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Meno di due settimane fa vi ho regalato una parola nuova di zecca: varvanante.
Dodici di voi se ne sono presi cura donandole significato e vita. E anch'io ho fatto lo stesso.

Tredici testi, tredici storie, dai mobili alla burocrazia passando per le armi e per gli amori. Il livello è altissimo, la mia gioia anche.

Ringrazio tutti coloro che hanno partecipato, le cui opere, anche questa volta, verranno pubblicate in ordine di ricezione. Dalla prima che mi è stata spedita all'ultima. Ultimissima, la mia.

Se volete potete leggere il tutto a questo link di issu, dove trovate una rivista fatta dalle mie manine sante con i racconti e le foto del caso. Altrimenti c'è il tutto anche a seguire (senza foto). Buona lettura!

Varvanante, rutilante, un armadio con tre ante
per la strada or or galoppa,
con il vento forte in poppa.
Sghignazzando il bricconcello
fa cadere un gran cappello
due mutande, tre calzette
quattro paia di scarpette.
Laggiù in fondo si intravede
un calzino senza piede,
e più in là una gonnellina
incornicia una gallina.
I passanti un po' sorpresi,
lo ancorarono a dei pesi
ma l'armadio Varvanante
liberando le sue ante
ha ripreso a camminare
verso i monti e poi il mare.
Una donna assai vetusta
affacciata alla finestra
lo saluta giubilante
tifa "Forza Varvanante!
corri libero e felice
fai tacere chi ti dice
che il tuo posto è chiuso in casa
fermo immobile ed in posa,
uso solo a contenere,
senza mai poter vedere
altre case, altre persone,
cose belle, cose buone,
cose brutte o contundenti.
Lascia stare le gonnelle,
cerca in giro cose belle
da riporre nei cassetti,
dove avevi i fazzoletti.
Poi, se vuoi, ritorna a casa
e a quel punto poi riposa
sarai pieno di bellezza
cose cucciole, allegrezza.
E la gente che vorrà
a trovarti passerà
per un soffio di allegria
da tenere e portar via.
Corri forte Varvanante
e spalanca quelle ante,
ci vediamo al tuo ritorno,
lo so già, sarà un gran giorno!"
Michela

Le acque scure del golfo di Baratti venivano tagliate dalla chiglia del veliero. Il vento freddo sferzava i visi dei marinai e gonfiava le vele, portandoli al largo.

Tutto era iniziato quasi due anni prima, quando i pescatori del posto cominciavano a notare l'assenza di pesce, che prima piegava le barche e gonfiava le reti all'inverosimile. Quando la gente semplice nota qualcosa di strano comincia subito ad immaginare, ad associare gli eventi infausti ad una creatura sfuggente, demoniaca. Così era nata la leggenda di Varvanante. Le donne vedevano i mariti prendere il mare, e si chiedevano se avrebbero fatto ritorno a casa, i bambini venivano spaventati a morte con le storie che si susseguivano. Si diceva che Varvanante fosse in grado di capovolgere un veliero, che aveva ucciso interi equipaggi che non erano mai più tornati.

Si doveva fare qualcosa. Bortolo da Prato, il signore del luogo, aveva ceduto alle pressioni e dopo lungo ponderare aveva messo una taglia di ben duemila scudi per chi avesse catturato e ucciso la creatura che infestava quelle acque.

Una taglia così non passava inosservata, infatti i più grandi e coraggiosi cacciatori di balene erano accorsi dalle fredde terre del nord con i loro velieri, certi che avrebbero incassato presto la ricompensa. Sbagliavano.

Un freddo mattino di inizio inverno, bussò alla porta di Bortolo un uomo alto, robusto, con una terribile cicatrice sul volto che lo attraversava completamente ed una lunga barba grigia. Si chiamava Cecco Ubaldi, ma tutti lo chiamavano “squalo”, perché era stato sfigurato così dal feroce predatore.

Ottenute le informazioni circa gli ultimi avvistamenti, lo squalo prese il largo insieme al suo equipaggio. Molto tempo passò, prima che alcuni mercanti riferirono di aver visto il veliero dello squalo solcare le acque vicine a Livorno. Riferirono inoltre che il veliero restava sempre nella stessa zona, come ad aspettare pazientemente che qualcosa arrivasse in quelle acque.

In paese tutti avevano scommesso qualcosa, sia in favore che contro lo squalo, e grande fu la sorpresa quando una calda e serena mattina di metà estate, la sagoma inconfondibile del veliero si affacciò all'orizzonte del golfo.

La nave aveva un'andatura strana, come inclinata su un fianco. Il cordame era fuori bordo, e tratteneva a stento un'enorme carcassa. Era Varvanante che finalmente era stato ucciso.

Grandi furono i festeggiamenti, che durarono più di una settimana, e si scoprì che le carni di Varvanante erano morbide e succose, con quel sapore vagamente asprigno che pizzicava sulla lingua. Tutti gli abitanti, Cecco e squalo compresi, mangiarono a sazietà quelle carni morbide e deliziose, una sorta di rito scaramantico affinché mai più una creatura come quella potesse arrivare al golfo di Baratti.

Due giorni dopo la fine dei festeggiamenti, i primi cominciarono a morire. Nel tempo di una settimana non era rimasto nessuno.

Varvanante si era vendicato.

Beppe Carta

Sono nato e cresciuto in campagna.
Roba da croste alle ginocchia, sandali sudici e pallone.
Come dovrebbe essere.
Il calendario era di terra e di cielo, e si divideva in due grandi momenti: c'era la scuola, non c'era la scuola, con il primo pieno di grazia, il secondo di attesa del primo.
A scuola si andava a piedi, di corte in corte, e man mano si aggiungevano bambini, fino all'ultima curva.
All'ultima curva viveva Varvanante.
Un vecchio africano, rarità esotica, nell'Oltreserchio dei primi anni ottanta, dove faceva strano vedere uno di Filettole.
Faceva strano anche perché aveva barba e capelli bianchi, che stonavano con lo scuro della pelle, perché ai nostri occhi i neri dovevano essere tutti scuri, in ogni loro parte, e Varvanante pareva a suo modo un ribelle, un rivoluzionario, a presentarsi così, invecchiato e diverso dall'idea che tutti avevano dei neri: giovanotti robusti che vivevano lontano, non vecchietti dietro casa.
Giovanotto robusto lo era stato, era arrivato così, e nemmeno si chiamava ancora Varvanante. Quel nome glielo avevano dato i nostri nonni, d'età con lui, impossibilitati a pronunciare per bene il suo nome in modo da capirsi.
Era il tempo nel quale era il mondo a darti un nome, non tua madre, e quello che capitava capitava. C'erano il Secco, Gesù, il Moro, la Frusa, Francé.
E Varvanante.
Che cantava mentre intrecciava le cipolle afferrandole per la coda.
Varvanante, dai capelli bianchi e gli occhi gialli.
Varvanante, che ci guardava da lontano, facendo un cenno con la mano ossuta e scura come uno stecco di legno nodoso.
Varvanante, che non sentiva il caldo.
Varvanante, che al bar non beveva mai e nessuno era mai riuscito a farlo ubriacare.
Varvanante, che veniva "a opre" nelle case quando c'era da trebbiare il grano, pulire le olive, sgranare il granturco.
Varvanante, che quando morì lasciò la casa vuota e chilometri di cipolle e la bicicletta appoggiata al muro.

