mortali schegge di vetro tutto intorno, le eleganti colonnine in legno si spezzavano come stuzzicadenti. Rimasi un bel po’ di tempo a respirare l’aria fresca della sera, ringraziando di essere ancora vivo, mentre la casa annichiliva fino a ridursi a un cumulo di macerie.
Una volta ripreso, mi avviai zoppicando fino alla mia auto, che feci partire sgommando fino alla casa della vecchia.
“Mi è crollata tutta la casa addosso”, le dissi quasi urlando.
“Sei passato dalla porta posteriore, vero?” mi disse lei con un mezzo sorriso sul volto.
“Non pensavo fosse importante”, risposi.
“Mi ero raccomandata con tutte le mie forze di non farlo. La porta posteriore reggeva tutta la casa, che per colpa tua è andata distrutta”
Sgomento e attonito, rimasi senza parole. Con un filo di voce le chiesi perché non la volesse sistemare. Lei si fece una grassa risata e tra un singulto e l’altro mi rispose: “lì dentro è seppellito quel porco di mio marito, e se l’avessi fatta abbattere se ne sarebbero accorti. Adesso è il problema di qualcun altro. A me non rimane molto da vivere, e in fondo era la fine che si meritava. Grazie per aver donato un sorriso a questa povera vecchia”.
Lo sapevo che non avrei dovuto rispondere all’inserzione, il prezzo era sospettosamente basso. 
Beppe Carta

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Ma fu proprio lì che mi diressi. Tutto intorno era già in penombra, nonostante fossero solo le quattro del pomeriggio. Quella montagna così maestosa di fronte a me aveva nascosto il sole e.. umido. Ce n’era così tanto!
Improvvisamente cominciai a sentire freddo, i brividi arrivarono fin sopra la testa e però eccola lì finalmente, proprio davanti a me, non era l’ingresso principale, ma da quella prospettiva la villa era come incorniciata dal cielo blu, il gran monte e la fitta campagna. Era spettrale, è vero! Ma a me sembrava un’opera d’arte. Una di quelle umili, umane, autentiche, imperfette e bellissime. Non ero mai stata più curiosa di allora. Decisi di entrare. Dritta. Provai ad aprire la porta, la maniglia di ottone ossidato era gelata e wow! Davanti a me vecchi ricordi della casa di campagna dei miei nonni, ricordi felici e il progetto di una nuova vita. Proprio lì. Le ragnatele facevano da protagonista e quell’odore, che era rimasto tale e quale, di quel vecchio armadio mi pervadeva. Il buio si infittiva e sorridevo al pensiero che chiunque altro in quella situazione si sarebbe sentito dentro a un film dell’orrore, mentre a me sembrava di essere tornata per la prima volta, dopo così tanto tempo e tanto peregrinare, finalmente a casa! Era deciso. Sì. Quella sarebbe diventata casa mia! Alla vecchia avrei pensato dopo.
Enza Di Lorenzo

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi…
La vecchia, dopo cinque anni che le portavo il pane, solo questo riusciva a dirmi: “non entrare dalla porta posteriore”. Mai un buongiorno, mai un grazie, mai quattro chiacchiere, solo un rude “non entrare dalla porta posteriore!”. Così ogni volta, le lasciavo il pane lì, sulla consolle all’ingresso e lì lasciavo tutta la mia curiosità su quella porta posteriore. Certe volte, credevo fosse un invito a farlo, ma nelle vibrazioni di quella voce roca sentivo che tanta era la paura che disertassi a quella regola. Cosa mai poteva esserci dietro la porta posteriore? Cadaveri mummificati? Refurtiva? Faldoni di dossier segreti del suo passato di spia internazionale?
Questa era la mia occasione: avevo le sue chiavi, sapevo che lei non era lì e nel mio petto adrenalina, curiosità e soddisfazione facevano volare i miei passi su quel cortile umidiccio e malamente tenuto.
Clic. La porta posteriore si aprì, senza chiave. Il segreto era una semplice cucina, pulitissima, apparecchiata per tre. Giochi di bimbo erano sparsi sul pavimento: una palla, un triciclo di legno, un peluche di pezza. C’era una coperta in patchwork adagiata sulla sedia. Sul tavolo, due bicchieri di vetro, due piatti di ceramica con dei disegni color confetto e una scodella. Sembrava che il tempo si fosse fermato, ma non un granello di polvere, nulla di sembrava vecchio o sgualcito o logorato dagli anni. Era una fotografia, quella che mi apparve, dietro quella porta posteriore, che non doveva essere aperta.
Anonimo

