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Agosto è cominciato da qualche giorno.
Voi dove siete?
Al mare? In montagna? In giro per l'Europa?
Maledetti!

Dai vostri fantastici luoghi di vacanza, come se non bastasse il sole e l'ozio, godetevi anche la recensione dell'ultimo spettacolo a cui ho assistito prima della morte sociale estiva.

"Rooms".
Una long form d'improvvisazione teatrale. Un tipo di rappresentazione in cui gli attori si trovano a recitare scene legate tra loro dalla trama, i personaggi o, come in questo caso, l'ambientazione. Le Rooms, appunto. Ogni storia (completamente improvvisata, ovviamente!) porta allo sfondo successivo.
Nello specifico, l'altra sera, si è partiti da un ospedale, si è passati in un bar, e si è finiti in un soggiorno.
Luoghi che hanno visto un intrigo familiare, un giallo e una commedia napoletana.

Mi è piaciuto Rooms?
Moltissimo!

Cos'aveva di speciale?
Era una prima assoluta. Torinese, italiana, mondiale. Un format completamente originale, nato e codificato dalle menti di coloro che l'hanno messo in scena. In particolare, l'idea, la scintilla, il lampo da cui è partito il tutto è di Ennio Passaro.

Chi erano i protagonisti?
Delle vecchie conoscenze mie, di Facce da Palco e di questo Blog!
Hanno dato grande prova di sé Matteo Barbero, Roberto Tavella e Carmen Maimone (la Dea del Pensiero Laterale. Lei!). Ma pure i meno esperti Julia Campa e Gianfranco Macello. E, ovviamente, Ennio, il padre di tutto l'ambaradan.

Il momento più esilarante?
La commedia napoletana, dove la Dea ha giganteggiato, la Ballerina ha ballato, l'UomoPashmina ha tradito, e un diadema magicamente è diventato una collana. Ma è possibile che nessuno sappia cos'è un diadema?
Kate, saresti così gentile da spiegarglielo?


Grazie caVa.

L'ennesima recensione positiva su Radio Cole?
Smettetela di accusarmi di essere una blogger troppo buona. 
La selezione viene fatta ancora prima di sedermi a scrivere.
Chi mi entusiasma merita il mio tempo.
Gli altri no.

Quelli di Rooms l'hanno meritato pienamente.
Dopo la morte di Lucia il peso della famiglia intera finì completamente sulle spalle mie.
Una volta si usava così: gli uomini da soli erano persi ed i vedovi non erano mai lasciati ad arrangiarsi, soprattutto se c’erano dei figli di mezzo.
Augusto, pure con una gamba mezza guasta, poteva lavorare nei campi per ore, ma non sapeva cuocersi manco un ovetto e soprattutto non era capace di pensare ai bambini suoi. Li amava con tutto il cuore, ma non sapeva proprio da dove cominciare per le cose pratiche. Ai tempi miei nessuno si sarebbe mai sognato di chiedere ad un padre di pulire il sedere dei figli. Per queste cose c’era bisogno di una femmina. E se la moglie veniva a mancare, c’era bisogno di una zitella.
Io ero quella zitella.

Se la situazione fosse stata diversa avrei potuto dividere l’impegno con mamma, ma lei purtroppo non riusciva ad essermi proprio di nessun aiuto, anzi. Dopo la disgrazia s’era fatta più vecchia, s’era svuotata come un sacchetto di farina mezzo usato. Si muoveva lentamente, strascicando i piedi con la capoccia bassa e le spalle curve. Ogni tanto la trovavo a guardare nel vuoto, con una sofferenza nel fondo degli occhi che mi faceva un gran male al cuore.
Lucia per lei era sempre stata tanto speciale. Mia sorella era venuta al mondo dopo due gravidanze finite male e poco prima della morte di nonna Ada. Per mamma, figlia unica e con un marito peggio di una disgrazia, Lucia era stata come un raggio di sole. E mo, che s’era fatto freddo e buio per sempre, lei era finita dentro una melanconia che non l’avrebbe abbandonata più. Ora la chiamerebbero depressione, allora era solo tristezza.

