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Dopo una giornata così, c’avevo solo una gran voglia di buttarmi nel lettone e dimenticare tutto almeno per qualche ora, ma prima dovevo andare da qualcuno che forse aveva passato un giorno persino peggiore del mio.

Appena si aprì la porta mi trovai davanti l’ultima persona che m’aspettavo: “Che ce fate voi qua, zia Caterina?”
“Le ho portato una zuppa. E tu?”
“Pur’io, ma de sicuro la vostra è meglio”
“La tua la teniamo pe domani, intanto io finisco co questa”, e si rimise ad imboccare Annamaria.
La Pazza se ne stava buona buona seduta al tavolo con un gran fazzoletto annodato al collo. Lei e la zia c’avevano praticamente la stessa età ma l’amica mia, con quella foresta di capelli bianchi e la faccia rugosa come una prugna secca, sembrava più vecchia ancora.

Annamaria mangiò tutto, fino all’ultimo boccone, senza dire manco una parola poi, come le aveva insegnato la Vedova del Dottore, si mise subito a letto.
“La Signora è andata dalli angioli”, mi disse.
“L’ho saputo”
“Pensi che nun torna proprio più, più, più?”
“No, nun torna più”, le risposi, mentre gli occhi suoi diventavano ancora più grandi e lucidi. E per distrarla aggiunsi: “T’ho portato questo, guarda”
“Ma questo è tuo, te l’ho dato io”
“Lo so, ma mo serve de più a te”
Annamaria mi sorrise e poi si ranicchiò nel letto, stringendo il nastro giallo tra le mani sue.
Io mi ci accucciai accanto e l’abbracciai stretta stretta, come avevo fatto tante volte in quei mesi coi piccoli miei: “In un paese tra le montagne ce stava na fornaia co na figlioletta nera come lu carbone”, cominciai.
Quella volta non ci fu neanche bisogno che arrivassi alla fine perché l’amica mia, stracca e triste, si addormentò molto prima.

“Sei brava a raccontare le storie”, mi disse zia Caterina.
“Ne so solo una, racconto sempre la stessa”
“E’ na bella favola. Come finisce?”
“Tizzoncino e Reuccio se sposano. Annamaria dice che fanno pure na bambina. Pe Sandro ed Enrico invece fanno du bei maschietti e Reuccio ammazza n orso cattivo co la spada sua.”
Ormai era ora che me ne andassi ma prima le chiesi: “Ce pensate voi adesso a lei?”
“Sì, l’ho promesso alla madre mia”
“Alla madre vostra?”
“Prima de morire m’ha fatto promettere che, dopo la Vedova del Dottore, c’avrei pensato io ad Annamaria”.

E la zia Caterina mi raccontò finalmente tutta la storia. O almeno tutto quello che avevano raccontato a lei, che certi segreti se li sarà portati nella tomba la Strega e là ci rimarranno per sempre.
Una storia che pare una favola, dove ci sta tutto: l’amore, la morte, i cuori cattivi, quelli boni e pure lo dimonio con tutto l’inferno suo. Una storia con un principe, una principessa, un re prepotente e due fate madrine. Una storia che sarebbe piaciuta tanto all’amica mia.

Mariuccia veniva da una bella famiglia della bassa Italia. Era giovane, carina e c’aveva tutto quello che voleva: una vita facile e un amore con gli occhi di fuori come un ranocchio, ma che a lei pareva bello come un principe. Se Dio avesse voluto loro due sarebbero potuti essere tanto felici ma, chissà perché, il Signore c’aveva un disegno diverso nella capoccia.  E così il fidanzato s’ammalò e nel giro di pochi giorni lasciò Mariuccia da sola.
Sola con una pagnotta nella pancia: la piccola Annamaria.
Il babbo di lei, che c’aveva il core grande quanto una nocciolina e gli piaceva tanto urlare ordini e comandi manco fosse un re con tutti i servi, dopo aver bestemmiato ed insultato quella svergognata della figlia sua, la fece chiudere in un Istituto, una Casa dei Pazzi, un manicomio. Un palazzo brutto e scuro come il castello d’un mago cattivo, dove ci stava di tutto, dagli orfani alle femmine sole, da quelli che si credevano Garibaldi ai bambini poco svegli e un poco strani. In un posto così pure quelli sani, e ce n’erano tanti, diventano matti sul serio.
Ma Mariuccia c’aveva la capoccia fina e, lo sa solo il diavolo come, entrò dalla porta, uscì dalla finestra e dentro quell’inferno in terra non ci passò manco una giornata intera. E scappò subito verso l’alta Italia.
Tanto su, veramente, non c’arrivò mai ma si fermò dalle parti nostre, stracca e grassa, a mettere al mondo la creatura sua nel convento delle suore della valle.