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi… Niente attira come il proibito. Percorsi il vialetto che costeggiava la casa mentre le erbacce umide mi accarezzavano le gambe, quasi mi volessero trattenere. Il muro bianco un po’ scrostato della villa mi riportò alla mente la casa al mare dei miei nonni. Anche quel muro era pieno di piccole gobbe che io da bambina mi divertivo a percorrere con le dita immaginando strade e autostrade per formiche, che in genere bazzicavano lì sopra alla ricerca di un cibo che chissà dov'era. D'istinto alzai la mano sinistra e feci scorrere le mie dita in quelle autostrade immaginarie che non rievocavo da troppi anni. Finalmente svoltai l'angolo e mi trovai di fronte alla porta posteriore che mi attendeva semi aperta e che lasciava intravvedere una cucina rustica, di quelle dove in genere spignatta una donna stanca a cui nessuno chiede più quanti anni abbia ma solo a che ora è pronta la cena. Spinsi la porta e un profumo irresistibile di biscotti mi avvolse, ricordandomi i miei nonni per la seconda volta in pochi minuti. Di mio nonno, in particolare. Era lui che amava cuocere biscotti con le gocce al cioccolato, per addolcire mia nonna, diceva lui, per aumentare la sua glicemia, replicava lei.
Mi ricordavo perfettamente il sole pomeridiano che entrava da una finestra e mi batteva sulla schiena mentre facevo cadere una pioggia di gocce di cioccolato sopra l'impasto, mentre mio nonno maneggiava quel panetto giallo con le sue mani nodose.
Chiusi gli occhi sorridendo e misi piede dentro la cucina.
Era vuota, polverosa e fredda e da nessuna parte vidi dei biscotti.
Francesca Palmas

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi.
Era proprio la storia della mia vita, tutti che cercavano di dirmi cosa non dovevo fare ed io che puntualmente lo facevo. Mica che poi fosse un male, ma certo le responsabilità delle mie azioni me le ero sempre prese tutte.
Girai l’angolo della casa ed in effetti la vecchia aveva le sue buone ragioni, visto che mi ritrovai di fronte ad un muro che mi rendeva impossibile l’accesso da quella parte. Mi toccava passare dalla via ufficiale, suonare al campanello, presentarmi senza rispondere “io” alla domanda “chi è”. È impossibile non rispondere io alla domanda chi è, ci ho provato tante volte ma niente, la risposta esce di getto, senza controllo, più forte di ogni razionale proposito fatto fino ad un attimo prima di premere il dito su quel maledetto campanello. Tutti siamo io di fronte ad un citofono.
Suonai, un attimo di attesa e, contrariamente alle mie aspettative, la porta si aprì senza esitazioni e mi ritrovai davanti il motivo per cui ero lì.
Il vecchio era magro, tremolante, ma con gli occhi vivi e presenti, curato di aspetto nonostante da giorni ormai cercasse di cavarsela da solo; la sua vecchia, compagna di una vita, mi aveva mandato a prenderlo dall’ospedale nel quale era ricoverata per portarlo da lei. Nessun parente, lui troppo anziano per avventurarsi da solo in un viaggio così complicato per una persona di quell’età, dovevo essere sembrata l’unica ancora di salvezza a quella donna.
Mi presentai, dissi il motivo per cui ero lì e mi sembrò che per un attimo, il sole per lui fosse sorto di nuovo: prese in fretta la giacca e mi seguì.
Letizia Battaglia 

