Ci lasciamo l'amata New York alle spalle e partiamo per la capitale, mezzo scelto: treno.
Mentre marito sonnecchia, io studio la guida e scopro che Washington è nata dal nulla, progettata sulle sponde del fiume Potomac per essere la grande capitale di una grande nazione. Scopro anche che, a parte le zone centrali e più prestigiose, non è certo famosa per la sua sicurezza. Infine che, data la sua posizione geografica, d'estate ci fa un gran caldo, con un clima definito addirittura, tropicale. "Esagerati!" penso io.
Arriviamo a Washington: fa un caldo porco!
Il nostro albergo si trova nella zona delle ambasciate. Alla reception, oltre l'acqua, ci sono i pop corn disponibili per gli ospiti. L'acqua c'era anche nell'albergo di New York ma i pop corn, i pop corn?!? Magari non lo sapete ma poche cose al mondo mi piacciono quanto i pop corn. Cioè, per farvi capire, tra una ciotola di pop corn e una stecca di cioccolato, io vado per la ciotola; tra una ciotola di pop corn e una di gelato, io vado per i pop corn; tra una ciotola di popcorn e un piatto di bucatini all'amatriciana io vado... beh io vado per i bucatini, non esageriamo ora!
Comunque quest'albergo, elegante e colorato, con questa mossa di marketing-coccola mi conquista subito. Come la signora alla reception, tanto carina ed educata, che parla, parla, parla. Noi annuiamo. Abbiamo capito tutto, più o meno. Poi saliamo in ascensore, schiacciamo il pulsante del nostro piano. L'ascensore non parte. Rischiacciamo. Nulla. Iniziamo a brontolare "Ecco, tutto figo, ma l'ascensore è rotto, che cazzari". Sale un altro ospite. Ci guarda. Noi lo guardiamo. Lui ci riguarda. Noi lo riguardiamo. Lui ci guarda un'altra volta. Noi sorridiamo, fingendo sicumera ma ormai la nostra espressione è universalmente catalogabile come "Non ci stiamo capendo un cazzo". Lui la riconosce quindi prende la tessera della sua stanza, l'inserisce in una fessura e schiaccia un pulsante. L'ascensore parte. Ops!
"La prossima volta ascolta quello che dicono alla reception, invece di trafficare col cellulare" sibilo a marito.
"La prossima volta ascolta tu, invece di fiondarti sui pop corn" risponde lui, mentre io già mi pento di non averne mangiati altri "Dici che ne posso prendere anche quando usciamo o pare brutto?"
Washington è un grande museo a cielo aperto, una celebrazione alla grandissima dei grandi Stati Uniti. C'è il monumento dedicato a Thomas Jefferson, una sorta di tempietto laico; quello famosissimo a Lincoln, dove lui ti guarda dall'alto con il suo storico cipiglio; la Casa Bianca, che si guarda da lontano, mooolto lontano; il Campidoglio, incredibilmente maestoso; il muro per i caduti in Vietnam, con tutti i nomi incisi e i registri consultabili per trovare il proprio caro perduto; le statue per quelli in Corea, ritratti proprio come se fossero in missione nella natura fitta; e poi, ovviamente, l'obelisco dedicato a George Washington. Quello di Indipendence Day, oltre che di altre migliaia di film catastrofici. Tanto che mentre lo guardo il mio primo pensiero è: "Siamo nel posto peggiore al mondo nel caso ci sia un'invasione aliena, speriamo che vada tutto bene".
Va tutto bene.
Ci sono solo due piccoli problemi, insignificanti, che ci danno noia durante i pochi giorni trascorsi nella capitale: lo spazio e il tempo. Ossia i km da percorrere tra un'attrazione e l'altra, e le variabili quanto estreme condizioni meteorologiche.
Washington, come dicevo, è stata costruita dal nulla per essere una capitale, per essere un luogo di celebrazione. Quindi in centro città hanno pensato bene di realizzare il National Mall, un parco enorme punteggiato dai grandi monumenti eretti in onore degli uomini che hanno fatto grande la nazione: presidenti, padri della costituzione e soldati caduti in battaglia. Quindi tutto ciò che vi ho nominato precedentemente, e molto altro, si trova spalmato all'interno di questo parco. Monumenti distantissimi l'uno dall'altro, raggiungibili solo tramite eterne camminate sotto il sole cocente. Ed ecco il secondo problema: a Washington cammini come un dannato sotto un sole che ti uccide e, se non c'è il sole, c'è un'afa che ti soffoca, preludio crudele di una pioggia torrenziale, che arriva a breve sbatacchiando l'ombrellino – che con tanto amore ti sei comprata a New York – come una foglia al vento.
Il punto più alto, o più basso, della fatica lo raggiungiamo al Cimitero nazionale di Arlington, che io insisto per visitare per poter vedere la tomba di John Fitzgerald Kennedy. Là turisti, americani e non, strisciano per le verdi colline, punteggiate da migliaia di lapidi bianche, e mentre sopraffatti dall'umidità sudano come ramarri, perdendo l'80% dei liquidi corporei, iniziano a considerare la morte come una liberazione più che una condanna. Mi rendo conto che è altamente irrispettoso pensarlo all'interno di un cimitero ma vi chiedo di apprezzare quanto meno l'onestà di questa mia cronaca.
Al contrario, stiamo un gran bene al National Air and Space Museum, museo dell'aviazione e dello spazio, dove si entra gratis e si va dai fratelli Wright fino agli shuttle. Perché noi, bambini negli anni '80, apparteniamo a quella generazione che ha sognato, almeno una volta nella sua vita, di diventare astronauta.
Washington è una città davvero strana, imponente ma con angoli importanti di povertà, un'esibizione di forza e potere che non è in grado di nascondere, ma anzi esalta, le contraddizioni della nazione. Ricchi e poveri. Multilaureati e analfabeti. Americani e immigrati.
Vedi il Campidoglio e ti rendi conto che questo paese era destinato ad essere quello che è diventato, ne aveva i mezzi ma, soprattutto, l'ambizione. Qual è la prima versione del sogno americano? Il sogno di una nazione di dominare il mondo. O di "esportare la democrazia", come tanto piace dire a loro. Washington è un'affascinante celebrazione con i suoi lati oscuri. Una città in grado di raccontare molto della complessa nazione che rappresenta.
Dopo due giorni rifacciamo le valige. Domani ci aspetta la macchina che abbiamo noleggiato per cominciare la parte on the road del nostro viaggio.
Continua...
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