Un anno dopo tutte e due, madre e bambina, finirono per caso in paese da noi. Cercavano solo un posto dove fermarsi qualche giorno ma alla fine questi quattro contadini ignoranti e le strade piene di polvere diventarono la famiglia e la casa loro. Mariuccia divenne La Strega che faceva filtri e salvava matrimoni. Annamaria crebbe in un mondo tutto suo di canzoncine sgangherate e animali parlanti.

Quando poi la Strega s’ammalò chiese alle migliori amiche sue, la Moglie del Dottore e Parise Agnese, di occuparsi della piccola, di aiutarla e di non farla finire, per nessuna ragione al mondo, in uno di quei castelli dei maghi cattivi.
La signora Agnese c’aveva già sei figli ed un marito ancora lontano ma la Vedova del Dottore, che a quei tempi ancora vedova non era, figlioli non ne aveva avuti mai e non vedeva l’ora di poter finalmente fare pure lei la mamma. Ma certe favole non sono fatte per finire proprio nel modo più giusto e facile, ed infatti il medico si rifiutò di prendersi in casa una bimba che non era sangue del sangue suo ed in più non era manco tutta apposto con la testa. E la Signora questa cosa non glie l’ha perdonata mai e da quel giorno non gli ha voluto più il bene che gli voleva prima.

Le due amiche, per mantenere comunque la promessa fatta a Mariuccia, portarono via la piccola Annamaria e la nascosero nel convento, lo stesso dov’era venuta al mondo dieci anni prima e dove rimase fino a quando si fece una signorina.
E una volta divenuta grande, una femmina con la capoccia piena di farfalle colorate e favole, le due fate che non erano state capaci di fare magie la riportarono in paese.
La Signora, che ormai Vedova c’era diventata, provò a fare vivere Annamaria in casa con lei, ma la principessina svitata non ne voleva sapere di stare in un posto diverso dalla casa sua e non voleva nessuna compagnia oltre alle bestie.
“E cuscì la Vedova del Dottore s’è dovuta accontentare di aiutarla come ha potuto. L’ha tenuta pulita e le ha portato da mangiare tutti li giorni negli ultimi trent’anni”
“E mo ce penserete voi?” chiesi a zia Caterina.
“Sì, pure io so vedova e nun c’ho figli. Per questo mamma mia l’ha chiesto a me”
“Nun ve peserà troppo?”
“Lei c’ha bisogno de na mamma e io de na figliola”
Già sulla porta mi girai a chiederle l’ultima cosa: “Me la fate na promessa?”
“Dimme”
“Se avete di bisogno me chiedete aiuto?”
“Te lo prometto. Croce sul core. Ma tu nun te devi preoccupare pe me e l’amica tua, noi staremo bene. Tu c’hai li figli de Lucia da guardare. E’ quello lu destino tuo”, mi disse e mi augurò la buona notte.
  
Appena in strada tornai da Augusto quasi di corsa. La casa era già tutta buia, ma io bussai lo stesso. Non sono mai stata beneducata e quello non era certo il momento giusto per cominciare.

Quando la porta si aprì dissi solo: “Sì”

Quella primavera nella chiesetta del paese si sarebbe celebrato un matrimonio d’amore. Non quel tipo di sentimento che lega un uomo e una donna. Ma quello che ci legava tutti e due ai bambini e a Lucia nostra.

Continua...


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Una storia vera. 
I binari bruciano.
Il vecchio col completo di lana passeggia sotto la pensilina.
Suda.

Mi punta da lontano. Sorrido. Mi si siede accanto.
Puzza.