Anche le femmine della famiglia di Augusto non potevano aiutarmi. A parte il fatto che lui non  parlava più con metà dei parenti suoi, ma poi erano comunque tempi difficili, tanti uomini stavano in guerra e le donne si dovevano occupare dei campi, delle bestie e pure dei bambini. Tutto questo da sole, con in più l’animo pesante di chi non sa se l’amore, il babbo o il fratello suo a casa ci tornerà mai. Stavano già belle occupate così, ci mancava pure doversi preoccupare dei figli di qualcun altro.
Solo zia Caterina si faceva vedere ogni tanto, portava qualche frutto ai piccoli, puliva i loro nasi zozzi e, mentre io stavo fuori con le bestie, rassettava un poco casa e preparava delle zuppe così buone che magari non riempivano il cuore ma lo stomaco sì.
“Ve ringrazio zia Caterì, voi siete troppo bona”, le dicevo.
“Faccio metà del dovere mio”, mi rispondeva lei.
“Quando cucinate voi li bambini mangiano de gusto. Quando lo faccio io, poverini, lo fanno perché c’hanno troppa fame pe fare li schizzinosi.”
“Meglio, cuscì nun prendono vizi.”
La zia non era certo di grande compagnia ma in quei brutti giorni lì era meglio che niente.

Con la morte di Lucia mia, dal giorno alla notte, mi ritrovai a dividere solo con Augusto la responsabilità dei bambini. Dovevamo accudirli e soprattutto aiutarli ad affrontare il dolore loro. Dovevamo mettere da parte la sofferenza nostra ed occuparci solo della loro.
Enrico, il più piccoletto, cercava la madre girando per casa con l’aria persa. Noi provavamo a spiegargli che se n’era andata ed adesso era con gli angioli. Gli dicevamo che lo guardava dal cielo e lo amava tanto, ma lui non si chetava. Mi si stringeva il cuore a vederlo così confuso e spaventato, allora lo prendevo tra le braccia per calmarlo e coccolarlo ma neanche questo delle volte era abbastanza. Come quel giorno che, dopo avermi fatta diventare pazza con i capricci, lo ritrovai addormentato sul cuscino di mamma sua.
Sandro c’aveva solo quattro anni ma pareva già un ometto. Se ne stava tutto serio, dritto come un soldatino, e quando non cercava d’aiutare me, correva dietro al fratello piccolo peggio d’un cane dietro alle pecore sue.  Di giorno non lasciava capire nulla ma la notte i sogni brutti lo facevano svegliare con i lacrimoni ed i singhiozzi. Una volta accadde quando io ero ancora in casa di Lucia a rassettare. Non ebbi manco il tempo di correre da lui, che babbo suo era arrivato prima. Augusto gli accarezzava la capoccetta e lo lasciava sfogare senza dire niente. Chiunque altro, al posto suo, avrebbe tirato fuori una di quelle cose stupide che all’epoca mia sembravano tanto giuste come “nun piangere, che si grande” o “nun fare cuscì che si n’omo”, ma lui no. Lui lo cullava in silenzio. Perché sapeva che in certi momenti non c’è proprio niente da dire. Che se non è libero di piangere un bambino che ha perso la mamma sua, allora chi lo è?

Continua...


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Pancrazia ha una bella cantina. Grande e pulita.

Appena trasferitasi nella nuova casa, ella adorava la sua capiente cantina. A tal punto che la di lei espressione preferita era: "Questa cosa non so dove metterla, la porto giù. Che tanto, quando mi serve, ci metto un minuto ad andare a prenderla."

Questo slancio verso la cantina lasciava perplessa MammaCole che si premuniva di ricordare al frutto del proprio ventre "Le cose che usi più spesso ti conviene tenerle a casa. E pure quelle che usi meno spesso. Che se poi non hai voglia di andare giù come fai?"

A più di un anno dal trasloco, a Pancrazia scoccia incredibilmente dover dare in parte ragione alla propria genitrice.
In realtà il problema non è "non aver voglia di andare giù". Il dramma è che, col passare del tempo e lo scemare dell'entusiasmo, si sono palesate mille paranoie.