Letteredalucca

Mi trovavo di primissima mattina sulla punta estrema della Piazza di San Marco a Venezia, il mio corpo dava le spalle alla sontuosità veneziana perché il mio sguardo era diretto al naturale andamento delle onde. Di fronte ai miei occhi, nell’ampia veduta panoramica di cui si può beneficiare, si frastagliava, fra le fitte nuvole che coprivano e proteggevano la città quella mattina, la sagoma della chiesa di Santa Maria della Salute. Io rimanevo attonita e stupita dalla gloriosa bellezza che emanava quella città, sorprendendomi, di minuto in minuto, dei vari edifici che lasciavano man mano la pesante foschia per affacciarsi allo sguardo umano.
Ero sola, almeno così ero convinta, in realtà la piazza, nonostante l’ora, stava iniziando a popolarsi ed i veneziani uscivano dalle loro abitazioni per iniziare la loro giornata lavorativa. Fu proprio in questo iniziale trambusto mattiniero che mi accorsi che il mio gesto di contemplazione era imitato, quasi involontariamente, da differenti persone. Individui locali che osservavano, quasi ogni mattina questo surreale scenario, eppure ogni volta era come se fosse la prima tanto che si emozionavano, a distanza di anni, della ricchezza storica e culturale della loro città natale.
Era giunta anche la mia ora, da lì a poco una folla di turisti avrebbe assaltato le strette calli veneziane ed i deserti campielli avrebbe ripreso ad animarsi. La mia ora di contemplazione era ormai terminata e così decisi di dirigermi verso Palazzo Ducale così da potermi perdere nuovamente fra storie e vicissitudini del passato. Mi stavo ormai dirigendo verso la mia meta quando la mia attenzione fu richiamata da un gruppo di persone che animatamente chiacchieravano e, forse, discutevano fra di loro. Loro parlavano di cose superficiali, almeno per me, come di stupidi litigate giovanili frutto di attacchi isterici di gelosia, ora parlavano della necessità di prendersi una vacanza così da staccare da quella monotona quotidianità. Non ho mai capito se fossero dei turisti o dei veneziani stanchi della loro routine eppure di fronte a così tanta bellezza mi accorsi quanto fossero varvananti tali discorsi, così futili ed inutili. Mi sembrava di essere un’attuale dandy, una figura prescelta fra tanti, una di quelle che per strada non guarda mai dove mette i piedi perché persa a contemplare ora questo dettaglio ora un altro.
L’ascolto di quelle parole gettate al vento in una comune discussione da bar mi fece comprendere l’importanza del culto della bellezza, della storia e della cultura, nelle sue differenti sfaccettature, e di come i mali di questa nostra esistenza risultassero delle pure varvananti frasi sconnesse e senza senso.

Lucrezia Pellizzola
– Per me un Varvanante, grazie!
Avevo esordito così, ignorando completamente quello che mi sarebbe arrivato con quell’ordinazione.
I miei vicini di tavolo mi avevano guardato incuriositi, evidentemente altrettanto ignari di quale fosse la cosa che avevo appena ordinato, ma non altrettanto coraggiosi da avventurarsi in un’esperienza che avrebbe potuto deluderli.
Sì, perché sulla carta era riportato soltanto il nome, VARVANANTE, senza alcun tipo di descrizione, né se fosse una pietanza oppure una bevanda, né se fosse piccante o superalcolica: niente di niente, solo la richiesta, tra parentesi, di conoscere eventuali allergie o intolleranze della persona che l’avesse voluta assaggiare.
La cameriera mi aveva invece guardata con un sorrisetto malizioso, aveva ripiegato il foglietto delle ordinazioni e si era diretta verso l’interno del locale, evidentemente molto soddisfatta per aver trovato qualcuno che volesse accettare la sfida lanciata dai fantasiosi gestori di quel delizioso posticino in riva al mare.
Mi misi ad aspettare, il sole era ancora alto nonostante fossero ormai passate le cinque del pomeriggio ed il caldo iniziava a farsi sentire. Era stato un giugno burrascoso e, ormai alla fine, tutti ci auguravamo di poter finalmente assaporare il caldo tanto agognato. E il mare, una meraviglia! Calmo, di un azzurro intenso, faceva da cornice a tutti quei sentimenti che continuavano ad affollare i miei pensieri ed un Varvanante era proprio quello che ci voleva.
Una novità.
Un mistero.
Un rischio.
Nella mia vita ormai piatta come quel mare che avevo davanti, la necessità di correre di nuovo qualche rischio era pressante quanto la paura stessa di rischiare: ma ormai ero ad un bivio e se avessi perso anche quell’ultima occasione temevo che non sarei mai più riuscita a muovermi, non sarei mai più riuscita di nuovo a vivere pienamente.
Mentre fissando l’acqua immobile scorrevo questi pensieri, la cameriera sorridente uscì dalla porta portando il vassoio con agilità e fermezza. Alzai gli occhi, ormai la curiosità mi stava divorando, ma ancora non vedevo che cosa ci fosse sopra quel vassoio. Notai che anche tutte le persone nei tavoli vicini si erano voltate, qualcuno cercava anche di incrociare il mio sguardo, forse per avere un cenno che potesse innescare una conversazione e togliere finalmente il velo di mistero che circondava quello strano Varvanante.
Stava arrivando. Era ormai a pochi passi.
Ero emozionata, curiosa, ma proprio in quel momento il mio telefono suonò e suonò per quella telefonata che stavo aspettando, quella che avrebbe veramente potuto svoltarmi la vita. Quella telefonata era il mio Varvanante. Era la mia nuova strada, la mia occasione, la mia vita futura.
Mi alzai lentamente, presi il telefono voltando le spalle alla cameriera che stava appoggiando il vassoio sul tavolo ed iniziai a parlare.
Il mio Varvanante era arrivato, ma adesso sapevo che non era quello appoggiato sul tavolo.
Letizia Battaglia

Al piano interrato del Ministero della Mestizia non c’è superficie che non sia coperta da una patina di polverosa umidità. In un lungo corridoio si affacciano le porte dei dodici uffici delle Divisioni Apatia e Anaffettività. E, come un mistero doloroso di questa via crucis amministrativa, la tredicesima porta cela l’Unità Attribuzioni Speciali dove, dietro una minuscola scrivania su cui si ergono torri di fascicoli, si nasconde Elpidio Varvanante.

Il Varvanante considera il suo lavoro una missione alla quale è dedito da più di dieci anni. La sua è stata una lunga gavetta. Prima uno stage semestrale all’ufficio EMME – Meteo Malauguranti per Matrimoni, poi un contratto triennale per la gestione nazionale del Progetto Europeo FANALI – Famiglie Disfunzionali, che ha prodotto il Libro Bianco sulle conversazioni, manuale indispensabile per avere la certezza di saper innescare costruttivi scambi di opinione su argomenti controversi in contesto domestico, anche di respiro internazionale, sia laico che religioso.

Infine, l’agognato contratto a tempo indeterminato e una serie di progressioni interne che lo hanno portato a rivestire, da quattro anni ormai, e con malcelato orgoglio, il ruolo di Manager SFIGA.

Il Varvarente è ligio alle regole: l’attribuzione delle quote SFIGA alla popolazione deve essere anonima e casuale. Il Ministro stesso, il giorno della nomina, si era raccomandato al riguardo. “Varvanante, a lei chiedo imparzialità e rigore. Ovviamente, il mio fascicolo e quello dei miei cari non le sarà messo a disposizione. Lei comprende, ragioni di sicurezza. Che mi sono state imposte! Imposte, caro Varvanante!”

Ogni giorno, alle ore 9, il Varvanante entra in ufficio e si prepara a svolgere al meglio il suo lavoro. Cuffie insonorizzanti, un visore oscurante, guanti, della canfora nelle narici e un inibitore della sensibilità. Dopo 15 minuti, durante i quali sorseggia una tisana al biancospino, il Varvanante raggiunge l’ottundimento di tutti i sensi. Solo allora si siede alla scrivania, prende un fascicolo dalla pila e ne compila l’allegato F8, crocettando casualmente le diverse opzioni SFIGA da attribuire a ogni singolo cittadino.

Il modello F8 consta di 8 pagine, che declinano le opzioni e quote SFIGA dei seguenti settori: professionale, sanitario, intellettivo, relazionale. Naturalmente senza distinzione di razza, genere, credo religioso.

Durante la pausa pranzo, il Varvanante si concede un caffè e un tramezzino al bar aziendale. Rifugge le lusinghe dei sorrisi dei colleghi. Evita le quattro chiacchiere da corridoio. Sa bene che tutti cercano di accedere ai propri fascicoli per metterli al riparo e occultarli alla sua efficienza.