"Anche lei deve prendere questo treno?" chiede.
"Sì" rispondo.
Tiro fuori gli auricolari. Seleziono la musica
.

Non basta.
Lui parla.
Mi arrendo.
Lo ascolto.
Racconta.

(...)

Volete sapere come finisce questa storia?
Seguite il link.
E se ancora non conoscete quella pagina fermatevi a dare un'occhiata.
E' roba mia. Ovvio che è roba mia.
Ancora me la ricordo, come se ce l’avessi davanti in questo momento, la faccia di mamma che mi dice che devo sposare il vedovo della sorella mia.
A sentire queste cose adesso ai giovani gli vengono i brividi ma una volta era quasi normale. Normale per gli altri, perlomeno. Non tanto per me, perché a me i brividi vennero eccome. Mi sembrava che il mondo stesse andando alla rovescia e che fossero diventati tutti pazzi.

Me la presi col Signore, la morte, mia madre, Augusto e pure Lucia che mi aveva lasciata in un pasticcio così grande. Mamma mi fece sfogare e poi aggiunse senza manco battere gli occhi: “Se nun ce pensi tu, Augusto cercherà quarghidun’altra per crescere li figli de Lucia.”
Quella donna, pure mo che dormiva poco e niente e quando stava sveglia c’aveva la capoccia quasi sempre da un’altra parte,  riusciva comunque a capire quale fosse il punto preciso da colpire. A me sposare Augusto sembrava una cosa assurda, una cosa sbagliata, una cosa sporca. Mi sembrava di rubare la casa, la famiglia, la vita della sorella mia. Ma l’idea che un’altra donna crescesse i nipoti miei era più brutta ancora.
“E chi?”
“Le Zaccaria ce stanno facendo più d’un pensiero.”
“Ma che stai scherzando?”
“No, te parono cose da scherzare queste?”
“Ma tu come le sai tutte ste chiacchiere che nun esci mai de casa?”
“Lo conosci sto paese com’è. Le voci passano pure le porte chiuse a chiave.”

Quella notte non dormì neanche un pochetto e la sera dopo, con una nottata in bianco ed una giornata di lavoro, a tenermi su erano solo i nervi che sentivo nello stomaco come un gomitolo tutto ingarbugliato.
Avevo bisogno di parlare con Augusto. Non era cosa che i figli di Lucia venissero educati da qualche estranea, magari qualche zitella stagionata, che nessuno aveva voluto fino a quel momento, o qualche approfittatrice, a cui importasse solo portare il cognome Parise. Una delle Zaccaria magari, non ci potevo manco pensare.
Ma, del resto, non c’era mica vero bisogno di sposarsi, le cose potevano continuare tranquillamente così. Forse.

Finalmente, dopo aver messo i bambini a letto, Augusto ed io fummo soli. Non sapendo da dove cominciare, dissi la prima cosa che mi passava per la capoccia in quel momento: “Hai sentito che è successo?”
“La Vedova del Dottore?”
“Già.”
“Me dispiace.”
“Pure a me. L’ha trovata stamattina lu farmacista.”
“Ne lu letto sua?”
“Già.”
“Nun se sarà accorta de gnente.”
“Dallu sonno allu paradiso. Me mette tristezza sapere che se n’è annato nu core bono.”
“E’ vero, era proprio na brava persona.”
“Quelli cattivi invece restano sempre.”
“Sì.”
“Come la Zaccaria.”
“Chi?”
“La Zaccaria.”
“E che c’entra? Nun è manco tanto vecchia quella.”
“Che fai? La difendi già?”
“A chi?”
“A quel core cattivo della Zaccaria!”
“Ma de che stai a parlà? Nun te capisco mica.”
“Lassa perdere. Fa finta che nun t’ho detto gnente.”