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi… con passo furtivo alla ricerca di qualcosa che mi facesse scoprire quel mistero. Da giorni guardavo quella villa, piena di colori…era molto stravagante con le finestre tutte diverse, con i vetri dipinti con disegni fanciulleschi. “E se fosse la casa di Hansel e Gretel? Con la strega che non vede l’ora di mettermi nel forno?” Pensai in maniera divertita a quella opzione. “Ma cosa vuoi che sia?” Non mi fermò il pensiero della strega. Pensavo di poter trovare una fata che mi trasformasse in un Unicorno…o forse un Porcicorno con un corno arcobaleno sulla fronte? Mi scassavo dalle risate solo al pensiero.
“Ma la smetti di pensare e agiamo?”
Mi disse Frulli la mia migliore amica… la mia fata dalla nascita.
“Allora andiamo!”
Le dissi e insieme ci avviammo verso la porta…la maniglia brillava, mi diceva “aprimi sono qui!”
Il colore della porta era di un color madreperla iridescente, non aveva lo splendore che di sicuro ebbe tanto tempo fa perché un po' scrostata e malconcia. Mi sentivo attratta come da una grossa calamita colorata; posai lentamente la mano sulla maniglia e la sentì tiepida. Ma perché la vecchia non voleva che ci andassi? Frulli tremava sulla mia spalla. Non dalla paura…ma dalla trepidazione…non vedeva l’ora, come me, di scoprire cosa celava quella porta. Con cautela girai la maniglia e si sprigionò un lieve profumo di lavanda. “Ohh che meraviglia”, disse Frulli.
“Lo senti Emma? lo senti?”
Diceva Frulli tutta emozionata svolazzando di qua e di là.
“Sì che lo sento ma fermati”.
Allora aprì la porta senza paura…quel profumo mi inebriava…aprì la porta e non trovai più la casa. Mi ritrovai in mezzo a un campo di lavanda fioritissimo con un cielo azzurro ed una luce accecante. “Ma non ci posso credere!” Urlammo.
“Lo abbiamo trovato, lo abbiamo trovatoooo…ecco perché gli uomini del posto dell’Aldiquà non volevano farci arrivare qui!”
Mia madre sarebbe stata felicissima “…vero mamma?” Così lascia andare la mia domanda al vento.
Il giardino delle emozioni e dei ricordi d’amore…non potevano più negarci che ci fosse un posto pieno di amore…allora iniziammo a correre e ci inondammo del profumo dei ricordi.
Patricia Scioli

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi…verso il ferramenta di quella piccola e sconosciuta cittadina. Mi chiedevo “chissà se in questo posto sperduto nel mondo potrò mai trovare quanto mi serve per rimettere a posto e ripristinare il nobile aspetto che secondo me un tempo possedeva quella villa/cottage”. Sì, perché dopo tanti anni di rinunce personali a favore di scelte altrui, avevo improvvisamente deciso, mossa da uno slancio di improvvisa presa di coscienza, di acquistare il tanto agognato cottage in Bretagna. Un po’ per il piacere di trovarmi in queste campagne francesi sempre da sfondo nei gialli di Agatha Christie, che sanno anche di Inghilterra ma senza trovarmi nella perfida Albione, un po’ perché essendo cresciuta e avendo vissuto perennemente in una metropoli, una vita in amene località è sempre ciò che di più lontano sembra poter esistere. Mentre mi dimenavo in queste riflessioni, mi ritrovai di fronte al famigerato ferramenta di Monsieur Claude… la vecchia padrona di casa mi aveva raccomandato di essere sempre molto ossequiosa con lui e di evitare di passare ed entrare dalla porta sul retro… “Perché mai dovrei entrare, in un negozio, dal retro?” Elucubrava tra l’incredulo ed il sospettoso la cittadina, ma soprattutto la Miss Marple, che era in me…
Daria De Turris

