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Noi siamo i ricordi degli altri.

Fra sessant'anni per mio nipote sarò ancora la zia dei racconti, della grande scrivania e dell'insalata di riso.
Sembra poco e invece è tantissimo.
Io ho un nipote. Ha cinque anni. E lo invidio moltissimo.
Non gli invidio i grandi occhi neri, la leggerezza dell'età o l'innato carisma.
No. Gli invidio i nonni.
Io non ne ho più, ormai da molti anni. In realtà la vita è stata generosa con me. Me ne ha regalati addirittura cinque. Non mi sono fatta mancare nulla, ho avuto la nonna bisbetica e quella rudemente accogliente, il nonno protettivo e quello mitologico. Ho avuto perfino il nonno putativo.
Ma ho sempre avuto anche una marea di cugini con cui spartire questo tesoro. Che sia chiaro, i cugini sono un altro bel regalo dell'esistenza a cui non potrei mai rinunciare. Ma a PrincipeV invidio l'amore assoluto e incondizionato di cui gode grazie allo status di piccolo unico nipote.
Lui ama i suoi nonni, che poi sarebbero i miei genitori, e loro amano lui con uno struggente slancio.

Ogni tanto li guardo e mi auguro che lui non li dimentichi mai. Che ricordi quei momenti. Ricordi quel calore. Perché sono doni preziosi che ci si porta dietro anche da grandi. Anche quando si va per i 40, ma i nonni ancora ci mancano.
Io ricordo le confidenze di mia nonna Maria, che mi raccontò di un cuore infranto e una gioventù vanitosa.
Ricordo il carattere da leonessa di nonna Rosa quel giorno che tornai in lacrime dal liceo. Ricordo il suo desiderio di strozzare i professori e la mia sorpresa di saperla sempre al mio fianco, anche quando avevo torto.
Ricordo nonno Francesco che, seppur anziano e malato, era in grado di rammentare perfettamente quanto tempo avessi fatto passare dall'ultima volta che ero andata a fargli visita. Un bonario cazziatone che dava il senso di quanto lui, immerso in una folla di nipoti, ci distinguesse e amasse tutti.
Ricordo i mille colori che, da piccola, davo alla personalità di mio nonno Andrea. Morto giovane, ancora prima che i miei genitori si sposassero, e quindi disponibile ad ogni mia libera e fantasiosa interpretazione.
Ricordo il niente affatto scontato amore di nonno Herbert, la sua generosità, la sua accoglienza, il suo sonno improvviso ed eterno su una panchina, all'ombra dei tigli.

I nonni sono il mio punto debole. Lo confesso.
E così sabato 24, lo spettacolo del duo Popoff mi ha colpita dritta al cuore.
Loro sono una coppia, sul palco e no. Lei è un'attrice che ama cantare. Lui un musicista che ama lei. Gli occhi non tradiscono.
Per la rassegna Palco Oscenico hanno portato uno spettacolo ancora in divenire. Hanno portato un pancione e tante piante. Hanno portato la storia di una bambina che diventa donna. Una bambina accompagnata dal mistero della vita e della nascita, "Sono nata da un fiore, con l'aiuto di un'ape, vestita da un ragno". Accompagnata dall'amore di un nonno che è il più dolce dei fidanzati. Accompagnata dalla rassicurante presenza di una nonna e delle sue rose.

E sabato sono state cornicette, canti, boccioli. E sono stati amori, dolori e percorsi. E sono state tutte queste cose e anche di più. In un testo semplice ma genuino. Capace di evocare balconi assolati, vestaglie fiorate, vecchi telefoni e profumi di casa, di famiglia, di vita.

Il duo Popoff ha tanti progetti, tra cui il più grande vedrà la luce fra pochissimo, ma mi auguro di cuore che questo testo non venga messo da parte, ma arricchito e migliorato come merita. Curato come una pianta. Curato come l'amore. Perché: "Non siamo stati cacciati dal paradiso terrestre. Non ce ne siamo mai andati".

N.d.A.: i virgolettati sono tratti direttamente da "La grammatica dei fiori" del duo Popoff.
La prima volta che andai al cinema ero al mare. A Rivazzurra, per la precisione.
A godermi la più classica delle vacanze per famiglie in Riviera Romagnola.
Mamma, papà, sorella ed io.