Io tenevo le mano sul tavolo e mi fissavo li diti, non ce l’avevo proprio la forza di cominciare quel discorso lì.
“Adelì, noi dobbiamo parlà”, iniziò Augusto che s’era scocciato d’aspettare e c’aveva più coraggio di me.
“Lo so.”
“L’altro giorno ho visto mamma tua.”
In quel momento tutti i propositi miei andarono a farsi benedire e scoppiai peggio della pentola a pressione di  Lisuccia lo scorso Natale.
Sarà stata la stanchezza, la morte della Signora, il pensiero della Zaccaria o lo sguardo serio serio d’Augusto che mi metteva a disagio ma fatto sta che, buttando alle ortiche il buon senso, mi alzai di scatto dalla sedia e iniziai a vomitargli addosso tutta la rabbia che c’avevo.
“Tu co me dovevi parlare mica co lei!”
“M’è sembrato giusto prima vedere come la pensava lei.”
“E certo! Tu e lei decidete mentre quella fessa d’Adelina aspetta. Io so bona pe lavorare come na bestia ma poi, pe decidere della vita mia, ce deve pensare quarghidunaltro.”
“Sei tu che decidi mica li altri. Io a mamma tua ho chiesto solo nu consiglio. E mo siediti.”
“Nun me dire che devo fare, che sto già abbastanza incazzata cuscì. Quella nun è più manco bona a trovarsi lu culo co le mano e tu le vai a chiedere consigli?”
“Adelì, te voi calmà? Nun urlare e smettela de dire porcherie, che nella bocca d’una femmina nun ce stanno bene.”
A quel punto non lo so manco io che mi prese, gli piantai in faccia il muso mio arrabbiato e con la voce bassa e velenosa gli dissi la cosa più brutta di tutte. Gliela dissi nonostante avessi ormai imparato a conoscerlo e rispettarlo. Gliela dissi perché ero arrabbiata ed in quel momento godevo nell’essere cattiva: “Pensavo che volevi davvero bene a Lucia mia e invece nun vedi l’ora de metterte n’altra serva a pulirti casa e a scaldarti lu letto.”
Lui non alzò la voce, non mi insultò come avrei meritato, ma mi guardò con degli occhi severi e delusi che mi fecero sentire l’ultimo dei vermi sulla terra: “Per me Lucia è stata na benedizione. Ringraziavo lu Signore ogni mattina per quell’angiolo che m’aveva messo accanto. Ed ora che nun c’è più, penso a lei tutti li giorni e me la sogno tutte le notti, ma ai figli mia nun possono bastare li ricordi: loro c’hanno bisogno de na madre.”
Dio solo sa quanta fatica deve essere costata una dichiarazione così ad Augusto, sempre riservato e geloso dei sentimenti suoi.

E’ passata una vita intera da quella sera ma io ancora mi vergogno di avere insultato lui e l’amore che provava per la sorella mia. E me ne vergognai talmente tanto anche in quel momento che abbassai gli occhi, ricaddi come un sacco sulla sedia e iniziai a singhiozzare come una scema.
Piangevo perché mi mancava Lucia. Perché non sarei mai stata all’altezza sua. Perché questa vita nuova piena di responsabilità mi pesava più d’una pietra attaccata al collo.
“So cuscì stracca, Augù.”
“Lo so, te lavori come na mula.”
“E nun è abbastanza?”
“Che fai, scherzi? Se nun era pe te, noi stavamo tutti persi. Ma la gente parla.”
“Ma che ve frega a tutti quanti se la gente parla?”
“Che me frega? L’ho promesso a Lucia e pure a te, te lo ricordi? Nisciunu ve deve mancare de rispetto.”
Augusto mi guardava mentre io frignavo e sospiravo accartocciata sulla sedia come una bambola de pezza.
“Facciamo cuscì, Adelì. Tu stai serena e te prendi nu poco de tempo pe pensarce. Se decidi che nun te la senti, va bene uguale e ce parlo io co mamma tua: le dico che è colpa mia, che so stato io a cambiare idea.”
Quella sera vidi per la prima volta l’uomo che la sorella mia aveva imparato ad amare. Non era uno di niente come il babbo, una testa fresca come Emilio o uno tutto zucchero e poca sostanza come Gino. Lui era forte ma pure gentile. Sapeva essere un marito, un padre, un fratello ed anche un amico. Augusto era un uomo.

Svuotata e confusa, mi avvolsi nello scialle ed andai via. Quanto bisogno avevo che Lucia da lassù mi mettesse una mano sulla capoccia ed anche una sul cuore.