Un dubbio, ogni tanto, si fa strada nei suoi pensieri, soprattutto la notte. Dov’è il suo fascicolo?

Se solo sapesse che il suo è il primo modulo F8 che ha compilato.
Se solo sapesse di averne barrato casualmente ma compulsivamente tutti gli slot disponibili.
Se solo sapesse che lo sguardo negli occhi dei colleghi è pena e non timore, come ama credere.

Ma non lo sa e, ignaro, tempera la matita e prende in mano un altro fascicolo.

La Peppa Bennet

Nacque varvanante, ma non come gli altri prima di lei, lei incarnava in pieno tale natura, lei era IL varvanante. Libera nel vero senso della parola, poteva essere tutto ciò che le passava per la mente, poteva variare aspetto, azioni, intenzioni, emozioni... e nulla era mai vano, nulla si perdeva: ogni cosa che lei facesse, ogni direzione che lei seguisse portava qualcosa di utile. Magari utile solo a lei, per il suo diletto, ma spesso utile a chi aveva la fortuna di assistere a una delle sue evoluzioni: era d'ispirazione per tutti e tutti vivevano in lei la tanto ambita certezza di non essere così "strani", o almeno di poter condividere la propria stranezza con qualcuno. Aveva un pezzetto per ognuno, nessuno rimaneva senza, nemmeno i peggiori, i più aridi, i più sciapi. In lei anche costoro potevano trovare lo stimolo per diventare la parte migliore di loro stessi. Lei brillava di luce e colori, di fantasia e libertà, di conoscenza e saggezza, di grande accettazione, di bontà e di propensione alla bellezza. Anche la più insignificante, piccola, minuscola scintilla poteva essere colta ed amplificata al suo cospetto. Eh si, era proprio varvanante con tutte le lettere al loro posto. Nessuno aveva davvero capito il significato di quella parola prima che lei nascesse. Sembrava dicesse a tutti: siate varvanante con coraggio, ed ogni cosa sarà luminosa!
Lisa
Girò intorno alla villa. Ricordò che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che si diresse, aveva sempre seguito le regole ma aveva smesso da un po' di farlo. Cose innocue per carità ma cose che la rendevano un po' più libera, un po' più leggera. La porta scricchiolò, il movimento spostò una tendina, il caldo e due occhioni dolci l’accolsero. Era una cucina, una splendida cucina d’altri tempi. Pentole appese in alto. Pentole sul fuoco che sbuffavano. Credenze piene di cibo. Una donna di colore borbottava mentre tagliava con prepotenza del pollo. Tossì per far sentire la sua presenza. La donna di girò e il cane le andò incontro scodinzolando.
“Salve, lei deve essere la nuova ospite della contessa. Coraggiosa. La contessa vieta a tutti di venire qui in cucina.” disse riprendendo a martoriare il povero pollo. “Più che coraggiosa direi disubbidiente”.
“Beh, a volte può essere la stessa cosa” le disse alzando il sopracciglio con espressione d’intesa.

Si sedette. Il tepore le piaceva. Accarezzare la piccola palla di pelo che aveva deciso di stare sulle sue gambe la rilassava. Il lavorio della donna aveva un effetto rasserenante.
Un ronzio improvviso.
Un continuo ronzio proveniente dalla sua giacca.
Non guardò chi chiamava, non rispose, lo ignorò.
Sapeva il nome di chi stava chiamando.
Alle sue domande nessuno aveva risposto e lei non avrebbe risposto a quella chiamata.
“Non pensa di rispondere?” le chiese la donna guardandola.
“No, nessuna intenzione”
“Che donna varvanante.” disse la cameriera riprendendo il suo lavoro.
“La contessa trova che oggigiorno le persone abbiano perso di varvananza. Non hanno opinioni, non sono decise. Si fanno trascinare e quando ti sembrano varvananti scopri che dietro la loro varvananza sono solo burattini nelle mani di altri. I varvananti, quelli veri, stagliano ma non hanno vita facile” concluse con un poderoso colpo di coltello.
“Magari lo fossi” disse di getto. Le sarebbe piaciuto esserlo, forse non avrebbe commesso tanti errori nella sua vita. Forse l’unica cosa da varvanante che aveva mai fatto era essere lì. “Si fidi, lo è. Forse non lo ha ancora capito ma lo è. Non tutti incontrano i gusti di quel signorino che sta accarezzando” disse indicando il cane. “Ma soprattutto nessuno è mai durato così tanti giorni con la contessa come lei. Tutti scappati dopo un paio di giorni”