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi…
in direzione della porta posta sul retro, la mia curiosità superava la paura di essere scoperta e la conseguente punizione che avrei ricevuto. Nel tragitto che conduceva alla porta posteriore mi domandavo cosa si celava all’interno di tale spazio, come mai era così inaccessibile? Ho trovato risposta ai mille quesiti che mi passavano di mente solo una volta aperta la porta, scoprendo, così, l’amabile segreto della mia vecchia nonna. Rimasi per un lasso temporale indecifrabile attonita, stupita, esterrefatta e senza parole, sorpresa dalle magnifiche pitture che si celavano all’interno di questa stanza. Non sostai a lungo sulla soglia, per paura di essere scoperta decisi di entrare in quello spazio semi oscuro, illuminato dalla semplice luce del giorno e chiusi la porta dietro di me, lasciandomi alle spalle un mondo che mi sembrava ormai distante. Un mondo distante perché pieno di pensieri e problemi che, di fronte a questo nuovo scenario costruito pittoricamente, mi sembravano inutili e superflui. Il mio corpo continuava a fluttuare nello spazio, come una girandola, ripercorrendo visivamente ora il soffitto, ora la parte centrale degli affreschi ed infine la sua porzione più bassa. Non riuscivo a fermarmi se non quando notavo degli strani elementi pittorici a me sconosciuti, simboli allegorici, forse, di un messaggio segreto e protetto da occhi indiscreti. La volta era semplice e lineare, infatti, presentava un soffitto a cassettoni di legno mentre le pareti erano ricche di affreschi rinascimentali che ricordavano miti di epoche ormai passate e lontane che risplendevano grazie alla fioca luce di un sole primaverile.
Nel mentre mi interrogavo chi fosse l’autore di tali opere meravigliose e perché questo suo capolavoro dovesse rimanere coperto e lontano dallo sguardo umano, di colpo sentii udire la voce indistinta di mia nonna che mi cercava. Cosa fare? Con mio grande rammarico fui costretta ad abbandonare questo luogo protetto e meraviglioso per ritornare alla mia nuova quotidianità, costituita, da allora, da nuove consapevolezze e da molteplici dubbi che solo la mia amata nonna poteva risolvere.
Anonimo

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi. La porta era malandata, come del resto tutta la casa. Mi avvicinai a piccoli passi, senza fretta. Poi mi fermai. Mille pensieri. Come avevo fatto a trovarmi lì da solo? Cosa avevo sbagliato negli ultimi giorni, mesi…anni? Gli errori si pagano – lo diceva mia madre – ma non avrei voluto iniziare da lì a saldare il conto. Un rumore improvviso mi scosse. Un gatto malandato si fermò ad osservarmi, senza un occhio. Anche lui. Come me sembrava vederci benissimo. Come potevo pensare di cavarmela? Ricordai ancora una volta le parole esatte della vecchia. Nessun motivo… non ero convinto. Non potevano esserci pericoli immediati. Lo dissi per me mentre posavo la mano sulla maniglia. Nonostante facessi pressione sbuffando, tirando verso di me ed il gatto dietro di me, la porta non si mosse. Poi un lampo. Dovevo solo spingere. Ero dentro. Il tempo passava più lento. Dopotutto potevo ancora arrivare con meno ritardo. Una stanza ampia, ingresso e soggiorno grigio polvere, con polvere naturale che sbiadiva tutto. Non doveva esserci passato nessuno recentemente. Nessun segno di un vissuto neppure remoto. Qualche rivista ingiallita su un tavolino di lato, rischiarato dalla mia torcia. Niente tv, pochi oggetti scomposti. Non avevo troppa autonomia. Pochi passi rumorosi ed entrai in camera da letto. Mi diressi tra il piccolo armadio e lo scrittoio. Doveva essere lì. Qualsiasi cosa stessi cercando l’avrei trovata lì. Poco tempo, una batteria scarica ed un occhio solo. Doveva essere lì. E da secoli.
Anonimo