Continua...
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Il tempo passava ed intanto tutti i giorni s’erano fatti uguali, ed io mi sentivo come una bestia che porta il peso sulla schiena senza sapere dove sta andando.
Da quando la sorella mia era volata in cielo la capoccia mi si era trasformata in un campo morto con la terra secca e dura. Non avevo più pensato a niente, manco a lei, perché avevo paura che, se aprivo quella porta lì, mi sarebbe passata pure la voglia di alzarmi dal letto la mattina.
E proprio la mattina era il momento più bello e più brutto della giornata intera. Mi svegliavo presto e, per qualche secondo, mi dimenticavo di tutto e mi sentivo contenta. Poi mi tornava in mente come stavano le cose, mi saliva l’acido in bocca e mi alzavo per ricominciare un altro giorno.

Erano ormai passati più di sei mesi dalla disgrazia, quando mamma mia mi disse: “La gente parla.”
Io ero appena tornata da casa dei bambini e lei mi aspettava seduta a tavola di fronte ad una zuppa fredda. Aveva lo sguardo presente e l’aria molto seria. Un’espressione come quella dei tempi migliori, quando usava quel tono che ci faceva stare zitte e con la testa bassa.
Ero contenta di vederla un’altra volta così, “E che dice?”, le chiesi tranquilla.
“Parla de te ed Augusto.”
La cosa non mi sorprese, avevo già sentito delle voci per il paese ma me n’ero fottuta. Con tutto il daffare che c’avevo, l’ultimo dei problemi miei erano le chiacchiere senza costrutto.
Ma mamma non si fece scoraggiare dal silenzio mio e continuò: “Passate molto tempo assieme.”
“Io nun passo lu tempo mio co lui ma colli bambini.”
“E’ lo stesso.”
“No, che nun è lo stesso!”
Ero stracca. Enrico aveva avuto la febbre e non mi s’era staccato di dosso per tutto il giorno. Sandro, con la mania sua di stare dietro alle bestie e aiutare il babbo, s’era infangato dalla capoccia fino ai piedi. Io avevo dovuto finire una tovaglia per la Barbagallo e rammendare di corsa le brache d’Augusto. E poi la minestra era fredda e sapeva solo di acqua zozza, come tutto quello che aveva cucinato mia madre negli ultimi sei mesi.
Non ne potevo più.

“Me ammazzo de fatica ogni giorno, me occupo de tutto e de tutti. Cerco de nun far mancare gnente alli bambini. Lo so che c’hanno bisogno de na mamma vera, ma Lucia sulla terra nun ce la posso riportare. Me dispiace. Ce lo so che se lo Signore se prendeva me e lasciava lei eravate tutti più contenti.”
“Nun dire fesserie!”
“Io nun sono lei.”
“Lo so, ma li bambini c’hanno bisogno de na sistemazione come se deve. E pure tu. E poi la gente parla.”
“Ancora co sta storia? E allora facciamola stare zitta: mettiamoglie na bella ciavatta in bocca e speriamo che se soffoca!”
“Troppe ciavatte ce vorrebbero pe fa stare zitti tutti. Augusto ed io abbiamo già parlato, c’è solo na cosa da fare: ve dovete maritare.”

Continua...

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Agosto è cominciato da qualche giorno.
Voi dove siete?
Al mare? In montagna? In giro per l'Europa?
Maledetti!

Dai vostri fantastici luoghi di vacanza, come se non bastasse il sole e l'ozio, godetevi anche la recensione dell'ultimo spettacolo a cui ho assistito prima della morte sociale estiva.

"Rooms".
Una long form d'improvvisazione teatrale. Un tipo di rappresentazione in cui gli attori si trovano a recitare scene legate tra loro dalla trama, i personaggi o, come in questo caso, l'ambientazione. Le Rooms, appunto. Ogni storia (completamente improvvisata, ovviamente!) porta allo sfondo successivo.
Nello specifico, l'altra sera, si è partiti da un ospedale, si è passati in un bar, e si è finiti in un soggiorno.
Luoghi che hanno visto un intrigo familiare, un giallo e una commedia napoletana.

Mi è piaciuto Rooms?
Moltissimo!

