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Avere i capelli ricci è una missione.

Non tutte le donne se li possono permettere. Non è un caso che le permanenti chimiche siano spesso un fallimento, o che i bigodini diano risultati deludenti. Se uno i ricci non ce li ha non se li può dare. Ricce si nasce, non si diventa. E, comunque, non tutte le ricce naturali hanno la forza d’animo, lo charme e la personalità necessari per poter gestire una testa anarchica.

Avere i capelli ricci è una missione, una vocazione e, a tratti, una condanna.

Quand’ero piccola mia madre, stritolata tra il lavoro fuori casa e l’animo da casalinga disperata, per ridurre i tempi di gestione della mia criniera non faceva altro che tagliare. Tagliare senza pietà. Regalandomi un’acconciatura in bilico tra un marine e un impiegato del catasto. Regalandomi così anche un bonus per una manciata di anni di analisi.
“Ma che bel bambino!”, dicevano al mercato. “Sono una femmina!”, ringhiavo io.
“Avete fatto anche il maschietto?”, chiedevano i lontani parenti incontrati per caso. “Sono una femmina”, urlavo io.
“Visto che hai i capelli corti ti faccio fare Don Rodrigo”, mi diceva la maestra Egle. “Va bene, ma voglio pure un cappello con la piuma”, rispondevo io cercando di ricavare qualcosa di buono dalla mia incresciosa situazione tricotica.

Di notte io non sognavo svolazzanti mini poni color pastello o vasche piene di orsetti gommosi. Io sognavo di avere i capelli lunghi. Perché quando hai una sorella molto più grande di te e molto gnocca, ti senti cozza già di tuo, senza bisogno che ogni tre per due si metta in dubbio addirittura la tua appartenenza al genere femminile.

Dovetti aspettare fino alle medie per avere carta bianca e totale controllo della mia chioma. “Mi farò crescere i capelli”, annunciai al mondo. “Cresceranno in larghezza e non in lunghezza”, sentenziò mia madre.

I miei ricci crebbero, crebbero e crebbero. Prima in larghezza. Ma poi anche in lunghezza.

I miei ricci con il tempo sono diventati medi, lunghi, lunghissimi, corti, cortissimi e poi di nuovo medi, lunghi, lunghissimi, corti e cortissimi. I miei ricci sono diventati rossi, biondi, biondissimi, neri, castani e poi di nuovo rossi, biondi, biondissimi, neri, castani. I miei ricci hanno provato spuma, gel e centinaia di tipi diversi di balsamo.
I miei ricci hanno espresso tutte le proprie potenzialità.
I miei ricci esprimono ancora tutte le proprie potenzialità.

Avere i capelli ricci è una missione.
Non tutte le donne se li possono permettere.
Io sì.
Per fare certe scoperte uno pensa di dover affidarsi a Giacobbo, Daniele Bossari oppure a Fiammetta Cicogna. Per venire a conoscenza di certi misteri della natura uno pensa di aver bisogno di una laurea in scienze naturali, un master in biologia applicata, o perlomeno un abbonamento a Focus Junior. Per poter giungere a un tale livello di scienza e conoscenza dell’essere umano e delle sue intrinseche capacità uno pensa di dover viaggiare in lungo e in largo per tutto il globo terracqueo, frequentare le tribù della Papuasia, o essere eletto vicesindaco di una comunità Inuit.

E invece no! Certe cose si finisce con l’impararle in posti, tempi e luoghi tra i più impensati.

Ad esempio, se non fosse stato per un pisolino pomeridiano, cuore a cuore con mio nipote, non avrei mai saputo che un grazioso esemplare di homino sapiens sapiens, alto 90 cm e la cui massa si aggira intorno ai 14 kg, fosse in grado di russare con la potenza e il talento di un ippopotamo adulto con le adenoidi ingrossate.

N.d.A. Passando dalle scienze alle lettere, vi segnalo che la favola “Il Cavaliere che divenne Principe”, che la maggior parte di voi già conosce, ora è disponibile anche sulle pagine di Ti racconto una Fiaba. Un sito che raccoglie racconti classici, meno classici, e piccole opere di sconosciuti. Un progetto per far sognare grandi e piccini, a cui possono partecipare tutti, proponendo anche una microfavola di soli 140 caratteri.
Nel futuro possibile, seppur improbabile, attraverserò il mare su di un traghetto. Le onde saranno alte e il vento taglierà la faccia, ma io mi stringerò nel cappotto e non avrò paura. Poi scenderò a terra calzando delle scarpe con i tacchi alti, e stringendo tra le mani una valigia con dentro tutto il mio mondo.