La cantina è diventata un luogo infestato dalle peggio creature: animali e vegetali. Ma soprattutto animali.
Non che Pancrazia abbia mai fatto qualche spiacevole incontro, ma la sua fertile fantasia le ha fornito abbondanti quadri di party tra roditori, aperitivi tra bagarozzi, e orge tra varani. Sì, varani.

Ella, dunque, ora cerca di andare in cantina il meno possibile. Anche se ciò significa tenere esposta una valigia per un mese, esibire tre barattoli di vernice in soggiorno per 2 settimane, o importunare-supplicare-ricattare moralmente parenti e amici per farsi accompagnare nell'orrido antro.

Periodicamente, però, arriva un momento in cui Pancrazia si stufa di veder roba per casa e ha un sussulto d'orgoglio che le impedisce di chiedere l'altrui aiuto. In queste rare occasioni, ella indossa un paio di scarpe chiuse e scende verso l'abisso, schiamazzando come una pazza e pregando che ciò sia sufficiente a far fuggire bestie e simili.

Pancrazia domina le scale ballando e cantando, neanche stesse sostenendo un provino per un musical di Broadway.
Uno spettacolo indecoroso che prima o poi, non vi è dubbio alcuno, verrà scoperto da qualche fortunato vicino che provvederà a ricattarla.

One singular sensation, every little step she takes
One thrilling combination, every move that she makes
One smile and suddenly nobody else will do
You know you'll never be lonely with you-know-who
One moment in her presence and you can forget the rest
For the girl is second best to none, son
Oooh! Sigh! Give her your attention
Do I really have to mention she's the one

La capoccia nostra delle volte è proprio strana. Della notte in cui sorella mia se ne andò ricordo tutto come se fosse successo ieri, ma del funerale invece mi sono rimaste solo poche immagini, facce e parole. Così ingarbugliate che non sono manco sicura di cosa è successo prima e cosa dopo.

La chiesa era piena piena, questo me lo ricordo bene, perché, anche se poveraccia d’origine, Lucia era comunque diventata una Parise e quindi tutto il paese era venuto a piangere, chiacchierare, pregare la Vergine e guardare il carro nero coi cavalli. Così bello che manco una regina.
Io e la mamma eravamo arrivate fino alla prima fila, camminando piano piano e tenendoci per mano, ma posto per noi non ce n’era rimasto. Tutti i parenti d’Augusto avevano già piazzato i loro culoni sulle panche più importanti e non ci pensavano proprio a smuoverli per due disgraziate come noi. Che poi eravamo la madre e la sorella della morta era un particolare che non importava a nessuno. A nessuno tranne che ad Augusto. Lui si alzò subito e venne a prendere mamma mia, se la mise sottobraccio e la guidò fino al signor Ottavio: “Metteteve a lu posto mio”, le disse, “che tanto io seduto nun ce riesco a stare”, e poi tornò da me.
Rimanemmo tutto il tempo in piedi, uno vicino all’altra. A me mi girava la capoccia e se non fosse stato per Augusto che mi stringeva per un braccio sarei finita a terra come un mucchietto di ossi, stoffa e capelli.
“Dove stanno li bambini?”, gli chiesi.
“Nun te preoccupà, oggi li guarda Anna”, mi rispose.
“Anna chi?”
“La levatrice.”
Ero al funerale di Lucia ma l’unica cosa che mi veniva da pensare era che i nipoti miei stavano con un’estranea. Noi seppellivamo la madre loro e quelle anime candide se ne stavano con un’estranea. Chissà se c’avevano paura? Chissà che pensavano? I nipoti miei non ci dovevano stare con un’estranea. Loro una famiglia ancora ce l’avevano e ce l’avrebbero avuta sempre.

Non mi ricordo niente del cimitero o della processione dietro a quel carro per signori. Ma sono sicura che tutti piangevano e si strappavano i capelli, perfino zia Rita: “Cuscì giovane e bella. Glie volevo bene come na figlia”, diceva. A me mi veniva perfino da ridere e pure a Lucia mia se avesse sentito. Ad Augusto no, ed infatti fece mandare via quella vecchia bugiarda in malo modo e da quel giorno si trovò litigato con mezza famiglia.

