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Io ho un rapporto sano con i musical. Non li amo né li odio a prescindere. Ce ne sono alcuni che adoro, come "Moulin Rouge!", altri che ho trovato tanto noiosi da non essere riuscita ad andare oltre i primi dieci minuti di visione, come "Evita".

Bene, fatta questa inutile premessa, posso procedere.

Cosa non mi è piaciuto di "The Greatest Showman"?
Hugh Jackman che interpreta il suo personaggio anche nella fase della storia in cui ha 20 anni. Parliamoci chiaro, Jackman è gnocco, gnocco assai, ma ventenne no, neanche lontanamente. La scelta non è sensata, anzi risulta proprio ridicola.
Bocciata anche la coppia formata da Michelle Williams e Hugh Jackman. Non funzionano, non fanno scintille, per nulla. Tra di loro non c'è chimica e, mentre i personaggi dovrebbero essere coetanei, i loro 12 anni di differenza si vedono tutti. Inoltre, la Williams anche da sola convince poco. E pensare che è una delle mie attrici preferite, ma mi pare evidente che non sia particolarmente portata per il genere. Nelle pellicole indy-drammatiche emerge, nel musical sparisce.

Hugh Jackman, invece, e qui comincio con le cose che mi sono piaciute, è nato per fare musical, è un talento cristallino che è un vero piacere guardare. Presenza scenica, energia, voce, gambe, ha tutto.
Ottime anche: la bellissima Zendaya e Keala Settle, la donna barbuta interprete della canzone candidata all'Oscar "This is me". Efficace brano che, però, si è dovuto arrendere di fronte a una concorrenza che quest'anno era davvero notevole, ma che ha lasciato il segno sul palcoscenico del Dolby Theatre con uno dei migliori momenti di tutta la cerimonia di premiazione.

In sintesi: il film ha più di qualche pecca, ma il suo sporco lavoro di sollevarti dalle miserie umane e farti sperare nell'insperato lo fa tutto. Ed è questa la magia del musical.

Giudizio finale: astenersi cinici e musicalfobici.

Se il regista è Steven Spielberg, la protagonista Meryl Streep e il protagonista Tom Hanks, il film non può essere che ben fatto. E infatti è fatto benissimo.

Se si parla di giornalismo serio, di scoop portati a termine a rischio della propria carriera, l'argomento mi piace. E infatti mi piace.

Se viene dato risalto a una donna che si trova a lottare in un mondo di uomini che la trattano con sufficienza, la pellicola è attuale. E infatti, a modo suo, lo è.

Tutto bene, dunque?
No.
Questo film lascerà un segno nella storia del cinema?
No.

The Post è godibile ma non imperdibile.
The Post è tecnicamente perfetto ma latita di anima.
The Post te lo vedi tutto, e a Tom e Maryl non puoi che volere benissimo, ma alla fine storci la bocca in un "Tutto qua?"

The Post era stato nominato per l'Oscar a "Migliore Attrice" e a "Miglior Film" ma non ha portato a casa nessuno dei due premi, e direi che va bene così.

Giudizio finale: godibile ma...

Nota a margine: la locandina, però, è bellissima.

Buona sera carissimi,
da poco ho cominciato una collaborazione con Torino Oggi, quotidiano online locale, ho deciso di condividere con voi alcuni miei articoli, che ne dite?

Il mio ambito? Ovviamente: cultura, arte e spettacolo. Argomenti tra i quali sguazzo con somma soddisfazione ma ancora un milione di cose da imparare.

Ecco il link di ciò che ho scritto ieri, un pezzo dove racconto un'esperienza davvero peculiare: una visita al Museo del Cinema "al buio". Sì, avete letto bene, al buio.

Curiosi? Spero di sì.

http://bit.ly/VisitaAlBuio


Una sta una vita senza scrivere sul proprio blog, poi una notte non riesce a prendere sonno, si gira e si rigira nel letto e, toh!, viene fulminata da un'idea: scrivere una serie di post dedicati ai film vittoriosi o nominati durante l'ultima notte degli Oscar.

In ordine assolutamente casuale inizio con "Coco", il cartone Disney Pixar, vincitore del premio per miglior film d'animazione e miglior canzone.

Onestamente non m'ispirava per nulla, e mi sono decisa a guardarlo solo sfinita dalle critiche positive al riguardo che continuavano a giungermi da ogni parte. Dunque ho capitolato. L'ho guardato. E per i primi 10 minuti ho anche pensato "vabbè, niente di che".