Bionda Per Scelta

Si era svegliata presto, prima dell’ultimo rintocco. Si era messa ad ascoltare il rumore del risveglio condito dal profumo della legna arsa, preludio all’infornata mattutina. La colazione era il momento migliore della giornata. Si poteva scambiare qualche occhiata più prolungata del solito con le altre compagne di armatura prima di rientrare nelle celle per la vestizione. Si poteva interrompere il digiuno e riscoprire la mandibola addentando il pane caldo. Non era permesso parlare. Bisognava allenare la mente ed il corpo alla solitudine ed agli stenti. Il gioco della guerra non era più solo una cosa da uomini. Solo che loro non lo sapevano ancora. L’armatura era pesante ma lucente. Meglio di mille merletti. Per indossarla bisognava armarsi di pazienza. Stringere i denti e sopportarne i tagli nella carne, più profondi nel momento dell’assedio. L’indomani sarebbe stata presa Montmelian. Sarebbero state in trenta a tentare nuovamente l’impresa. Mischiarsi agli assalitori e rapire al posto loro le donzelle ed i bambini della cittadella vinta. Non per farne bottino o carne da trastullo. Per sottrarli alla morte ed alla resa. “Dobbiamo muoverci, i cavalli sono stati già bardati”: Marie era sull’uscio che la guardava impaziente. “Non sappiamo come sarà la strada e chi incontreremo”. “Non sarà peggio dell’ultima volta” lo sussurrò più per sé che per rassicurare lei. Uscirono al trotto dal fitto bosco che celava il Forte e proseguirono lungo il fiume. Poi una lunga cavalcata per la radura fino ai campi saccheggiati dai francesi prima di avvistare l’esercito di Carlo II, nell’ora della quiete. Bisognava restarne ai margini, senza dare nell’occhio. Cavalieri impegnati a giocare a dadi e ad aspettare la notte per l’aggiramento della cittadella. Ancora poche ore e sarebbe suonato il corno della carica. Dovevano aspettare. “Certo che nessun libro di tattica militare parlerà mai della nostra manovra. Accanto al cerchio cantabrico nessuno leggerà mai del varvanante.”. “Una formazione bellica inesistente, cosa c’è di meglio per sorprendere l’avversario?”. Risero in molte. Julie le guardò impietrita. Non era il momento di scherzare. Come era possibile che quelle fanciulle educate al canto ed alle buone maniere fossero diventate delle amazzoni noncuranti del pericolo? Era solo una nuova vita. La precedente fatta di moine e di nenie era stata sepolta dalla guerra, cancellata d’un colpo. Morte ed orrore avevano annientato il mondo incantato in cui si credeva che tutto sarebbe sempre stato vissuto. Gli amori, i canti, i sospiri, fino al matrimonio o al convento. “Qualcuno vuole del vino? Ce n’è ancora accanto alla tenda del duca di Sully”. Si era avvicinato un cavaliere. Per fortuna un paio di armature più in là si alzarono a fatica per farsi accompagnare a bere. In un sospiro, si mossero tutti. Iniziarono a dividersi in due schieramenti e anche loro fecero lo stesso. Il primo si stava già dirigendo a destra e c’era più strada da fare. Al loro interno, senza distinguersi dai cavalieri al galoppo, Marie guidava alcune di loro. L’altro schieramento sarebbe andato a sinistra. E con loro Julie al comando delle sue amazzoni. Nessun attacco frontale, dove l’esercito sabaudo aveva schierato i migliori cavalieri. Eppure non fu uno scontro meno cruento. L’esercito francese si faceva strada a cavallo annientando i migliori giovani degli antichi casati del ducato. Sotto i fendenti della nobile fanteria francese guidata da Carlo II di Crequi si stava consumando una disfatta annunciata per il ducato di Savoia. Era il 15 novembre del 1600: l’indomani la cittadella di Montmelian si sarebbe arresa ai francesi.
Julie e Marie avevano addestrato tutte soprattutto a difendersi. Non dovevano colpire per prime ma solo schivare gli avversari ed infliggere dei colpi precisi ma mai mortali. Insinuarsi dentro la manovra studiata dall’esercito francese, senza discostarsene per non essere scoperte ma con un obiettivo diverso. Nel momento in cui gli scontri iniziavano a trasformarsi in duelli, bisognava continuare ad avanzare, per addentrarsi oltre le mura. Arrivarono così nelle strette vie scolpite nella pietra della cittadella. Sembrava disabitata. Dietro le loro spalle infuriava la battaglia e le grida si facevano sempre più strazianti. Iniziarono a sparpagliarsi nelle case. Marie varcò l’uscio di una bottega di tessuti. Era vuota. Come avrebbe voluto trascinare con sé quel damasco impreziosito da ricami e perline. Una luce fioca nel retro. Una donna sulla ventina con un bimbetto in grembo supplicava di risparmiarlo. Non c’era tempo da perdere. Alzò la visiera quel tanto perché spuntassero i suoi riccioli d’oro. Lo sguardo della donna passò da impaurito ad incredulo. “Non temere, siamo qui per salvarvi. Prendi il necessario. Siamo a cavallo”. Julie era arrivata tardi in una dimora signorile. I corpi ansimanti giacevano a terra. Con i rudimenti di medicina appresi negli ultimi due anni di assidua rilettura del De re anatomica, si rese conto che non c’erano speranze di sopravvivenza tranne che per una gracile fanciulla. Poteva avere otto o nove anni. Cercò a fatica di chiuderle la ferita e la prese con sé, legandola al cavallo. C’era ancora spazio. Doveva muoversi. Ancora poche ore e sarebbe arrivata l’alba e con essa nuove insidie. Vedeva davanti a sé le altre che caricavano fanciulle e ragazzi, li coprivano con tessuti leggeri e iniziavano la ritirata. Ne era orgogliosa. Eccolo lì il varvanante: essere in mezzo ad un esercito muovendosi al passo degli altri cavalieri, mimetizzarsi ma senza condividerne lo scopo, allontanarsi nel momento degli scontri per seguire il proprio istinto senza perdere di vista almeno due compagne, afferrare quelle vite disperate, quante se ne poteva e battere in ritirate vittoriose, senza fermarsi mai, spinte dalla carica che può darti solo lo sguardo di chi ritorna a sperare. Il nome lo aveva rivendicato Marie, con un po' di civettuola presunzione. Ma andava bene così. Marie non aveva più figli e non avrebbe potuto averne mai più: dare il suo cognome ad una tattica militare l’inorgogliva. Nel pomeriggio sarebbe toccato a lei riunire le donne ed i ragazzi rapiti alla morte per spiegargli dove si trovassero.
Erano già passate le nove, quando rientrò anche Adèle, facendo tirare a tutte un sospiro di sollievo. Aveva sul suo fedele Rouge, una donna corpulenta e stizzita, balia di due mocciosi che continuarono a strillare fino a quando non furono sfamati.
Anonimo
Era varvanante quel giorno, lo era stata il giorno prima e quello prima ancora. A pensarci bene era stata in sottofondo varvanante tutta la settimana, anzi no tutto il mese, forse addirittura da un annetto a questa parte. Beh, dati i presupposti, sarebbe stata varvanante anche l’indomani: con buona pace di suo marito.
Non che la cosa la preoccupasse più di tanto, non era triste, non era certo depressa, né arrabbiata o demotivata, non aveva motivi per lagnarsi: era solo varvanante e questo un po’ la stancava. Nella sua testa, uno stimolo diventava una specie di quadro appeso: bloccato lì, in bella mostra, a chiederle una didascalia per poter definitivamente ottenere il suo posto.
Il problema era che di stimoli ne intercettava troppi durante il giorno: la scadenza imminente per quella grafica, il modulo da portare alla scuola di suo figlio, quella risposta sgarbata data a sua madre, i 3 punti della sua lista di to do che non aveva completato, le mille cose di cui avrebbe parlato con sua sorella all’aperitivo che le chiedeva da mesi, la spesa e la cena, la tosse del piccolo, l’allestimento da completare, la mancanza di disponibilità di Marcello per il turno da coprire, gli scatoloni dell’ufficio da scendere in magazzino, gli stati d’animo delle persone che aveva a fianco… di ciascuna delle persone che aveva a fianco, suo padre, le preghiere alla sera che non riusciva più a fare, quelle finestre che doveva lucidare da una settimana, la chiamata a Roberta per il suo compleanno e a Sara, perché si era proprio comportata male e prima che il loro rapporto finisse nel silenzio doveva quantomeno spiegarle le sue ragioni, il conto in banca, quel non sentirsi mai all’altezza pur sapendo di essere sempre all’altezza, quel post su IG che le aveva suggerito una nuova idea, quei giochi sparpagliati in cucina a cui non trovava un posto, il preventivo troppo alto di quel fornitore e la necessità di trovare lo stesso prodotto a un prezzo più basso, la mail inviata di corsa in cui aveva scordato l’allegato, quella ragazza incontrata che aveva cosi tanto bisogno di aiuto, gli equilibri sempre fragili nelle relazioni dei nostri giorni, Marta e le sue crisi di pianto, il libro sul comodino da cominciare, Gabriele e le continue monellerie in casa, quell’ossessivo quanto inutile e snervante swipe dei feed, i lavori mai completi mai perfetti mai davvero soddisfacenti, quella riflessione mai detta sull’articolo letto la mattina, gli abiti del suo armadio che non riusciva ad abbinare mai bene, i capelli sempre scomposti, la costante ansia da prestazione, l’antipatia per il telefono che suona, quei residui di smalto che doveva ancora togliere, la fuga con suo marito che desiderava, senza bimbi, solo loro, solo una notte, due calici di vino e un abbraccio in silenzio. Eccola la donna in carriera, moglie e madre, emancipata ma varvanante.
Questi pensieri facevano switch in continuazione nella sua testa e quando doveva portare lavoro a casa era anche peggio: senza accorgersene, metteva le mani davanti ai bimbi, sgranava gli occhi, si grattava la testa, nel peggiore dei casi dalla pancia le usciva un piccolo strillo e si sentiva maledettamente in colpa perché invece avrebbe dovuto prenderli tutti in braccio, buttare alla rinfusa quattro magliette nello zaino, prendere per mano suo marito e scappare in montagna. Ma quella era la normale quotidianità e sapeva che non era la sola a sentirsi così e sapeva che sarebbe passato e sapeva che non aveva in fondo nulla di cui lamentarsi. Però questo essere varvanante, questa continua altalena di pensieri, cose da fare ed essenziale appannato, un po’ di ansia l’aggiungeva.
Le parole con la V non le erano mai piaciute e, eccetto per varvanante, non le aveva anche stavolta usate.