Tutti piangevano e si strappavano i capelli, tutti tranne la sorella, la madre ed il marito della morta.
Noi avevamo gli occhi asciutti ed il core caduto ai piedi.

All’uscita del camposanto mi vennero incontro zia Caterina e la Vedova del Dottore. La Signora s’appoggiava alla zia d’Augusto, aveva ancora la camicia inamidata e quel profumo buono buono di una volta ma ormai s’era fatta proprio vecchia e si vedeva che di tempo non glie ne rimaneva tanto.
Mi baciò sulla guancia e mi sussurrò: “La nostra amica non l’ho portata. C’è troppa confusione e lei si agita. Ma ti manda questo”, mi aprì la mano, ci lasciò cadere dentro qualcosa, mi baciò un’altra volta e poi s’allontanò.

Abbassai lo sguardo e lo vidi: il bel nastro giallo di Annamaria. Il suo tesoro più grande. Il suo pensiero per me ed il dolore mio.
Guardai il nastro per un attimo ma poi non lo riuscì a vedere più. Gli occhi miei non erano più asciutti e non lo sarebbero stati fino alla mattina dopo.

Continua...


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Un altro passaggio obbligato del ritorno alla singletudine consiste nell'iscrizione compulsiva a corsi di vario genere e natura.

Il single lungimirante sceglie attività che riempiranno il suo tempo libero, gli consentiranno di fare nuove amicizie e, se gli va bene, gli permetteranno anche la nobile arte del broccolaggio. Secondo questa logica non è poi così importante il corso in quanto tale ma chi, normalmente, lo frequenta.
Mentre il single minchione, categoria a cui mi vanto di appartenere, si preoccupa solo di scegliere attività che ritiene realmente  interessanti. Grandissimo errore! O, almeno, così mi hanno detto.

Io scelsi fitboxe, acquerello e francese. Corsi a bassa densità maschile.
Che vi avevo detto? Single minchiona.

Riguardo all'acquerello e al francese credo che non ci sia neanche bisogno che aggiunga altro, ma per quanto riguarda la fitboxe sappiate che è la meno maschia delle attività ginniche. Vi assicuro che è più probabile trovare cromosomi Y a zumba o acqua gym che a menar l'aria o il sacco. Attività che invece vede partecipare decine e decine di donne incazzate col mondo e con qualsiasi portatore sano di testosterone.

Non c'è dunque da stupirsi che, di fronte alle mie scelte, si sprecarono le domande.
"Fitboxe? Perché? Dimmi almeno che l'istruttore è figo!"
"Acquerello? E' uno scherzo, vero?"
"Francese? Vuoi imparare il francese? Ma chi te lo fa fare? Dai, dì la verità: hai conosciuto un francese carino? Daiii a me puoi dirlo!"

Io, testarda, mi ostinai a dare sempre la stessa risposta: "Perché mi piace, che male c'è?"

Risposta a cui i miei amici reagirono dimostrando affetto e comprensione.
"Tu sei cretina!"
"Già che ci sei perché non ti annodi le tube?"
"Morirai da sola: prenditi almeno un gatto"

In effetti ai miei corsi non ho mai broccolato.
E' il caso che mi organizzi per tempo in vista del prossimo autunno.
Prometto che a settembre farò scelte più ponderate, mi troverò amici un pochino meno critici stronzi e, soprattutto, smetterò di usare termini orribili come "broccolaggio".

Continua...

Lucia quella sera parlò ad Augusto con il cuore leggero e  pesante assieme.
“So due femmine” gli disse.
“E perché fai quella faccia lì? Nun si contenta? San Giuseppe c’ha fatto la grazia!”
“Sì, ma ce sarà na bocca de più. Facciamo già fatica cuscì”
“Te preoccupi pe questo? Dove mangiano in tre, mangiano pur in quattro. Sta serena Lucia mia, che quando c’hai li pensieri te viene la faccia brutta.”
Augusto non è mai stato un tipo sdolcinato ma neanche uno che si spaventava facilmente.
Augusto era una roccia.