Poi la storia ha preso piede e, dall'ingresso nel coloratissimo e messicano mondo dei morti, mi sono lasciata trascinare. Infine, quando è emerso chiaramente il concetto "Scompariamo totalmente solo nel momento in cui nessuno sulla Terra si ricorda più di noi" ho cominciato a singhiozzare, priva di ritegno e orgoglio.

Non credo che faccia a tutti lo stesso effetto, dipende probabilmente dalla sensibilità personale, dall'esperienze vissute e dalle persone perse. Io ho pianto, pianto, pianto ma sono anche stata felice. Perché il ricordo è un concetto potente e positivo.

Ho apprezzato, inoltre, la scelta di raccontare la cultura messicana. Perché è bello non essere sempre centrati solo sul proprio ombelico, sia da grandi che da bambini, è bello guardare un po' più là.  È bello e necessario essere curiosi, perché, se non lo si è, se non si è curiosi, allora sì che si è morti, morti dentro. Morti grigi e polverosi, tra l'altro, mica colorati e appassionati come quelli di Coco.

Giudizio finale: DA VEDERE! 


È giorno fatto, quando D. decide finalmente di alzarsi. 

Beve un sorso di caffè freddo ed esce di casa.
Non chiude la porta.
Non la accosta nemmeno.

Il cielo è di un azzurro perfetto, i fiori nelle aiuole sono al massimo del loro splendore, una leggera brezza rende la temperatura ideale.

D. passeggia tranquillamente lungo i viali, con un libro sotto il braccio.
Poi si stende sotto un albero.

“Il tempo aveva perso la sua qualità pluridimensionale. Per Robert Neville esisteva soltanto il presente; un presente basato sulla sopravvivenza quotidiana, scandito dall’assenza di picchi di gioia o abissi di disperazione. Sono a un passo dallo stato vegetale, pensava spesso”. (*)
Legge ad alta voce, quando una mela si stacca dal ramo per cadergli a pochi centimetri. Un rumore secco, un evento piccolo e inaspettato che attira la sua attenzione. Ha fame e se ne ricorda in quel momento, quindi afferra il frutto e vi affonda i denti. Il succo zuccherino gli riempie la bocca ed un piccolo rivolo gli scivola lungo il mento. D. si pulisce svogliatamente con la mano, per poi infilare le dita tra le labbra e succhiare il dolce nettare. Sarebbe una sensazione piacevole se solo riuscisse a goderne.

“Devo cenare” – dice a nessuno, e s’incammina verso un supermercato.
Fa lo slalom tra le corsie e sceglie una lattina di carne in scatola.
Passa dalla cassa.
Non paga.

Sale con tranquillità le scale e raggiunge il suo appartamento.
Prepara la tavola: un piatto, una forchetta, un bicchiere d’acqua.
La carne e la gelatina gli si sciolgono in bocca.
Pulisce il piatto con cura, non rimane neanche una briciola.
Poi beve l’acqua fino all’ultimo sorso.

La radio è muta.
La televisione accesa dichiara “l’interruzione dei programmi”.
Così era questa mattina, così ieri, così l’altro ieri.

Così un anno fa, per la prima volta, quando D. si svegliò e si accorse di essere solo. Solo in casa, solo sul pianerottolo, solo nel palazzo, solo nell’isolato, solo nel quartiere, solo in città, solo nel paese, solo sul pianeta. Ha trascorso gli ultimi 360 giorni a cercare qualcun altro. A piedi, in bici, in auto, ha attraversato tutte le strade che ha potuto raggiungere senza trovare nessuno. Nessun uomo, nessuna donna, non un bambino su un’altalena, non un cane che sonnecchiava all’ombra, non un passerotto sopra un ramo, non un ratto in mezzo all’immondizia, non uno scarafaggio in un angolo buio, non una zanzara attirata dal suo odore. Niente e nessuno.

Il mondo è una scatola vuota a sua disposizione. Ogni cosa al suo posto, non come se gli altri se ne fossero andati mentre dormiva, ma come se nessuno avesse mai abitato la terra prima del suo risveglio. Un enorme plastico fatto di piante vere, fiumi che scorrono, supermercati da svuotare, teatri con camerini ordinati pieni di costumi che nessuno pare avere mai indossato. D. ha cercato qualcuno e qualcosa. Ma non ha trovato alcuna compagnia, né risposta.

Si alza dal tavolo, sparecchia e ripone tutto con cura. Poi va in bagno e apre l’acqua della vasca. Nel frattempo si spoglia, prima slaccia l’orologio, poi le scarpe, si sfila la t-shirt, si toglie jeans, calzini e slip. S’immerge.