Cos'aveva di speciale?
Era una prima assoluta. Torinese, italiana, mondiale. Un format completamente originale, nato e codificato dalle menti di coloro che l'hanno messo in scena. In particolare, l'idea, la scintilla, il lampo da cui è partito il tutto è di Ennio Passaro.

Chi erano i protagonisti?
Delle vecchie conoscenze mie, di Facce da Palco e di questo Blog!
Hanno dato grande prova di sé Matteo Barbero, Roberto Tavella e Carmen Maimone (la Dea del Pensiero Laterale. Lei!). Ma pure i meno esperti Julia Campa e Gianfranco Macello. E, ovviamente, Ennio, il padre di tutto l'ambaradan.

Il momento più esilarante?
La commedia napoletana, dove la Dea ha giganteggiato, la Ballerina ha ballato, l'UomoPashmina ha tradito, e un diadema magicamente è diventato una collana. Ma è possibile che nessuno sappia cos'è un diadema?
Kate, saresti così gentile da spiegarglielo?


Grazie caVa.

L'ennesima recensione positiva su Radio Cole?
Smettetela di accusarmi di essere una blogger troppo buona. 
La selezione viene fatta ancora prima di sedermi a scrivere.
Chi mi entusiasma merita il mio tempo.
Gli altri no.

Quelli di Rooms l'hanno meritato pienamente.
Dopo la morte di Lucia il peso della famiglia intera finì completamente sulle spalle mie.
Una volta si usava così: gli uomini da soli erano persi ed i vedovi non erano mai lasciati ad arrangiarsi, soprattutto se c’erano dei figli di mezzo.
Augusto, pure con una gamba mezza guasta, poteva lavorare nei campi per ore, ma non sapeva cuocersi manco un ovetto e soprattutto non era capace di pensare ai bambini suoi. Li amava con tutto il cuore, ma non sapeva proprio da dove cominciare per le cose pratiche. Ai tempi miei nessuno si sarebbe mai sognato di chiedere ad un padre di pulire il sedere dei figli. Per queste cose c’era bisogno di una femmina. E se la moglie veniva a mancare, c’era bisogno di una zitella.
Io ero quella zitella.

Se la situazione fosse stata diversa avrei potuto dividere l’impegno con mamma, ma lei purtroppo non riusciva ad essermi proprio di nessun aiuto, anzi. Dopo la disgrazia s’era fatta più vecchia, s’era svuotata come un sacchetto di farina mezzo usato. Si muoveva lentamente, strascicando i piedi con la capoccia bassa e le spalle curve. Ogni tanto la trovavo a guardare nel vuoto, con una sofferenza nel fondo degli occhi che mi faceva un gran male al cuore.
Lucia per lei era sempre stata tanto speciale. Mia sorella era venuta al mondo dopo due gravidanze finite male e poco prima della morte di nonna Ada. Per mamma, figlia unica e con un marito peggio di una disgrazia, Lucia era stata come un raggio di sole. E mo, che s’era fatto freddo e buio per sempre, lei era finita dentro una melanconia che non l’avrebbe abbandonata più. Ora la chiamerebbero depressione, allora era solo tristezza.

Anche le femmine della famiglia di Augusto non potevano aiutarmi. A parte il fatto che lui non  parlava più con metà dei parenti suoi, ma poi erano comunque tempi difficili, tanti uomini stavano in guerra e le donne si dovevano occupare dei campi, delle bestie e pure dei bambini. Tutto questo da sole, con in più l’animo pesante di chi non sa se l’amore, il babbo o il fratello suo a casa ci tornerà mai. Stavano già belle occupate così, ci mancava pure doversi preoccupare dei figli di qualcun altro.
Solo zia Caterina si faceva vedere ogni tanto, portava qualche frutto ai piccoli, puliva i loro nasi zozzi e, mentre io stavo fuori con le bestie, rassettava un poco casa e preparava delle zuppe così buone che magari non riempivano il cuore ma lo stomaco sì.
“Ve ringrazio zia Caterì, voi siete troppo bona”, le dicevo.
“Faccio metà del dovere mio”, mi rispondeva lei.
“Quando cucinate voi li bambini mangiano de gusto. Quando lo faccio io, poverini, lo fanno perché c’hanno troppa fame pe fare li schizzinosi.”
“Meglio, cuscì nun prendono vizi.”
La zia non era certo di grande compagnia ma in quei brutti giorni lì era meglio che niente.