Nel futuro possibile, seppur improbabile, mi affitterò un bilocale a pochi soldi, attraverso chissà quali arzigogolati passaparola. Avrò una cucina piccola piccola con gli sportelli dipinti di blu e una finestra aperta verso l'orizzonte.

Nel futuro possibile, seppur improbabile, sarà appena cominciata la primavera. Il tempo sarà bizzarro e poco affidabile. Sopra i vestitini leggeri indosserò lunghe giacche di lana che mi faranno sentire protetta e al sicuro.

Nel futuro possibile, seppur improbabile, ogni tanto scenderò al porto per cenare e mi siederò ad un tavolo con la tovaglia a quadretti. Dopo qualche giorno la padrona del locale, una donna bella e in carne, occuperà il posto accanto al mio, mi racconterà la sua storia ed ascolterà la mia.

Nel futuro possibile, seppur improbabile, io sarò la straniera che scrive e ogni tanto va a trovare le tartarughe. Mi ritaglierò un ruolo, una parte, un personaggio da interpretare sul palcoscenico rivolto verso il mare.

Nel futuro possibile, seppur improbabile, un giorno da quel traghetto scenderà anche lui, mi sorriderà e dirà soltanto "Tu sei tutta matta". Con sé avrà una valigia piena di magliette e senza calzini. Perché, come al solito, li avrà dimenticati.

Un futuro possibile, seppur improbabile, è una boccata d'aria, un piccolo tesoro da custodire, un sogno da nutrire con sorrisi e non sospiri. Perché ciò funzioni è bene che questo futuro non abbia scadenze, che possa realizzarsi domani come fra dieci anni, che possa rappresentare l'inizio di una nuova vita o semplicemente una vacanza dalla vecchia.

Se c'è una cosa che mi ha sempre fatto paura è l'idea di avere tutte le risposte, di non avere più scelte da fare ma solo vie già battute da percorrere. Ed è per questo che ho bisogno del mio futuro possibile, seppur improbabile.
Chi mi ama lo sa e ci convive con la mia stessa leggerezza.
Un piccolo capolavoro.
Una vita. Un amore. In meno di due minuti.



Ho scoperto questo video grazie al blog Voglio sposare Tiziano Ferro. Consigliatissimo.
Ciccio: "Sto leggendo Un italiano in America di Beppe Severgnini"
Jane: "E com'è?"
Ciccio: "Interessante, ma Pancrazia in Berlin è molto più divertente"

Altro che banali dichiarazioni d'amore eterno, questo vale molto ma molto di più.
E' proprio vero che l'arrivo di un bambino cambia la vita.
Cambia la vita dei genitori, dei nonni e persino degli zii.
In particolare cambia la vita delle zie gelose della propria intimità.
Quelle che, per loro natura, sentono il bisogno di chiudersi in bagno a doppia mandata. Sempre, anche se sono sole in casa, anche se la porta è difettosa, anche se, così facendo, più di una volta si sono trovate a dover gestire situazioni imbarazzanti quanto sgradevoli.

Se poi, a questo cambiamento, si aggiunge la sciagura di una serratura rotta, le suddette zie possono ritrovarsi a condurre, loro malgrado, conversazioni che mai avrebbero pensato di dover condurre.

"Ziaaa, dove seiii?"
"Aspetta un attimo e arrivo, tesoro"
"Sei in bagnooo?"
"Aspetta amore, non entrare, ora esco, non entr..."
"Ciao", dice il nipote arrampicandosi sopra il bidet.
"Ciao"
"Fai la cacca?"
"Non potresti uscire un attimino, mio invadente congiunto?"
"No"
"No???"
"No. Io voglio stare con te. Sempre."

Io amo il mio piccolo stalker in erba, ma bisognerà provvedere ad aggiustare quella maledetta serratura. Al più presto. Prima di subito. Ora!
Luca pedala sulla sua bicicletta.
Veloce, sempre più veloce, mentre il paesaggio gli corre accanto. La casa di Stefano a destra, quella di Paolo sulla sinistra. Il giardinetto dei drogati, "Ehi tu, dove scappi? C'hai fretta?" "Lasciatelo in pace è solo un bambino" "Stai zitta! Dove hai messo il fuoco?"