La prima volta che andai al cinema, superate le pesanti tende rosse, mi ritrovai in un cortile.
In alto c'era un cielo pieno di stelle, a terra la ghiaia.
Da un lato un grande telo bianco, dall'altro una spianata di sedie di legno.
Erano quelle classiche da cinema. Quelle che si chiudevano appena ti alzavi. Quelle che, se andavi al bagno durante la proiezione, al ritorno ti dovevi ricordare di spingere giù il sedile con una mano, altrimenti le mancavi e finivi col sedere a terra.

La prima volta che andai al cinema, mio padre mi sollevò e mi depositò sulla sedia accanto alla sua.
Io, all'epoca, ero un leggerissimo mucchietto d'ossa con le gambette corte. Le luci si spensero e la sedia cercò immediatamente d'ingoiarmi.
Dimostrando sprezzo del pericolo e una certa capacità d'iniziativa, invece di frignare o chiedere aiuto, scivolai fino al bordo, e lì rimasi per tutto il film. Con le punte dei piedi a sfiorare la ghiaia e gli addominali contratti a mantenere l'equilibrio.

La prima volta che andai al cinema il programma prevedeva "Innamorato pazzo" con Celentano e Ornella Muti.
Ricordo chiaramente le risate di tutti. E ricordo ancora più chiaramente che, tra la fatica fisica di non finir risucchiata dal sedile, e l'emozione di quel mondo nuovo e un poco magico, non riuscii a seguire la trama.
Per nulla. Figurarsi capirne la comicità!
E così risi a comando. Risi quando ridevano gli altri.
Celentano guidava l'autobus. Tutti ridevano. E pure io.
La Muti si arrabbiava. Tutti ridevano. E pure io.
Ricordo che la Muti si arrabbiava parecchio. Ed era bella. Quando era imbronciata era ancora più bella. Forse era per questo che la facevano sempre arrabbiare.

La prima volta che andai al cinema fu speciale e indimenticabile. Fu un piccolo traguardo da "grande".

Oggi pomeriggio non ci saranno le stelle e neanche la ghiaia.
Le sedie saranno comodissime e non proveranno a mangiare nessuno.
Il film sarà un cartone animato e non una commedia romantica all'italiana.
Ma sarà comunque un momento magico.

Oggi pomeriggio il PrincipeV vedrà il suo primo film al cinema. E io sarò con lui.
E sarò anche un poco emozionata. Orgogliosa di poter essergli accanto mentre taglia questo traguardo.

 
Caro PrincipeV,
ieri hai compiuto quattro anni. 
Una gran bella età per un gran bel bambino.

Ogni giorno ti fai più grande e impari qualcosa di nuovo. E oggi voglio essere proprio io a darti una lezione che potrà esserti utile nel futuro. Voglio raccontarti l'amore. L'amore ai tempi delle medie. 

Tu ancora non lo sai, ma le medie sono quel limbo tra elementari e superiori in cui i corpi cambiano, le voci si fanno più profonde, le scarpe più puzzolenti e gli amori diventano passione bruciante e infelice.

Alle medie le femmine perdono la testa per i ripetenti, perché sono più grandi, perché sono irraggiungibili, perché sono veri uomini. Veri uomini che usano poco la doccia e mai il congiuntivo.
Sì, le femmine possono essere stupide quanto e più dei maschi. Ma non soffermiamoci su questo e andiamo oltre.

In seconda io, tua zia, m'innamorai struggevolmente di Domenico.
Domenico era in terza C quando io ero in seconda A.
Domenico avrebbe dovuto essere già alle superiori da un  paio d'anni quando io ero in seconda A.

Devi sapere che alle medie esistono ripetenti e ripetenti. Ci sono quelli che "non ci arrivano", quelli che "se ne fregano", quelli con "famiglie difficili".
Il ripetente del mio cuore apparteneva un poco alla terza e un poco alla seconda categoria. O almeno così mi piaceva, e mi piace tuttora, credere. Egli, oltre ad essere bello, era intelligente e sensibile. Erano gli altri a non capirlo, poverino!
Così doveva essere. E così era. Nella mia testa.
E, data l'assoluta unilateralità e platonicità del nostro rapporto, la mia testa era l'unico posto importante. L'unico posto in cui noi due ci amavamo come nessuno si era amato mai.