Con la morte di Lucia mia, dal giorno alla notte, mi ritrovai a dividere solo con Augusto la responsabilità dei bambini. Dovevamo accudirli e soprattutto aiutarli ad affrontare il dolore loro. Dovevamo mettere da parte la sofferenza nostra ed occuparci solo della loro.
Enrico, il più piccoletto, cercava la madre girando per casa con l’aria persa. Noi provavamo a spiegargli che se n’era andata ed adesso era con gli angioli. Gli dicevamo che lo guardava dal cielo e lo amava tanto, ma lui non si chetava. Mi si stringeva il cuore a vederlo così confuso e spaventato, allora lo prendevo tra le braccia per calmarlo e coccolarlo ma neanche questo delle volte era abbastanza. Come quel giorno che, dopo avermi fatta diventare pazza con i capricci, lo ritrovai addormentato sul cuscino di mamma sua.
Sandro c’aveva solo quattro anni ma pareva già un ometto. Se ne stava tutto serio, dritto come un soldatino, e quando non cercava d’aiutare me, correva dietro al fratello piccolo peggio d’un cane dietro alle pecore sue.  Di giorno non lasciava capire nulla ma la notte i sogni brutti lo facevano svegliare con i lacrimoni ed i singhiozzi. Una volta accadde quando io ero ancora in casa di Lucia a rassettare. Non ebbi manco il tempo di correre da lui, che babbo suo era arrivato prima. Augusto gli accarezzava la capoccetta e lo lasciava sfogare senza dire niente. Chiunque altro, al posto suo, avrebbe tirato fuori una di quelle cose stupide che all’epoca mia sembravano tanto giuste come “nun piangere, che si grande” o “nun fare cuscì che si n’omo”, ma lui no. Lui lo cullava in silenzio. Perché sapeva che in certi momenti non c’è proprio niente da dire. Che se non è libero di piangere un bambino che ha perso la mamma sua, allora chi lo è?

Continua...


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Pancrazia ha una bella cantina. Grande e pulita.

Appena trasferitasi nella nuova casa, ella adorava la sua capiente cantina. A tal punto che la di lei espressione preferita era: "Questa cosa non so dove metterla, la porto giù. Che tanto, quando mi serve, ci metto un minuto ad andare a prenderla."

Questo slancio verso la cantina lasciava perplessa MammaCole che si premuniva di ricordare al frutto del proprio ventre "Le cose che usi più spesso ti conviene tenerle a casa. E pure quelle che usi meno spesso. Che se poi non hai voglia di andare giù come fai?"

A più di un anno dal trasloco, a Pancrazia scoccia incredibilmente dover dare in parte ragione alla propria genitrice.
In realtà il problema non è "non aver voglia di andare giù". Il dramma è che, col passare del tempo e lo scemare dell'entusiasmo, si sono palesate mille paranoie.

La cantina è diventata un luogo infestato dalle peggio creature: animali e vegetali. Ma soprattutto animali.
Non che Pancrazia abbia mai fatto qualche spiacevole incontro, ma la sua fertile fantasia le ha fornito abbondanti quadri di party tra roditori, aperitivi tra bagarozzi, e orge tra varani. Sì, varani.

Ella, dunque, ora cerca di andare in cantina il meno possibile. Anche se ciò significa tenere esposta una valigia per un mese, esibire tre barattoli di vernice in soggiorno per 2 settimane, o importunare-supplicare-ricattare moralmente parenti e amici per farsi accompagnare nell'orrido antro.

Periodicamente, però, arriva un momento in cui Pancrazia si stufa di veder roba per casa e ha un sussulto d'orgoglio che le impedisce di chiedere l'altrui aiuto. In queste rare occasioni, ella indossa un paio di scarpe chiuse e scende verso l'abisso, schiamazzando come una pazza e pregando che ciò sia sufficiente a far fuggire bestie e simili.

Pancrazia domina le scale ballando e cantando, neanche stesse sostenendo un provino per un musical di Broadway.
Uno spettacolo indecoroso che prima o poi, non vi è dubbio alcuno, verrà scoperto da qualche fortunato vicino che provvederà a ricattarla.