Anonimo

Eravamo ormai al 238° anno di guerra tra il regno oscuro di Kuldur e la lega dei popoli della luce, un insieme di regni che aborriva la violenza, l'ingiustizia e la magia nera.
Il regno oscuro di Kuldur era stato creato circa 300 anni fa dal risveglio del più potente negromante che la storia avesse mai conosciuto: Grimor.
Grimor era stato sconfitto 1000 anni fa da Elios, il più dotato Varvanante che le terre della luce avessero mai conosciuto.
I varvananti erano chiamati così perché uscivano dalla scuola di magia della luca di Varva, la più rinomata accademia di magia di tutti i regni liberi.
Elios aveva battuto ogni record di precocità concludendo il percorso di studi in soli due anni mentre la durata effettiva era di 10.
Il combattimento finale con Grimor fu terribile, si liberarono energie magiche fuori da ogni scala mai percepita, tutt'ora il terreno di scontro è interdetto in quanto ancora contaminato da influssi magici. Lo scontro si concluse con la morte di entrambi, almeno così pensavamo, ma Grimor aveva trovato un modo di ritornare nel mondo dei vivi.
Gli abitanti dei della lega dei popoli della luce avevano reso Elios un culto, costruendo chiese e altari, invocando il suo ritorno, ma nulla era successo negli ultimi 300 anni.
Le armate di non morti di Kuldur erano in netto vantaggio e nel giro di pochi mesi avrebbero vinto la guerra.
Findrar, il comandante delle armate della lega, spronava i varvananti rimasti, chiedendogli un aiuto magico ma Grimor era troppo potente per loro, gli anni di pace avevano nuociuto alla all'accademia di Varva.
Come tutte le mattine, Findrar andò a onorare Elios e fu lì che vide che le statue stavano piangendo oro... era forse un segnale del suo ritorno?
Roberto Tavella
Era varvanante e non cessava. Per quanto si sforzasse di non sentirlo, era imperterrito. La notte la teneva sveglia e solo nel suo abbraccio sembrava passare. Ma perfino in quel calore umano, in cui da sempre trovava conforto, non trovava pace. Forse dentro di lei, in verità, c'era sempre stato e forse era arrivato il momento di affrontarlo. Forse non si era mai manifestato con tale impertinenza e forse non aveva neanche maturato la capacità di riconoscerlo. La dimensione del "forse" era tipica di quello stato d'animo così vervarante. Comprendere quella sensazione che la teneva in pena implicava necessariamente una cosa: affrontare se stessa. Chiarire una volta per tutte chi davvero fosse Lenzy. Era così brava a dispensare consigli ed indicazioni, così brillante nell'accompagnare tanti alla scoperta di sé stessi, tanto da averne fatto un mestiere. Un'arte per qualcuno. Ma allo specchio forse non aveva mai avuto il coraggio di guardarsi. Ora più che mai, quella sensazione derivava probabilmente dalla paura di essere inadeguata e non all'altezza. Un timore che pensava di avere superato abbondantemente. La sua brillante carriera ne era la prova. Ma convivere con quello stato d'animo non aveva a che fare con il suo delicato e affascinante mestiere ma con il suo spirito. A lavoro di spirito ne metteva poco ed è questo che la rendeva così brava. Essere fredda e distaccata era davvero la strategia vincente e a lei questo veniva assolutamente naturale. Per questo funzionava! Ma quando chiudeva con le vite degli altri, ben custodite nei suoi archivi, e cominciava a vivere la sua vita l'anima serviva. E solo ora si era resa conto che lei di anima ce ne metteva poca, pochissima. Di autenticità e verità nella sua vita ce n’era davvero poca. A nudo non aveva il coraggio di mettersi mai. Con nessuno. Neanche con l'uomo che amava più di ogni altra cosa e persona al mondo. Un uomo che l'aveva fatta innamorare perché era un puro, un vero, un autentico, un sincero. Doti a lei così lontane! La sua insicurezza la assaliva, il momento di affrontarla era adesso, il momento di sentirsi all'altezza di essere amata era arrivato. Perché altrimenti non avrebbe cessato quella sensazione di malessere che era costante, scalpitante, incessante, opprimente, soffocante, insopportabile. In una parola... Varvanante.

Anonimo

Le farfalle nello stomaco sono quelle che sentono due innamorati la prima volta che s'incontrano.
L'uno guarda l'altra, l'altra guarda l'uno e mille ali leggere e colorate prendono ad agitarsi. Poi lui e lei vanno al cinema, o al ristorante, o a bere qualcosa, a fare una passeggiata in centro, un'arrampicata in montagna o un giro tra le bancarelle di un mercatino di giocattoli antichi. Stanno lontani all'inizio, poi spalla a spalla, mani sfioranti con mani sfioranti, dita intrecciate. Si guardano, uno dei due rischia e si sporge in avanti, l'altro l’accoglie, ed è bacio.
Le farfalle allora esplodano in un fragore di campane, din don dan, come quelle dei paesi, din don dan, che si espandono con gli echi delle valli, din don dan, ed è denti, ed è lingua, ed è gioia!
Alle campane seguono le onde grosse che s'infrangono sulla spiaggia. Rumorose e potenti, sono il sesso. Pure un po' spaventose, il sesso la prima volta. Al buio, con la luce, in penombra, la prestazione, gli addominali, la ceretta. Il giorno, la notte, il giorno, notte, giorno, notte, giorno… e il mare si calma, la risacca si fa più lieve e in sottofondo si cominciano a sentire i passerotti che canticchiano. Prima piano poi sempre più forte.
Questo è il tempo della tranquillità, di piedi intrecciati sul divano, di maratone di serie televisive, di pizze in cartone. I passerotti sono grassocci e gli innamorati pure. Vanno a dormire e godono di un sonno profondo e pieno dell'altro.
Alla fine, però, si svegliano quando dagli infissi s'insinua un vento freddo. Quello è il varvanante, un soffio gelido, uno stato d'animo, un dubbio che si insinua nel cervello e anche nelle mutande. Il varvanante è l’inizio della fine.
Jane Pancrazia Cole

Per il secondo esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura ho proprio bisogno di voi. Mi trovo tra le mani una parola nuova di zecca, un neologismo. Una parola proprio bellina eh, con tutte le lettere al posto giusto, vocali e consonanti alternate con una certa grazia. Un vocabolo fatto e finito a cui però manca qualcosa. Una minuzia, per carità. Il significato.

La parola è varvanante. 

L'ho inventata questa mattina, ha lottato strenuamente con altre sorelle ma alla fine l'ha spuntata lei, perché, a orecchio, mi è parsa più evocativa delle altre. E il punto sta proprio in questo: a voi che cosa evoca? Avete a disposizione 13 giorni (scarsi) e al massimo 3600 caratteri per raccontarmi e raccontarci cosa sia il varvanante.  Può essere qualsiasi cosa: una persona, un animale, un luogo, uno stato d'animo, un aggettivo, qualsiasi cosa. Stupitemi!

Liberate la fantasia e fate vivere varvanante. La forma, anche in questo caso, è assolutamente libera, potete scrivere un racconto, una poesia, un monologo, la voce di un vocabolario, insomma, ciò che vi pare! Per questo esercizio anche il metodo è libero, potete usare la scrittura a tempo se vi aiuta a sbloccarvi ma anche mettervi davanti al foglio alla vecchia maniera e riflettere su una parola dopo l'altra. Non m'importa come ci arriviate l'importante è che alla fine dedichiate un testo a varvanante.

Come sempre, per domande e curiosità, ci sono i commenti, messenger, le email e anche il modulo di contatto in home page. E ricordo, se ce ne fosse ancora bisogno, che al laboratorio possono partecipare tutti, non è necessario aver partecipato al primo esercizio e, se parteciperete a questo, non siete poi obbligati a continuare. Ci mancherebbe!

Non mi resta che augurarvi buona scrittura, non vedo l'ora di leggervi un'altra volta!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: Dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi. 
Email: janecole@live.it. 
Oggetto: Laboratorio collettivo di scrittura. 
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno. 
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 9 febbraio 2020, ore 12.

Volete leggere i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.

Eccomi finalmente alle prese con il primo esercizio del laboratorio di scrittura. In molti (molti di più di quanto mi aspettassi) l’avete svolto. Ne sono nate tante storie diverse, qualcuna profuma di mistero e qualcuna di casa. Per non fare torto a nessuno e non ricordare gli infausti tempi della scuola dell’obbligo, ho scelto di elencare le vostre opere – non in ordine alfabetico – ma nell’ordine in cui le ho ricevute, dalla prima all’ultima. E dopo l’ultima troverete anche il mio racconto. Perché un laboratorio condiviso è sempre un’ottima scusa per mettersi a scrivere, anche per me.