Appoggiata al bordo di ceramica c’è una lametta. D. l’ha messa lì cinque giorni fa, appena di ritorno dal suo viaggio. Aveva ancora bisogno di alcuni giorni. Un’ultima flebile speranza. Ma ora tutto è pronto, tutto è deciso.

Un taglio al polso destro. Profondo.
Uno al sinistro. Altrettanto.

L’acqua cambia immediatamente colore. D. appoggia la testa al bordo e attende. Mezz’ora dopo il suo corpo si affloscia e scompare sotto la superficie. Piccole bolle affiorano. Una, due, tre, e poi più nulla.

Il mondo è vuoto. Ora. Completamente.

 _ Esperimento XY00254 concluso
Specie: Homo sapiens sapiens
Durata: 365 giorni terrestri
Metodo anticonservativo scelto: rescissione vasi sanguigni arti superiori
Avvio esperimento XY00255 _

Fine

(*) tratto da Io sono leggenda (I Am Legend) di Richard Matheson 

Questo racconto e molto altro, scritto da me e soprattutto da tanta altra bella gente, lo trovate su 22 Pensieri, la rivista mensile che raccoglie parole e immagini di un gruppo di impavidi e bellissimi figuri!


Mettiamo subito le cose in chiaro: la filosofia l'ho studiata solo al liceo e non l'ho mai amata, per niente!

La mia professoressa era un'attempata figura dall'aspetto innocuo e l'animo satanico, un essere millenario che rifiutava la pensione in favore della tortura e dell'abbattimento morale dei giovani a lei affidati. Tanto colta quanto faziosa, tanto preparata quanto arida, se non fosse stata un'insegnate di filosofia avrebbe potuto fare un personaggio del Trono di Spade. Un drago.

Non stupisce dunque che, tra me e l'augusta materia, non sia mai scattato amore, amicizia, e neanche un barlume di vago interesse.

Poco tempo fa, però, mi è capitato tra le mani un libretto curioso: "Il prof. K. e la scoperta della bellezza". Il K. del titolo è Kant, e il romanzo racconta un processo a suo carico, senza giudice ma con una giuria popolare e tanti testimoni, tra cui la sensuale Professoressa Ragione, che irretisce come una sirena, e il muto Professor Senso, che percepisce tutto ma non è in grado di raccontarlo al mondo. E già da questi due esempi è facile comprendere il tono del racconto. 

Una storia veloce, leggera, ricca di trovate interessanti. Un romanzo capace di parlare di filosofia anche a quelli come me, quelli che partono con chilate di pregiudizi, pessimi ricordi e bassissima propensione all'ascolto.

Un libro da leggere se non avete mai amato la filosofia o se avete sempre amato la filosofia. Da leggere se avete studiato o volete studiare la filosofia. Da leggere e far leggere se insegnate filosofia e avete l'aspetto innocuo ma l'animo satanico, o viceversa.

Il prof. K e la scoperta della Bellezza
Emanuele Rainone
Edizione Sui Generis
Vi ricordate quando segnalavo interessanti realtà online? Blog, web serie, eventi e così via? Ecco, oggi lo rifaccio. Oggi riciccio fuori questa rubrica per consigliarvi un profilo instagram speciale: torqui_tax di Michele.
A scanso di equivoci, vi avverto subito, lui è amico mio. Ma mica vi ho mai segnalato profili di altri miei amici, no? E allora fidatevi. Se lo faccio questa volta, vuol dire che ne vale la pena. Conosco Michele, online e offline, ormai da un bel po'. Con lui ho girovagato per Milano e pure per Torino. Con lui ho mangiato pizza in via Po e panini con la mortadella a Venaria. Con lui ho ballato in metropolitana e chiacchierato fino allo sfinimento nella mia casa appena inaugurata. Di Michele apprezzo la penna arguta e i mille personaggi che è in grado di creare. Di Michele conosco la sensibilità che tiene al sicuro sotto montagne di ironia e finta noncuranza.

Il suo non è un banalissimo profilo instagram pieno di belle foto. No, è qualcosa di più e di diverso. Un percorso. Un racconto. Micro scampoli della sua bella Verona raccontati attraverso gli occhi suoi e le vicende dei suoi amici (maggiordomi) immaginari. Non aspettatevi fuochi d'artificio, sovraesposizioni e rivelazioni pruriginose, ma verità, verosimiglianza  e sorrisi spontanei.