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi, a passo deciso, spinto dall’impertinenza dei miei tredici anni.
“Io dalla porta principale non ci entro, mi vedono tutti!”
Eccola, la kriptonite dell’adolescenza: l’imbarazzo. E la presunzione che l’universo non abbia di meglio da fare che osservare e criticare ogni tua azione.
Mi rivedo, fermo di fronte alla porta posteriore che, naturalmente, era chiusa. “Naturalmente” lo dico ora, perché, quel martedì pomeriggio di quindici anni fa, rimasi a fissare quel portoncino di legno verde per un minuto prima di bussare timidamente.
Toc toc.
Nessuna risposta. Lo stupore fece posto al fastidio.
Toc toc toc!
Il fastidio fece accomodare l’insofferenza.
Toc toc toc toc toc toc!
E arrivò la rabbia.
A calci. Giuro, quella porta la presi a calci.
Da una delle finestre del primo piano, la vecchia mi guardava inorridita, urlando ogni sorta di improperi: “Ti avevo detto di non entrare di qua! Quella porta è rotta, non si apre! Smettila! Maleducato! Vai via, sparisci!”
Quel giorno, la stimata insegnante di pianoforte Nicla Carsi e mia madre ebbero una animata conversazione telefonica e io non tornai più alla villa.

“Eri proprio impaziente di imparare, eh?”
La voce mi sorprende alle spalle, facendomi sobbalzare le dita sulla tastiera.
“Signora Carsi! Speravo non mi riconoscesse!”
“Suonami qualcosa di bello e ti perdono”.
Lento e doloroso, attacco la prima Gymnopedie, inno alla malinconia di quel ragazzino che vedeva in un pianoforte il mezzo per esprimere la frustrazione di sentirsi diverso da tutti.
Quando finisco, mi saluta con un sorriso soddisfatto e torna al suo tavolo, accolta dai brindisi delle amiche. Franco, invece, mi guarda torvo: l’intermezzo concertistico non è quello per cui mi paga nel suo piano bar. Prontamente intono L’anno che verrà… stasera la suono volentieri: sono proprio contento di essere qui in questo momento.
La Peppa Bennet 

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un'indicazione? Fu proprio li che mi diressi...
non ero mai stata alle regole, o meglio, a quelle senza spiegazioni o che non capivo. Piano, quasi più lenta di una tartaruga, con l'anima che sudava per l'emozione e l'ansia, girai il pomello. Era uno di quelli di ottone, ormai rovinato perché nessuno metteva più piede in quella stanza da anni, a quanto sembrava.
Mi accorsi che era una sorta di serra, misi il piede dentro e uno strato di polvere si alzò nell'aria, sebbene i miei movimenti fossero stati lenti e controllati. La luce filtrava e ristagnava nella stanzetta dalle finestre della serra. L'aria era immobile e un leggero tepore, in quell'autunno tanto freddo, lo si poteva respirare in quella stanza fuori dal tempo. L'ordine che vi regnava era interrotto solo dalle ragnatele e dalla polvere che come lunghe liane invadeva quello spazio. Vidi due scrivanie di legno, antico, pesante, una con sopra libri e penne, calamai e fogli tutti sparsi, e l'altra strabordante di colori, pennelli e tele.
Sulle pareti quadri dipinti, pagine strappate dai libri decoravano la stanza. Due sedioline, tre sgabelli, un divano e due tappeti giacevano sparsi, ma composti in mezzo alla stanza. Rimasi stupefatta, sembrava un posto incantato. Mi chiesi il perché del divieto della vecchia. Ai miei occhi era un posto di quiete per la mente. Azzardai un altro passo, e vidi meglio i fogli sulla scrivania della "scrittura" così mi piaceva definirla. Una pila di carte scritte a mano con tratto leggero, femminile direi. Il testo era ben incolonnato e sembrava una lieve onda che si allungava a destra. Erano versi, forse poesie. Alcuni fogli giacevano appallottolati nel cestino, accanto alla scrivania, mentre altri sopra la stessa. Il tempo in quella stanza si era fermato.
Ratabirata

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi...

... verso l’atrio principale e suonai il campanello. Ma niente. Nessuno rispose.

Aspettai ancora qualche istante e decisi di riprovare. DLIN DLON. Magari non aveva funzionato o non mi aveva sentita.