Il travaglio cominciò un mese dopo, al tramonto. Mamma andò da Lucia ed io tenni Sandro ed Enrico.
Mi ricordo tutto di quelle ore.
I bambini erano molto agitati e per farli stare buoni almeno un pochetto l’unica cosa che mi riuscì fu quella di tirare fuori un’altra volta Tizzoncino e la storia sua. Tizzoncino funzionava sempre. A loro però più che l’amore di Reuccio gli interessava se quello scimunito portava la spada oppure no, apriva la pancia agli animali feroci oppure no. C’è poco da fare, i maschi sono bestioline semplici che le raffinatezze non sanno manco dove stanno di casa.
Quei due mascalzoncelli crollarono addormentati solo a sera tarda, raggomitolati vicino alla stufa come due gattini. Me li presi in braccio, prima uno e poi l’altro, prima Enrico che era piccoletto e morbido e poi Sandro, alto, pieno e pesante come un vitello grasso. Li infilai nel lettone con me e rimasi al buio ad ascoltare i respiri loro. Dormirono tutta la notte, mentre io non chiusi occhio: c’avevo troppa voglia di conoscere finalmente le nipotine nuove. Me le immaginavo come Lucia, con le guanciotte rosa e le ciglia lunghe piegate all’insù. Belle come due principessine, due regine, due figlie di signori. Da grandi avremmo insegnato loro a ricamare, ed alla prima delle due che si fosse sposata avrei regalato la catenina di nonna Ada. Sarebbero state eleganti e fini come la mamma loro, ma anche capaci di arrampicarsi sugli alberi e cacciare le rane come me. I loro fratelli le avrebbero protette e rispettate, ed Augusto non le avrebbe mai spaventate o fatte scappare, perché lui non era come babbo nostro.

Scivolai fuori dal letto appena si fece un poco chiaro, mentre Sandro ed Enrico rimasero sotto le coperte a dormire quel sonno profondissimo che c’hanno solo i bambini.
L’aria era fredda, la casa silenziosa ed alla base della gola sentivo come un nodo stretto stretto che non voleva andare né su né giù.
Uscì a prendere le uova ed in cortile incontrai mia madre. Aveva la faccia bianca e gli occhi vuoti. Mi guardava ma non mi vedeva.
Mi si fece vicina e disse piano piano: “I bambini, dobbiamo pensare alli bambini”.

Non l’avevo mai vista piangere, neanche quando era morta Ines, neanche quando babbo l’ammazzava di botte, neanche quando lo stomaco le faceva male dalla fame.
Mamma piangeva e sul cuore mio si apriva una crepa che non sarebbe guarita più. Lucia, Lucia mia, se n’era andata: il Signore si era preso lei e le due gemelline sue.
Dopo tutti quegli anni d’inferno, dopo tutte le cose che avevamo passato, il Signore l’aveva chiamata proprio ora. Ora che era felice, ora che aveva una famiglia. L’aveva lasciata sulla terra quando se ne stava accucciata nella stalla tra la merda di vacca, quando lavorava giorno e notte come una schiava, quando le toccava sopportare gli sguardi sporchi degli uomini. Ed ora che stava tutto alle spalle, ora che aveva un marito che l’amava più dell’anima sua e dei figli che le riempivano il cuore, quel vigliacco se l’era portata su in paradiso, strappandole tutto e strappandola a tutti.

“I bambini, dobbiamo pensare alli bambini.”

Io sarei voluta scappare, correre fino a quando il petto mi scoppiava, per non sentire più il male e manco la paura.
Ma questa volta non potevo, non c’era più Lucia, non rimaneva lei a pensare a tutto. Ero rimasta solo io. Non potevo più andare da nessuna parte. Dovevo rimanere lì. Quello era il posto mio.

I bambini, dovevo pensare ai bambini.

Continua...

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In un anno e mezzo di questa rubrica vi ho parlato di corto-medio e lungometraggi, fotografie sabaude, illustrazioni originali, erasmici documentari, libri nascosti, iniziative online e offline. Ma...
Ve lo aspettavate il "ma", vero?