A questo link un “magazine” fatto con le mie manine durante il week end con tutti i nostri racconti, illustrati da una serie di foto che spero essere le più azzeccate possibili. Ho pensato che questo fosse un modo più piacevole e accattivante per leggere il tutto. Ma, se non avete il modo o la voglia di sfogliare questa “rivista”, trovate i racconti anche di seguito.

Buona lettura!

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta principale. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi perché mai, mai, mai e poi mai nella vita io facevo qualcosa che qualcun altro mi diceva di fare.
Una sorta di comandamento nuovo il mio, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi, e non fare mai quel cazzo che ti dice la gente di fare.
Alle elementari ero quello che portava alle maestre i disegni venuti male.
Alle medie non guardavo le bimbe che strillavano nei bagni per segnalarci la posizione.
Al liceo non ho mai studiato una volta, una sola fottutissima volta, per la versione di latino. o veniva a sentimento o non veniva. niente avrebbe potuto farmi cambiare idea.
E all'università ho scelto matematica solo perché era la materia che tutti mi sconsigliavano di seguire. E così eccomi qua, statistico di professione, ad analizzare le abitudini degli altri, a censire quante volte comprate il pane, o andate su google o cazzeggiate sul cellulare con quei vostri giochi da vecchi, facebook, candy crush, fattorie, castelli in aria e cazzate varie.
Avete mai calcolato quanta vita perdete dietro a un cellulare?
Io sì.
Io calcolo ogni cosa.
Io passavo dietro allo schermo di un telefono dalle cinque alle sette ore al giorno.
Un lavoro.
Soltanto non pagato.
L'ho buttato.
Basta scemenze.
Basta tastiere.
Solo vita, vita vera.
Come la vecchia, come questo giardino, come quei ragazzini brufolosi e puzzolenti dell'autobus che mi ha portato qui.
La vecchia ha un gatto. Un gatto più vecchio di lei. Un gatto dal pelo fossile, forse egiziano, o fenicio, ma anziano come il mondo. con in bocca meno denti di lei.
La vecchia e il gatto li vado a trovare ogni giorno.
Il primo giorno fu per chiedere quanto spendeva di luce, gas e riscaldamento.
Mi cacciò via, come un pallone caduto nel giardino sbagliato. un calcio nel culo e amen.
Mi piacque.
Ci tornai, con la scusa di misurare il flusso dell'acqua.
Incredibile i vecchi come credono a qualsiasi cosa.
Mi fece il caffè, accarezzai le ossa del gatto, appena ricoperte di un logoro tappetino.
Poi i giorni diventarono tre, quattro, cinque, sei.
Fino a che non decisi che era l'ora di conoscere i vicini. Dalla porta principale naturalmente.
Aveva a passarci lei, da quella secondaria, lei e il lattaio o il giardiniere.
Io ero la scienza, e la scienza bussa sempre alla porta con la scritta "welcome".
La porta si aprì.
https://letteredalucca.wordpress.com

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fui proprio lì che mi diressi… il cuore mi batteva forte. La sensazione di proibito mi seccava la gola, sentivo di star sudando, nonostante i 10 gradi centigradi di temperatura. L’inverno era ormai arrivato e quel giardino, così spettrale e lugubre, sembrava perfetto per una fotografia da cartolina di Halloween. La signora era stata precisa, nelle sue indicazioni. Ed eccomi davanti all’uscio, quello di una casa di campagna fatiscente eppure affascinante, carica di storie. Aprii la porta. Non so cosa accadde ma in quell’istante persi la vista. Non vidi nulla eppure non era buio. Una luce artificiale illuminava la stanza ma io non la vidi. Sapevo che c’era ma non la percepii. Divenni cieca in un istante. Mi appellai agli altri sensi: sentivo odore di stantio e umidità, ma anche di caldo e dolce. Tutto era perfettamente in silenzio, solo le foglie facevano sentire la loro musica attraverso la porta ancora aperta. In bocca, un’aria dolciastra di biscotti e muschio. Sotto i pedi sentivo un pavimento duro, forse ceramiche antiche, forse nuove ma mai pulite, con una patina gelatinosa che premeva contro la suola delle mie scarpe. Dove sono finita? Perché non riesco a vedere nulla? Io mi sforzavo ma, nulla, più tentavo di vedere e meno percepivo con gli occhi. Decisi di andare avanti. Feci un passo. La sostanza sotto i miei stivali premeva e premeva ancora. Ne feci un altro, con cautela. Girai la testa. Avanzai con le braccia in avanti e, istintivamente, misi un braccio piegato sulla testa. Non vedevo nulla, eppure, sapevo DOVE VOLEVO ANDARE. Mi fermai di colpo. Avevo chiuso la porta? Il vento gelido alle mie spalle mi suggeriva che, no, era ancora aperta. Non importa, mi dissi. Proseguii il mio viaggio all’interno di una stanza che non conoscevo, in una casa fatiscente, in un luogo sconosciuto dove una vecchia, sì, vecchia, sconosciuta anch’essa, mi aveva proibito di andare. Cosa cercavo? Perché ero li? Mi domandai. Ora lo so.
Marika De Sandoli

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi. Andai a passo sicuro verso il cortile nel retro della villa che sicuramente aveva visto giorni migliori. Salii i gradini di legno marcio sperando di non rompermi una caviglia e afferrai il pomello della porta, che si aprì in un gemito scricchiolante di cerniere arrugginite. Quello che si parò di fronte ai miei occhi fu uno spettacolo desolante: mobili coperti, polvere e ragnatele ovunque. Non feci in tempo a pensare al fatto che l’anziana signora mi aveva raccomandato di non utilizzare l’ingresso posteriore che una trave di legno cadde fragorosamente accanto alla porta, mancandomi di un soffio. A quella trave ne seguirono molte altre, comprese la scalinata che portava ai piani superiori, le pareti interne, il caminetto si sbriciolò come un castello di carte, levando un fitto polverone di cenere e detriti. Accecato, terrorizzato e disorientato cercai una via di uscita; la porta dalla quale ero entrato era ostruita da travi e macerie, quindi feci un balzo disperato verso l’ingresso principale. Schivando macerie e suppellettili, corsi con la forza della disperazione, ma tutto sembrava crollarmi intorno. Venni colpito da un lampadario ad una gamba, un dolore terribile mi pervase. Cercai comunque di rialzarmi nonostante il dolore e correre verso l’aria aperta e la libertà. Da quel momento in poi ricordo solo polvere, dolore e macerie intorno a me. Subito dopo ero sdraiato supino sull’erba del giardino dell’ingresso principale. Ero salvo. La casa stava collassando su sé stessa: il tetto crollava sulla veranda, le finestre esplodevano lanciando mortali schegge di vetro tutto intorno, le eleganti colonnine in legno si spezzavano come stuzzicadenti. Rimasi un bel po’ di tempo a respirare l’aria fresca della sera, ringraziando di essere ancora vivo, mentre la casa annichiliva fino a ridursi a un cumulo di macerie.
Una volta ripreso, mi avviai zoppicando fino alla mia auto, che feci partire sgommando fino alla casa della vecchia.
“Mi è crollata tutta la casa addosso”, le dissi quasi urlando.
“Sei passato dalla porta posteriore, vero?” mi disse lei con un mezzo sorriso sul volto.
“Non pensavo fosse importante”, risposi.
“Mi ero raccomandata con tutte le mie forze di non farlo. La porta posteriore reggeva tutta la casa, che per colpa tua è andata distrutta”
Sgomento e attonito, rimasi senza parole. Con un filo di voce le chiesi perché non la volesse sistemare. Lei si fece una grassa risata e tra un singulto e l’altro mi rispose: “lì dentro è seppellito quel porco di mio marito, e se l’avessi fatta abbattere se ne sarebbero accorti. Adesso è il problema di qualcun altro. A me non rimane molto da vivere, e in fondo era la fine che si meritava. Grazie per aver donato un sorriso a questa povera vecchia”.
Lo sapevo che non avrei dovuto rispondere all’inserzione, il prezzo era sospettosamente basso. 
Beppe Carta