Presi coraggio e decisi di sbirciare dalla finestra.

Immaginai di vivere in una di quelle classiche scene da film o telefim di pessima produzione, quelle in cui la fase iniziale era con una povera malcapitata che avrebbe creato la suspance dei primi istanti, ma che tutti sapevano che sarebbe morta in modo stupido.

"Corri via!" Tutti pensano questo guardando quelle sequenze e invece lei resta lì davanti al suo destino ormai segnat… AAHHHRG!
Fine dei vaneggiamenti.
Ecco apparire la vecchia.

Indossava il suo solito golfino ceruleo infeltrito e il broncio sorpreso di chi non si aspettava di ricevere una visita.

"Ah, sei tu, cara. Entra"

La vecchia era la signora PJ.

Vedova, due figli che si alternavano ad andarla a trovare e tenerle compagnia e con nipoti ormai grandi, ma che non avevano dimenticato che lei fosse lì, sola e la facevano sentire amata anche e solo con una chiamata quando non potevano passare a trovarla di persona.

Era la mia vicina, ma la vedevo poco. Preferiva starsene in casa e organizzare la sua vita come quando c’era con lei il suo amato marito e intrattenere i numerosi ospiti che si alternavano nella sua casa.

Il loro amore era iniziato in tempo di guerra e si erano trasferiti quando iniziavano a costruire le prime case nel circondario.

La signora PJ era diventata malinconica dopo la morte del marito. Come non comprenderla, in fondo lui era il suo grande amore, così gentile e disponibile.

Nel quartiere tutti lo conoscevano e lo avevano amato.

Loro erano parte della storia del quartiere da quando tutto intorno alla loro abitazione non c’erano molte case più che altro campagna e campi.

Alla signora PJ, il vedere acquistare le case del vicinato da nuove coppie che subentravano agli anziani con cui aveva condiviso la giovinezza non la rendevano affatto triste, ma – al contrario – piena di speranza.

Il susseguirsi delle generazioni e delle nuove famiglie la riportavano alla fine degli anni 40 quando, neo sposi e pieni di progetti, anche lei e il sig. PJ si erano trasferiti.
Laura Sabato 


Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo Dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un'indicazione? Fu proprio lì che mi diressi. L'erba era alta, mi bagnai le caviglie; sentivo l'acqua fresca, un lieve fastidio, come un avvertimento. La porta era vecchia e logora, di legno, a grandi listelloni che furono verdi, ma che oggi somigliavano ad un vecchio albero rugoso. La toccai con un po' di timore e allo stesso tempo con una curiosità irrefrenabile. Al tatto era quasi morbida, gonfia com'era di umidità. Aveva uno di quegli antichi anelli attaccato al centro, lo accarezzai e sentii il freddo e il ruvido del ferro. Tutto aveva un odore come di cantina e di terra bagnata, provai a spingere ma mi resi subito conto che si apriva al contrario. Non aveva un pomello ma solo il buco della serratura. Provai ad infilarci un dito per tirarla verso di me, ma nulla. Mi ricordai di quella vecchia chiave, doveva essere lei la chiave giusta. Questo luogo mi riempiva di emozioni: mi faceva un po' paura ma al contempo esercitava su di me un magnetismo irresistibile, come quando da bambina mi infilavo in tutti i posti più nascosti dalla nonna, a cercare chissà che, ad indovinare la storia degli oggetti, chi li avesse toccati ed usati, a come erano vestite le persone all'epoca e a quali erano le emozioni che le muovevano. Era come precipitare in un vecchio romanzo ricco di personaggi e particolari, ma di un colore un po' sbiadito, come quelle vecchie illustrazioni con signore dagli abiti gonfi e gli ombrellini per il sole a passeggio con distinti signori dal monocolo ed il cappello. Il tempo passa veloce lasciandomi là rapita in una specie di film proiettato nella mia testa. L'odore forte del legno mi risvegliò da quel sogno.

Lisa


Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi.