Andate a dare un'occhiata e seguitelo: una boccata d'aria fresca e originalità in tanta laccata noia.

https://www.instagram.com/torqui_tax/


Causa tendinite pervicace e malevola, sono stata costretta 5 giorni al totale allettamento.
"Si alzi solo per andare in bagno" ha ordinato il medico, senza lasciare adito ad interpretazione alcuna.
E così sono rimasta sdraiata a dormire sul materasso, sdraiata a fissare il soffitto sul materasso, seduta a lavorare col portatile sul materasso, seduta a sospirare lamentosa sul materasso. E, seppur  consapevole che le disgrazie sono altre, permettetemi di dire che la faccenda è stata alquanto fastidiosa. Ma mentre io mi abbrutivo sotto le coltri, intorno a me gli altri si muovevano solerti e utili. Una su tutti: Madre Cole.

Io odio dipendere dagli altri. Cioè, lo so che, in generale, non piace a nessuno ma io non ne faccio una questione d'indipendenza e orgoglio, o almeno non solo. A me infastidisce soprattutto la posizione scomoda in cui un rapporto di dipendenza, seppur momentaneo, ti mette. La riconoscenza è un sentimento nobile ma anche una gabbia. Non guardatemi con quell'aria di rimprovero ma apprezzate, al contrario, la mia sfacciata sincerità.

Io, in occasione di questa domenica di maggio, lo devo dire. Devo confessare che, all'ottava volta che mia madre, giunta in mio soccorso,  aveva da ridire su uno qualunque degli aspetti della mia gestione casalinga, io desideravo ancora dirle "Grazie madre per essere venuta qui ad occuparti di me e del  mio domicilio" (non sono mica un arido mostro) ma desideravo anche,  e con altrettanto se non superiore ardore, tirarle dietro una delle due stampelle che usavo per deambulare verso il bagno.
"Uh quanta roba da lavare" criticava e a me iniziava a salire la carogna.
"Ma perchè tieni le pentole così? Aspetta che le metto a modo mio. Ecco, molto meglio" stravolgeva e a me si risvegliava la gastrite.
"La tua dispensa è troppo disordinata, che ci fanno gli spaghetti accanto al riso?" sgridava e io tentavo di afferrare la stampella appoggiata al cassettone.
Ma poi lei mi rimboccava le coperte, portava il minestronecomepiaceame e mi comprava le briosche dal bar sotto casa. Io allora mi chetavo, mollavo la stampella e mi sentivo pure un poco in colpa per i sentimenti precedenti. Ma solo un po', eh.

C'è questa ingiusta regola non scritta per cui, se mi stai facendo un favore, io non posso dire niente, sospirare, alzare un sopracciglio. Devo accettare tutto passivamente, sorridente e, se possibile, esibendo anche uno sguardo di devozione di cristiana ispirazione. Io devo accettare con tutto il pacchetto anche e soprattutto la sgradevolezza del samaritano, le diverse opinioni e la pesantezza. E secondo me, chi ti fa il favore, in quel momento un po' se ne approfitta, conosce il suo potere e lo esercita. Tutti siamo corsi in aiuto di qualcuno almeno una volta nella vita e tutti, un po', ce ne siamo approfittati. "E  pensare che gli sto facendo un favore... che ingrato" abbiamo  pensato quando abbiamo ritenuto il nostro gesto non sufficientemente apprezzato. Aprezzamento che può variare, a nostro insindacabile giudizio, da un sorriso sincero all'anima del primogenito di chi abbiamo aiutato.

Non fate segno di no con la testa, non ci crede nessuno, l'avete fatto e lo fate anche voi e, se credete di no, è solo perché non ve ne siete mai resi conto. Questo fa di voi degli inconsapevoli non degli innocenti. Anzi, per quanto mi riguarda, l'inconsapevolezza è un aggravante!
"Io ti faccio un favore, io comando, tu ringrazia e taci,  puzzone!" è il sottotesto che guida certi scambi. Scambi meravigliosi, la cui unica alternativa sarebbe essere soli al mondo senza l'aiuto di nessuno, ma pur sempre scambi. Ricordiamoci la gratitudine ma smettiamo di lucidare tronfi le nostre aureole.

Ora vi saluto, devo andare a fare gli auguri a mia madre e a ringraziarla perché senza di lei non ce l'avrei mai fatta in questi giorni. Prima però vado a rimettere in disordine la dispensa, che a me piaceva di più com'era prima.

Tanti auguri alla mamme e ai benefattori... tanta pazienza a tutti gli altri.
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