Ma non ho mai fatto pubblicità ad un blog in quanto tale.
Ecco. E' finalmente giunto il momento.
Oggi vi segnalo Brodo pane.
Giovanissimo e ancora con pochi post. Anzi, magari, con questa scusa, la blogger Annalisa smette di battere la fiacca e decide di darsi da fare. Che lo so che è piena d'impegni e l'ispirazione non viene a comando, ma qua fuori c'è gente che attende con ansia la sua prossima dipartita!
Perché, ancora non ve l'ho detto,  questo è un blog con un sottotitolo che è tutto un programma: "Millemila fantasticherie su come morirò".
Ogni post un nuovo decesso. 
In un crescendo surreale e originale.

Annalisa guarda il mondo a modo suo e ce lo riporta in un modo ancora più suo. Poetico ma non sdolcinato.
Lei è una fatina, ma una fatina politicamente scorretta.

Io vi consiglio caldamente di dare un'occhiata. Di sicuro non avete mai letto niente del genere Nella Rete.
Voi che avete fatto venerdì sera?
Io sono andata ad uno spettacolo.
Uno spettacolo con un nome improbabile ma un fine nobile.

Improvvisadente!
Una serata di cabaret e improvvisazione per raccogliere fondi in favore dell'Onlus Life for Madagascar.

Chiara, improvvisatrice e dentista, passerà con altri suoi colleghi tre settimane in Madagascar a fornire cure gratuite alla popolazione di Nosy Be. E per questo motivo ha chiamato a raccolta la Torino che improvvisa e monologa, Torino che ha risposto all'appello con grande entusiasmo. Così tanto che sul palco c'è salito mezzo mondo, e la serata è durata così a lungo che sembrava di stare alla finale di San Remo. Ma è stato per una buona causa e quindi non mi lamento. Vabbé un pochino sì, ma solo un po'!

E non mi lamento anche perché, con questa scusa, ho visto per la prima volta all'opera Elena Ascione, una stand up comedian divertentissima. Ne avevo già sentito parlare, ed è stato bello scoprire quanto tanta fama fosse meritata. Elena ci ha fatto ridere raccontando le sue nevrosi e manie, l'ossessione per il controllo e l'ordine della casa. Praticamente una di famiglia! Elena, tra l'altro, non ha parlato di uomini per tutto il monologo e questo, per una donna che fa cabaret, è sintomo di originalità e voglia di evitare la via più facile e scontata.
Oltre ad Elena mi hanno colpito anche gli Gnomix (che, ho appena scoperto, in realtà si chiamano Gnomiz, ma lascio il nome sbagliato a imperitura memoria del fatto che dovrei controllare meglio prima di pubblicare i post)  duo comico responsabile della conduzione della serata. Anche di loro avevo già sentito parlare. Anche loro non li avevo ancora visti in azione. Divertenti e generosi, non si sono risparmiati regalando momenti esilaranti.
Infine, una menzione speciale va ai Sumadai, tra le cui fila milita proprio Chiara, l'organizzatrice della serata.
Sono stati seminifinalisti a Facce da Palco e io non li vedevo all'opera da allora. E' stato un piacere scoprire i loro miglioramenti e avere la conferma della loro voglia di mettersi in gioco e crescere.

Se vi siete persi la serata ma volete comunque contribuire a questo bel progetto di beneficenza potete fare una donazione con carta di credito nel sito dell'associazione o un bonifico (IBAN: IT 28 R 0558401611000000000181).

E se volete sapere tutto ciò che penso non sarebbe il caso di scrivere in un post del genere, ma che alla fine ho deciso di scrivere comunque, sappiate che...  
...l'abbigliamento scelto per la serata consisteva in camicettina da brava ragazza, fermaglio nei capelli a cercar di far ordine dove regna il caos, e ballerine antisesso. Quando si tratta di beneficenza io la prendo molto sul serio e mi travesto da bacchettona! E sottolinerei la scelta del termine "travesto".
Mezzo di locomozione: auto. Parcheggio: trovato in tempi accettabili, senza troppi smadonnamenti. Perché guidavo per una buona causa ed il mio karma ha un modo di agire estremamente elementare.
Alcol assunto per riuscire ad arrivare sveglia alla fine dell'interminabile serata: un mojito e una birra. Risultato? Una domenica intera col mal di testa. Non c'ho più il fisico!

Voi, mi raccomando, non prendete esempio da me: non bevete se dovete guidare e, soprattutto, non mettetevi le ballerine!
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