Per l'ultimo esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura ho scritto un racconto, scegliendo il ragazzo in foto come protagonista. Era una storia breve e senza impegno, quella di un uomo che attende una donna in ritardo a un appuntamento. Una volta finita mi sono subito resa conto che non bastava ciò che avevo scritto, ci voleva anche il punto di vista di lei. Quindi ora, eccoli entrambi: prima lui e poi lei.
Un minuto.
Un minuto di ritardo.
Non è grave, sono sicuro che stia arrivando. È colpa mia, io sono sempre così puntuale che passo la mia vita ad aspettare gli altri. Sono sereno, già che ci sono scrivo a quel cliente.
Un minuto.
Un minuto di ritardo.
Uno dei laccetti di cuoio dei miei sandali si rompe proiettandomi sull’asfalto a pochi metri da lui. Più che le ferite, brucia l’umiliazione. Una signora mi porge la mano, mi sollevo, lo cerco con lo sguardo. Non si è accorto di nulla, scrive al cellulare, per fortuna.
Cinque minuti.
Cinque minuti di ritardo.
Guardo lungo la strada. Non arriva. Cerco notizie sul cellulare. Nessun messaggio su whatsapp, non un cenno su messenger, neanche un vecchio caro sms. Tranquillo. Sono tranquillo. Rido a un meme del mio socio.
Cinque minuti.
Cinque minuti di ritardo.
Mi infilo dentro il centro commerciale che si trova dietro l’angolo. Con le scarpe in una mano, cammino a piedi nudi fino al primo negozio di calzature. Se faccio in fretta forse riesco a salvare l’appuntamento.
Quindici minuti.
Quindici minuti di ritardo.
Cammino avanti e indietro sul marciapiede. Spero che arrivi presto. Ma vorrei che non mi beccasse in piena crisi di ansia, vorrei avere un'aria più cool ma proprio non ci riesco. Che mi becchi pure così, che rida di me vedendomi da lontano mentre macino km sul marciapiede e armeggio col cellulare, che mi becchi pure così, basta che arrivi. Presto. O anche tardi. Basta che arrivi.
Quindici minuti.
Quindici minuti di ritardo.
Scelgo un paio di adorabili sandali ma mi accorgo di aver dimenticato la carta di credito in ufficio. Non ho molti contanti con me: l’unica cosa che posso permettermi è un paio d’infradito.
Andrò all’appuntamento con il tizio carino del bar, il tizio su cui ho fantasticato per settimane, con un paio di infradito di plastica. Due zattere verde mela di due numeri in più. Mi accascio su una panchina di fronte al negozio. Un piangino isterico ora non me lo leva nessuno.
Trenta minuti.
Trenta minuti di ritardo.
Ha il telefono staccato. Riempio l'aria di parolacce assortite, una signora copre le orecchie del nipote e mi guarda con rimprovero. Giro i tacchi e faccio per andarmene.
"Scusa" sento alle mie spalle.
Mi giro.
Eccola.
"Oddìo, scusa il ritardo! Temevo di non trovarti più, il lavoro, la metro, il cellulare scarico, sono un disastro" ha l'aria arruffata, ha corso, gli occhi lucidi, sta per piangere.
È davvero dispiaciuta. Voleva davvero esserci, ora c’è. Basta che arrivi, mi ero detto.
"In ritardo? Figurati anch'io sono appena arrivato".
Trenta minuti.
Trenta minuti di ritardo.
Decido di tornare a casa. Ora gli scrivo un messaggio per avvertirlo che ho avuto un contrattempo. Prendo il cellulare dalla borsa: è scarico. Non mi perdonerà mai. Mi odierà per sempre. Dovrò anche cambiare bar.
Prima di andarmene, lo spio da dietro l’angolo, è ancora là , dopo mezz’ora non ha ancora rinunciato, fa avanti e indietro sul marciapiede, è nervoso, arrabbiato, deluso.
È adorabile.
Non ero l’unica a tenerci a questo appuntamento.
Mi avvicino, “Scusa” dico alle sue spalle.
Si gira.
“Oddio, scusa il ritardo! Temevo di non trovarti più, il lavoro, la metro, il cellulare scarico, sono un disastro"” continuo. Sono orrenda, mento per salvare la dignità , sto per piangere.
"In ritardo? Figurati anch'io sono appena arrivato", mi sorride.
Spero tanto che non mi guardi i piedi.
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