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Ma fu proprio lì che mi diressi. Tutto intorno era già in penombra, nonostante fossero solo le quattro del pomeriggio. Quella montagna così maestosa di fronte a me aveva nascosto il sole e.. umido. Ce n’era così tanto!
Improvvisamente cominciai a sentire freddo, i brividi arrivarono fin sopra la testa e però eccola lì finalmente, proprio davanti a me, non era l’ingresso principale, ma da quella prospettiva la villa era come incorniciata dal cielo blu, il gran monte e la fitta campagna. Era spettrale, è vero! Ma a me sembrava un’opera d’arte. Una di quelle umili, umane, autentiche, imperfette e bellissime. Non ero mai stata più curiosa di allora. Decisi di entrare. Dritta. Provai ad aprire la porta, la maniglia di ottone ossidato era gelata e wow! Davanti a me vecchi ricordi della casa di campagna dei miei nonni, ricordi felici e il progetto di una nuova vita. Proprio lì. Le ragnatele facevano da protagonista e quell’odore, che era rimasto tale e quale, di quel vecchio armadio mi pervadeva. Il buio si infittiva e sorridevo al pensiero che chiunque altro in quella situazione si sarebbe sentito dentro a un film dell’orrore, mentre a me sembrava di essere tornata per la prima volta, dopo così tanto tempo e tanto peregrinare, finalmente a casa! Era deciso. Sì. Quella sarebbe diventata casa mia! Alla vecchia avrei pensato dopo.
Enza Di Lorenzo

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi…
La vecchia, dopo cinque anni che le portavo il pane, solo questo riusciva a dirmi: “non entrare dalla porta posteriore”. Mai un buongiorno, mai un grazie, mai quattro chiacchiere, solo un rude “non entrare dalla porta posteriore!”. Così ogni volta, le lasciavo il pane lì, sulla consolle all’ingresso e lì lasciavo tutta la mia curiosità su quella porta posteriore. Certe volte, credevo fosse un invito a farlo, ma nelle vibrazioni di quella voce roca sentivo che tanta era la paura che disertassi a quella regola. Cosa mai poteva esserci dietro la porta posteriore? Cadaveri mummificati? Refurtiva? Faldoni di dossier segreti del suo passato di spia internazionale?
Questa era la mia occasione: avevo le sue chiavi, sapevo che lei non era lì e nel mio petto adrenalina, curiosità e soddisfazione facevano volare i miei passi su quel cortile umidiccio e malamente tenuto.
Clic. La porta posteriore si aprì, senza chiave. Il segreto era una semplice cucina, pulitissima, apparecchiata per tre. Giochi di bimbo erano sparsi sul pavimento: una palla, un triciclo di legno, un peluche di pezza. C’era una coperta in patchwork adagiata sulla sedia. Sul tavolo, due bicchieri di vetro, due piatti di ceramica con dei disegni color confetto e una scodella. Sembrava che il tempo si fosse fermato, ma non un granello di polvere, nulla di sembrava vecchio o sgualcito o logorato dagli anni. Era una fotografia, quella che mi apparve, dietro quella porta posteriore, che non doveva essere aperta.
Anonimo

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi… Niente attira come il proibito. Percorsi il vialetto che costeggiava la casa mentre le erbacce umide mi accarezzavano le gambe, quasi mi volessero trattenere. Il muro bianco un po’ scrostato della villa mi riportò alla mente la casa al mare dei miei nonni. Anche quel muro era pieno di piccole gobbe che io da bambina mi divertivo a percorrere con le dita immaginando strade e autostrade per formiche, che in genere bazzicavano lì sopra alla ricerca di un cibo che chissà dov'era. D'istinto alzai la mano sinistra e feci scorrere le mie dita in quelle autostrade immaginarie che non rievocavo da troppi anni. Finalmente svoltai l'angolo e mi trovai di fronte alla porta posteriore che mi attendeva semi aperta e che lasciava intravvedere una cucina rustica, di quelle dove in genere spignatta una donna stanca a cui nessuno chiede più quanti anni abbia ma solo a che ora è pronta la cena. Spinsi la porta e un profumo irresistibile di biscotti mi avvolse, ricordandomi i miei nonni per la seconda volta in pochi minuti. Di mio nonno, in particolare. Era lui che amava cuocere biscotti con le gocce al cioccolato, per addolcire mia nonna, diceva lui, per aumentare la sua glicemia, replicava lei.
Mi ricordavo perfettamente il sole pomeridiano che entrava da una finestra e mi batteva sulla schiena mentre facevo cadere una pioggia di gocce di cioccolato sopra l'impasto, mentre mio nonno maneggiava quel panetto giallo con le sue mani nodose.
Chiusi gli occhi sorridendo e misi piede dentro la cucina.
Era vuota, polverosa e fredda e da nessuna parte vidi dei biscotti.
Francesca Palmas

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi.
Era proprio la storia della mia vita, tutti che cercavano di dirmi cosa non dovevo fare ed io che puntualmente lo facevo. Mica che poi fosse un male, ma certo le responsabilità delle mie azioni me le ero sempre prese tutte.
Girai l’angolo della casa ed in effetti la vecchia aveva le sue buone ragioni, visto che mi ritrovai di fronte ad un muro che mi rendeva impossibile l’accesso da quella parte. Mi toccava passare dalla via ufficiale, suonare al campanello, presentarmi senza rispondere “io” alla domanda “chi è”. È impossibile non rispondere io alla domanda chi è, ci ho provato tante volte ma niente, la risposta esce di getto, senza controllo, più forte di ogni razionale proposito fatto fino ad un attimo prima di premere il dito su quel maledetto campanello. Tutti siamo io di fronte ad un citofono.
Suonai, un attimo di attesa e, contrariamente alle mie aspettative, la porta si aprì senza esitazioni e mi ritrovai davanti il motivo per cui ero lì.
Il vecchio era magro, tremolante, ma con gli occhi vivi e presenti, curato di aspetto nonostante da giorni ormai cercasse di cavarsela da solo; la sua vecchia, compagna di una vita, mi aveva mandato a prenderlo dall’ospedale nel quale era ricoverata per portarlo da lei. Nessun parente, lui troppo anziano per avventurarsi da solo in un viaggio così complicato per una persona di quell’età, dovevo essere sembrata l’unica ancora di salvezza a quella donna.
Mi presentai, dissi il motivo per cui ero lì e mi sembrò che per un attimo, il sole per lui fosse sorto di nuovo: prese in fretta la giacca e mi seguì.
Letizia Battaglia 

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi… con passo furtivo alla ricerca di qualcosa che mi facesse scoprire quel mistero. Da giorni guardavo quella villa, piena di colori…era molto stravagante con le finestre tutte diverse, con i vetri dipinti con disegni fanciulleschi. “E se fosse la casa di Hansel e Gretel? Con la strega che non vede l’ora di mettermi nel forno?” Pensai in maniera divertita a quella opzione. “Ma cosa vuoi che sia?” Non mi fermò il pensiero della strega. Pensavo di poter trovare una fata che mi trasformasse in un Unicorno…o forse un Porcicorno con un corno arcobaleno sulla fronte? Mi scassavo dalle risate solo al pensiero.
“Ma la smetti di pensare e agiamo?”
Mi disse Frulli la mia migliore amica… la mia fata dalla nascita.
“Allora andiamo!”
Le dissi e insieme ci avviammo verso la porta…la maniglia brillava, mi diceva “aprimi sono qui!”
Il colore della porta era di un color madreperla iridescente, non aveva lo splendore che di sicuro ebbe tanto tempo fa perché un po' scrostata e malconcia. Mi sentivo attratta come da una grossa calamita colorata; posai lentamente la mano sulla maniglia e la sentì tiepida. Ma perché la vecchia non voleva che ci andassi? Frulli tremava sulla mia spalla. Non dalla paura…ma dalla trepidazione…non vedeva l’ora, come me, di scoprire cosa celava quella porta. Con cautela girai la maniglia e si sprigionò un lieve profumo di lavanda. “Ohh che meraviglia”, disse Frulli.
“Lo senti Emma? lo senti?”
Diceva Frulli tutta emozionata svolazzando di qua e di là.
“Sì che lo sento ma fermati”.
Allora aprì la porta senza paura…quel profumo mi inebriava…aprì la porta e non trovai più la casa. Mi ritrovai in mezzo a un campo di lavanda fioritissimo con un cielo azzurro ed una luce accecante. “Ma non ci posso credere!” Urlammo.
“Lo abbiamo trovato, lo abbiamo trovatoooo…ecco perché gli uomini del posto dell’Aldiquà non volevano farci arrivare qui!”
Mia madre sarebbe stata felicissima “…vero mamma?” Così lascia andare la mia domanda al vento.
Il giardino delle emozioni e dei ricordi d’amore…non potevano più negarci che ci fosse un posto pieno di amore…allora iniziammo a correre e ci inondammo del profumo dei ricordi.
Patricia Scioli