Come mio solito ero arrivato tardi alla cena di compleanno di Gianfranco, un collega con cui non avevo neanche tanto feeling.

Odiavo le feste di compleanno, così chiassose e finte, ma odiavo ancora di più le cene di compleanno, bloccato in un posto a parlare con sconosciuti.
Gianfranco aveva avuto un'idea splendida, fare la cena in un mega ristorante cinese appena fuori città.  

"La muraglia Cinese" era una struttura immensa, un inno al capitalismo e all'incompetenza, oltre 1500 coperti e un parcheggio che conteneva appena un terzo dei posti macchina. Visto il notevole ritardo misi la macchina in un posto ai limiti della legalità, sperando nella fortuna che ovviamente non mi assistette.

Dopo circa 10 minuti un altoparlante interruppe la musica new age in perenne sottofondo e annunciò "la punto targata rtx 234 è da spostare con la massima urgenza". Mi alzai di scatto e mi fiondai fuori per spostarla.

Salii in macchina in cerca di un posteggio, era tutto pieno.

Decisi di circumnavigare l'enorme ristorante sperando di trovare nel parcheggio sul retro, percorsi quasi 5 minuti e avvistai un posto in una zona poco illuminata.

Aprii la porta sul retro e imboccai un corridoio illuminato da freddi neon, sembrava un'installazione militare, attraversai una porta che si aprì automaticamente al mio passaggio e mi trovai a un bivio: si aprivano due corridoi lunghissimi che al loro volta avevano varie diramazioni, imboccai quello a destra.

Passarono 5 minuti di cammino e mi bloccai davanti a una porta con dei simboli cinesi, che sperai significassero "accesso al ristorante".

Mi si aprì una sala enorme con delle vasche in cui erano immersi dei cinesi, totalmente coperti da un liquido gelatinoso verde; le vasche erano collegate a dei tubi e sopra ognuna c'era una lampada che emanava lampi a intermittenza.

Mi aggirai guardingo tra le vasche e notai che nelle prime c'erano degli anziani, col procedere verso il fondo della sala l'età si abbassava, fino alle ultime dove gli occupanti avevano un'età di circa 18 anni.
Sentii un forte vociare e un rumore come di rotelle nel corridoio, feci in tempo a nascondermi, appiattendomi dietro una vasca, quando entrarono 3 cinesi portando una barella su cui era disteso un uomo di circa 90 anni, chiaramente in fin di vita.
Lo sollevarono dalla barella e lo immersero nella vasca, accendendo la luce dedicata.
Mi appiattii ancora di più e decisi di attendere, una volta usciti aspettai almeno 40 minuti e poi decisi che era il momento di fuggire, ma prima mi avvicinai alla vasca per vedere il corpo appena immerso.
Quello che vidi mi terrorizzò: un corpo di una persona di circa 60 anni, era ringiovanito di 30 anni. Preso dal panico uscii correndo e ripercorsi il tragitto che avevo fatto per entrare, dopo 5 minuti mi trovai fuori nel parcheggio e tirai un sospiro di sollievo, salii in macchina e mi allontanai a folle velocità verso casa, scrivendo un messaggio a Gianfranco per giustificare l’assenza.
Avevo assistito a un Cocoon in versione cinese, pensai che il luogo comune che "i cinesi non muoiono mai" era proprio a vero.
Mi spogliai, avevo bisogno di una doccia per schiarirmi le idee e capire cosa fare, sarei dovuto andare dalla polizia o fare finta di nulla?
Suonò il citofono, sobbalzai. Chi poteva essere a quest'ora?
Risposi e mi si gelò il sangue, era il fattorino de "La muraglia cinese" con il mio ordine a domicilio, ordine che non avevo mai fatto.
Roberto Tavella


Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che si diresse, aveva sempre seguito le regole ma aveva smesso da un po’ di farlo. Cose innocue per carità ma cose che la rendevano un po’ più libera, un po’ più leggera. La porta scricchiolò, il movimento spostò una tendina, il caldo e due occhioni dolci l’accolsero. Era una cucina, una splendida cucina d’altri tempi. Pentole appese in alto. Pentole sul fuoco che sbuffavano. Credenze piene di cibo. Una donna di colore borbottava mentre tagliava con prepotenza del pollo. Tossì per far sentire la sua presenza. La donna si girò e il cane le andò incontro scodinzolando. “Salve, lei deve essere la nuova ospite della contessa... coraggiosa... la contessa vieta a tutti di venire qui in cucina” disse la donna mentre riprendeva a martoriare il povero pollo. “Più che coraggiosa, direi disubbidiente”. “Beh, a volte può essere la stessa cosa” le disse alzando il sopracciglio con espressione d’intesa.

Bionda per scelta


Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi…

Avevo solo diciannove anni, ma il mio corpo era sempre più prossimo a quello di un uomo, sebbene la mia voglia di avventura rimanesse quella tipica dell’età imberbe, sconsideratamente curiosa.
La vecchia poteva ben immaginare che non avrei resistito certamente alla sua interdizione. Da quando mi ero trasferito in città quella villa continuava ad attirarmi a sé e a respingermi, come l’onda fa con la rena. Più mi avvicinavo all’ingresso, più avevo la sensazione che mi rifuggisse. Austera nei sui marmi tipici, lasciava a colonne dalle sembianze femminili sopportare il suo peso. Freddi corpi bianchi, rotondi e lisci come quelli stampati sui libri d’arte. Gli occhi persi nell’infinito nulla, le bocche socchiuse a sussurrare cori di vento. Il suono dei miei passi restituiti dal legno massiccio del portone d’ingresso sembravano dettare il tempo al loro canto.
Ai lati, come rigoli i due selciati che conducevano alle logge. Che conducevano al retro.
Antonio Savinelli


Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi. Sapevo che mi era vietato ma non potevo certo tirarmi indietro. “Solo i servitori usano la porta posteriore” mi aveva detto più volte la vecchia. La vecchia tata, Clara. Ma ora non m’importava, non mi doveva importare. Stavamo giocando a nasconderci in giardino e, come al solito, io ero sotto. Accidenti a loro! Elsa, mia sorella, si era infrattata chissà dove, impossibile da trovare, la maga dell’occultamento tra felci e cespugli. Un fungo, praticamente. Ma Giovanni, quel baro di mio cugino, contro ogni regola da gentiluomo, era sgattaiolato dentro la Villa dalla porta posteriore, avevo riconosciuto la sua zazzera bionda un attimo prima di vederla scomparire dietro la porta che si chiudeva. Non c’era tempo da perdere, dovevo andargli subito dietro o l’avrei perso per sempre, dentro quel guazzabuglio di corridoi e stanze. No, non potevo lasciarmelo scappare, mi rifiutavo di perdere anche contro Giovannino. Elsa va bene ma Giovannino no, ne andava della mia dignità! Con le mie scarpe di vernice e i calzoni corti feci uno scatto verso la porta, girai la maniglia, venni investito dai profumi della cucina, vidi Giovannino scappare verso il fondo del corridoio, passai sotto le gambe di Alfredo, il maggiordomo, “Signorino, cosa state facendo?”, travolsi una cesta con le camice inamidate del Conte, mio padre, zigzagai tra due giovani valletti, “Ma che ci fa lui qua?”, attraversai al volo il salottino della servitù, feci volare con una capocciata un vassoio di biscotti, “Ma che succede? Accidenti!”, salii a due a due le scale che portavano al piano di sopra, spalancai la porta, allungai le dita e finalmente lo acciuffai.“Ahi! Ahi! Ahi! Lasciami i capelli!” frignò Giovannino.“Ti ho preso, ti ho preso, ti ho preso!” gridai io, Adalberto Federico Tancredi detto Gino, orgoglioso dei miei ricci pieni di briciole, dei calzoni strappati e dell’antipatia – guadagnata sul campo – di tutta la servitù.

Jane Pancrazia Cole
E domani, sempre su questo blog, saprete quale sarà il prossimo esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura.

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