La discarica sulla sinistra ed il cimitero delle auto sulla destra.
Le case popolari colorate. Azzurra, rosa, verde acqua, azzurra, rosa, verde acqua. "Chissà che effetto fa affacciarsi su un mondo che sembra fatto di cicche?", si chiede Luca mentre pedala, pedala, pedala.

Pedala con i polmoni che gli scoppiano ed il fianco che gli brucia. Il sinistro. La milza o il fegato? Non se lo ricorda mai. Fa sempre confusione. Se ti fa male la milza è normale. Il fegato, vuol dire che sei malato. Così gli ha spiegato la mamma. Luca non ha tempo di essere malato. Ha un appuntamento.

Finalmente la vede al fondo della strada. Giovannina è là, con la sua faccia tonda, i codini storti, gli occhiali spessi come il fondo delle bottiglie di birra del babbo, ed un sorriso tutto di metallo come quello dei robot dei cartoni.

"Ciao Giovannina!"
"Era ora, sono dieci minuti che t'aspetto."
"Ho avuto da fare. Lo sai"
"Lo so"
Giovannina lo sa. Giovannina conosce Luca dall'asilo e lo sa.
Lo sa che Ignazio Caronte, il babbo di Luca, è un ubriacone da competizione, un alcolizzato olimpionico, un cirrotico per vocazione. Quando non è svenuto sul divano, è incazzato con il mondo. In particolare con la moglie e il figlio, colpevoli di tutto: dallo scoppio della seconda guerra mondiale alla sconfitta del Milan, dalla fame nel mondo alla fine delle birre nel frigo.

Oggi ha urlato e sbavato, con gli occhi di fuori e le vene gonfie. Ha urlato perché gli erano finite le sigarette e Luca è dovuto restare nel suo angolo, senza far rumore, aspettando buono buono.
"Vammi a comprare uno stecca", gli ha detto alla fine il babbo, facendolo volare sul pianerottolo con un perfetto calcio di piatto destro.

Ignazio Caronte da giovane era mediano nella Pro Vercelli ma poi, con una caduta dal motorino, gli saltarono legamenti, sogni di gloria e pure l'appuntamento con Margherita. La figlia del farmacista con la quarta di reggiseno e la bocca a cuore.
Ora Margherita è sposata con un avvocato e Ignazio è sposato con Ginetta, che porta "la retro" e ha le labbra sottili sempre all'ingiù.

Luca ha comprato le sigarette. Le ha portate a casa. E' saltato sul sellino ed è volato via. "Dove corri cretino?" "E lascialo in pace" "Sta sempre in giro quel vagabondo coi piedi scarsi" "Fuma e non rompere!"

Luca ha ancora il fiatone quando chiede a Giovannina: "L'hai letto?"
"Sì", sorride lei, arrossendo dalla fibbia dei sandali alla punta dei codini.
"E che ne pensi? Ci stai?"
Giovannina tira fuori dalla tasca un pezzo di carta appollottolato, lo liscia bene con le mani cicciotte e poi lo passa a Luca.
Lui lo guarda. E' lo stesso biglietto che le ha lanciato di nascosto durante l'ora di geografia. E' lo stesso ma Giovannina in fondo al foglio, con l'inchiostro rosa della biro, ha aggiunto un piccolo "sì".

Luca si sente tutto scombussolato. E non è neanche tanto sicuro del perché. Ma ormai non importa. Lei si avvicina, "Posso?", chiede con un filo di voce. Lui annuisce e chiude gli occhi. Giovannina si mette in punta di piedi e gli stampa un bacio umido e appassionato. Un bacio che sa di patatine al formaggio.
Dopo un secondo Luca riapre gli occhi. Lei si stacca e, mantenendo la promessa, gli regala "Scarafoni Lorenzo, classe 1965, attaccante dell'Ascoli" e scappa via ridendo.

Lui è felice. Ha finalmente completato l'album.
E poi gli sono sempre piaciute le patatine al formaggio.
E a me viene un poco da piangere.
E lo so che le disgrazie nella vita sono altre.
E sì, so anche che il mondo è pieno di problemi ben più importanti.

Oggi è il primo d'aprile. Magari è solo uno scherzo.
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