Domenico aveva morbidi capelli castani, o almeno così sembravano dato che non mi ci sono mai avvicinata abbastanza da constatarlo di persona, profondi occhi scuri e lineamenti perfetti.
Assomigliava in maniera impressionante a John Taylor, il bassista dei Duran Duran. 
Per te, PrincipeV, e i lettori più giovani o smemorati allego una foto esplicativa.
Domenico era così, ma senza cotonatura, colpi di sole ed espressione languida.

Noi innamorate dei ripetenti eravamo come delle fan. C'erano quelle a cui piaceva Daniele, frontman sfacciato. Quelle a cui piaceva Andrea, rockettaro maledetto. E quelle a cui piaceva Domenico. Bello ma poco appariscente. Silenzioso. Riservato. Non incline agli atteggiamenti da divo.

Una mattina in terza C si ritrovarono con un'ora buca e, nell'impossibilità di procurare un supplente al volo, la classe venne divisa in piccoli gruppi e spedita a far tappezzeria nelle altre aule.
Domenico finì, insieme ad un suo compagno, in seconda A. La MIA seconda A.

Egli passò un'ora a guardare fuori dalla finestra,
Io passai un'ora a osservarlo di sottecchi, con la tachicardia, la salivazione azzerata e la sudorazione moltiplicata.
Poi suonò la campanella. Il mio taciturno amore si alzò e io lo guardai allontanarsi verso il tramonto.
Questo sognante quadro venne interrotto da una voce gracchiante: "Domenico guarda cosa c'è scritto là!", urlò quel viscido del mio ex fidanzatino.
Urlò il patetico e geloso omino indicando il mio banco.
Banco ornato da me medesima con deliziosi deliri d'amore ed un elaborato graffito "Dome&PancriXever".

Mi alzai di scatto, coprii la scritta col diario, mentre l'oggetto dei miei desideri si avvicinava inesorabile al mio posto. Si avvicinava, arrivava, si fermava.
Quelli che seguirono furono i 30 secondi più mervigliosamente orribili della mia vita. O almeno delle medie.
Da una parte c'era il ripetente curioso, dall'altra la ragazzina che cercava di proteggere gli ultimi brandelli di dignità. In mezzo un diario a celare l'imbarazzo.
"Mi fai leggere?", chiese lui.
"No", sussurrai io.
"Dai..."
"No"
"Ma..."
"No, Domenico, per piacere no"
Lui allungò la mano verso il diario. La mia presa era di pastafrolla. Sarebbe bastato un secondo. Un secondo, uno strattone e una risata per spezzare il mio fragile cuore e ferire il mio orgoglio.

Lui allungò la mano. Poi, però, mi guardò negli occhi.
Non so cosa vide nei miei piccoli occhi all'ingiù. Probabilmente terrore, panico e disperazione.

Domenico non era solo bello ma anche gentile. Gentile in un momento della propria vita in cui raramente lo si è.
Non mise alla prova la mia presa di pastafrolla.
"Non ti preoccupare", disse rivolto a me.
"Tu impara a farti i fatti tuoi, che fai più bella figura!", disse a quel vigliaccone del mio ex.
Poi mi sorrise e se ne andò.

PrincipeV, mio adorato nipote, ti ho raccontato questa storia perché vedo la tua bellezza e conosco il tuo cuore buono.
Ricordati sempre di essere gentile con tutti.
Ma ricordati soprattutto di essere gentile con le femmine. Con quelle che ti piacciono e, a maggior ragione, con quelle che non ti piacciono.
Perché un sorriso sincero ed un gesto educato valgono molto più di un'espressione da piacione. E lasciano tracce indelebili con cui nessuno sguardo da conquistatore sarà mai in grado di competere.

E ricordati pure di studiare: così non sarai mai ripetente.
Non ne hai bisogno: sei così bello che le ragazze s'innamoreranno lo stesso di te.
Un'ora per decidere quale regalo prendere al nipote adorato.
Cinque minuti perché lui lanci il suddetto regalo dal balcone, facendolo schiantare a terra in mille pezzi.

Un'obsoleta tradizione, perpetuata ogni anno ad uso e consumo degli adulti.
Una tassa imposta ai bambini, sotto forma di stress e confusione.
Un delirio di genitori isterici e nonni gongolanti.
Un'accozzaglia di siparietti coercitivi e stereotipati.

La recita di Natale dell'Asilo è il male.
Ma...

... mio nipote fra 15 anni lo troverete a Broadway! 
Il piccoletto è un vero talento. Tutto zia sua!

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