One singular sensation, every little step she takes
One thrilling combination, every move that she makes
One smile and suddenly nobody else will do
You know you'll never be lonely with you-know-who
One moment in her presence and you can forget the rest
For the girl is second best to none, son
Oooh! Sigh! Give her your attention
Do I really have to mention she's the one

La capoccia nostra delle volte è proprio strana. Della notte in cui sorella mia se ne andò ricordo tutto come se fosse successo ieri, ma del funerale invece mi sono rimaste solo poche immagini, facce e parole. Così ingarbugliate che non sono manco sicura di cosa è successo prima e cosa dopo.

La chiesa era piena piena, questo me lo ricordo bene, perché, anche se poveraccia d’origine, Lucia era comunque diventata una Parise e quindi tutto il paese era venuto a piangere, chiacchierare, pregare la Vergine e guardare il carro nero coi cavalli. Così bello che manco una regina.
Io e la mamma eravamo arrivate fino alla prima fila, camminando piano piano e tenendoci per mano, ma posto per noi non ce n’era rimasto. Tutti i parenti d’Augusto avevano già piazzato i loro culoni sulle panche più importanti e non ci pensavano proprio a smuoverli per due disgraziate come noi. Che poi eravamo la madre e la sorella della morta era un particolare che non importava a nessuno. A nessuno tranne che ad Augusto. Lui si alzò subito e venne a prendere mamma mia, se la mise sottobraccio e la guidò fino al signor Ottavio: “Metteteve a lu posto mio”, le disse, “che tanto io seduto nun ce riesco a stare”, e poi tornò da me.
Rimanemmo tutto il tempo in piedi, uno vicino all’altra. A me mi girava la capoccia e se non fosse stato per Augusto che mi stringeva per un braccio sarei finita a terra come un mucchietto di ossi, stoffa e capelli.
“Dove stanno li bambini?”, gli chiesi.
“Nun te preoccupà, oggi li guarda Anna”, mi rispose.
“Anna chi?”
“La levatrice.”
Ero al funerale di Lucia ma l’unica cosa che mi veniva da pensare era che i nipoti miei stavano con un’estranea. Noi seppellivamo la madre loro e quelle anime candide se ne stavano con un’estranea. Chissà se c’avevano paura? Chissà che pensavano? I nipoti miei non ci dovevano stare con un’estranea. Loro una famiglia ancora ce l’avevano e ce l’avrebbero avuta sempre.

Non mi ricordo niente del cimitero o della processione dietro a quel carro per signori. Ma sono sicura che tutti piangevano e si strappavano i capelli, perfino zia Rita: “Cuscì giovane e bella. Glie volevo bene come na figlia”, diceva. A me mi veniva perfino da ridere e pure a Lucia mia se avesse sentito. Ad Augusto no, ed infatti fece mandare via quella vecchia bugiarda in malo modo e da quel giorno si trovò litigato con mezza famiglia.

Tutti piangevano e si strappavano i capelli, tutti tranne la sorella, la madre ed il marito della morta.
Noi avevamo gli occhi asciutti ed il core caduto ai piedi.

All’uscita del camposanto mi vennero incontro zia Caterina e la Vedova del Dottore. La Signora s’appoggiava alla zia d’Augusto, aveva ancora la camicia inamidata e quel profumo buono buono di una volta ma ormai s’era fatta proprio vecchia e si vedeva che di tempo non glie ne rimaneva tanto.
Mi baciò sulla guancia e mi sussurrò: “La nostra amica non l’ho portata. C’è troppa confusione e lei si agita. Ma ti manda questo”, mi aprì la mano, ci lasciò cadere dentro qualcosa, mi baciò un’altra volta e poi s’allontanò.

Abbassai lo sguardo e lo vidi: il bel nastro giallo di Annamaria. Il suo tesoro più grande. Il suo pensiero per me ed il dolore mio.
Guardai il nastro per un attimo ma poi non lo riuscì a vedere più. Gli occhi miei non erano più asciutti e non lo sarebbero stati fino alla mattina dopo.

Continua...


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