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi…verso il ferramenta di quella piccola e sconosciuta cittadina. Mi chiedevo “chissà se in questo posto sperduto nel mondo potrò mai trovare quanto mi serve per rimettere a posto e ripristinare il nobile aspetto che secondo me un tempo possedeva quella villa/cottage”. Sì, perché dopo tanti anni di rinunce personali a favore di scelte altrui, avevo improvvisamente deciso, mossa da uno slancio di improvvisa presa di coscienza, di acquistare il tanto agognato cottage in Bretagna. Un po’ per il piacere di trovarmi in queste campagne francesi sempre da sfondo nei gialli di Agatha Christie, che sanno anche di Inghilterra ma senza trovarmi nella perfida Albione, un po’ perché essendo cresciuta e avendo vissuto perennemente in una metropoli, una vita in amene località è sempre ciò che di più lontano sembra poter esistere. Mentre mi dimenavo in queste riflessioni, mi ritrovai di fronte al famigerato ferramenta di Monsieur Claude… la vecchia padrona di casa mi aveva raccomandato di essere sempre molto ossequiosa con lui e di evitare di passare ed entrare dalla porta sul retro… “Perché mai dovrei entrare, in un negozio, dal retro?” Elucubrava tra l’incredulo ed il sospettoso la cittadina, ma soprattutto la Miss Marple, che era in me…
Daria De Turris

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi…
in direzione della porta posta sul retro, la mia curiosità superava la paura di essere scoperta e la conseguente punizione che avrei ricevuto. Nel tragitto che conduceva alla porta posteriore mi domandavo cosa si celava all’interno di tale spazio, come mai era così inaccessibile? Ho trovato risposta ai mille quesiti che mi passavano di mente solo una volta aperta la porta, scoprendo, così, l’amabile segreto della mia vecchia nonna. Rimasi per un lasso temporale indecifrabile attonita, stupita, esterrefatta e senza parole, sorpresa dalle magnifiche pitture che si celavano all’interno di questa stanza. Non sostai a lungo sulla soglia, per paura di essere scoperta decisi di entrare in quello spazio semi oscuro, illuminato dalla semplice luce del giorno e chiusi la porta dietro di me, lasciandomi alle spalle un mondo che mi sembrava ormai distante. Un mondo distante perché pieno di pensieri e problemi che, di fronte a questo nuovo scenario costruito pittoricamente, mi sembravano inutili e superflui. Il mio corpo continuava a fluttuare nello spazio, come una girandola, ripercorrendo visivamente ora il soffitto, ora la parte centrale degli affreschi ed infine la sua porzione più bassa. Non riuscivo a fermarmi se non quando notavo degli strani elementi pittorici a me sconosciuti, simboli allegorici, forse, di un messaggio segreto e protetto da occhi indiscreti. La volta era semplice e lineare, infatti, presentava un soffitto a cassettoni di legno mentre le pareti erano ricche di affreschi rinascimentali che ricordavano miti di epoche ormai passate e lontane che risplendevano grazie alla fioca luce di un sole primaverile.
Nel mentre mi interrogavo chi fosse l’autore di tali opere meravigliose e perché questo suo capolavoro dovesse rimanere coperto e lontano dallo sguardo umano, di colpo sentii udire la voce indistinta di mia nonna che mi cercava. Cosa fare? Con mio grande rammarico fui costretta ad abbandonare questo luogo protetto e meraviglioso per ritornare alla mia nuova quotidianità, costituita, da allora, da nuove consapevolezze e da molteplici dubbi che solo la mia amata nonna poteva risolvere.
Anonimo

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi. La porta era malandata, come del resto tutta la casa. Mi avvicinai a piccoli passi, senza fretta. Poi mi fermai. Mille pensieri. Come avevo fatto a trovarmi lì da solo? Cosa avevo sbagliato negli ultimi giorni, mesi…anni? Gli errori si pagano – lo diceva mia madre – ma non avrei voluto iniziare da lì a saldare il conto. Un rumore improvviso mi scosse. Un gatto malandato si fermò ad osservarmi, senza un occhio. Anche lui. Come me sembrava vederci benissimo. Come potevo pensare di cavarmela? Ricordai ancora una volta le parole esatte della vecchia. Nessun motivo… non ero convinto. Non potevano esserci pericoli immediati. Lo dissi per me mentre posavo la mano sulla maniglia. Nonostante facessi pressione sbuffando, tirando verso di me ed il gatto dietro di me, la porta non si mosse. Poi un lampo. Dovevo solo spingere. Ero dentro. Il tempo passava più lento. Dopotutto potevo ancora arrivare con meno ritardo. Una stanza ampia, ingresso e soggiorno grigio polvere, con polvere naturale che sbiadiva tutto. Non doveva esserci passato nessuno recentemente. Nessun segno di un vissuto neppure remoto. Qualche rivista ingiallita su un tavolino di lato, rischiarato dalla mia torcia. Niente tv, pochi oggetti scomposti. Non avevo troppa autonomia. Pochi passi rumorosi ed entrai in camera da letto. Mi diressi tra il piccolo armadio e lo scrittoio. Doveva essere lì. Qualsiasi cosa stessi cercando l’avrei trovata lì. Poco tempo, una batteria scarica ed un occhio solo. Doveva essere lì. E da secoli.
Anonimo

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi, a passo deciso, spinto dall’impertinenza dei miei tredici anni.
“Io dalla porta principale non ci entro, mi vedono tutti!”
Eccola, la kriptonite dell’adolescenza: l’imbarazzo. E la presunzione che l’universo non abbia di meglio da fare che osservare e criticare ogni tua azione.
Mi rivedo, fermo di fronte alla porta posteriore che, naturalmente, era chiusa. “Naturalmente” lo dico ora, perché, quel martedì pomeriggio di quindici anni fa, rimasi a fissare quel portoncino di legno verde per un minuto prima di bussare timidamente.
Toc toc.
Nessuna risposta. Lo stupore fece posto al fastidio.
Toc toc toc!
Il fastidio fece accomodare l’insofferenza.
Toc toc toc toc toc toc!
E arrivò la rabbia.
A calci. Giuro, quella porta la presi a calci.
Da una delle finestre del primo piano, la vecchia mi guardava inorridita, urlando ogni sorta di improperi: “Ti avevo detto di non entrare di qua! Quella porta è rotta, non si apre! Smettila! Maleducato! Vai via, sparisci!”
Quel giorno, la stimata insegnante di pianoforte Nicla Carsi e mia madre ebbero una animata conversazione telefonica e io non tornai più alla villa.

“Eri proprio impaziente di imparare, eh?”
La voce mi sorprende alle spalle, facendomi sobbalzare le dita sulla tastiera.
“Signora Carsi! Speravo non mi riconoscesse!”
“Suonami qualcosa di bello e ti perdono”.
Lento e doloroso, attacco la prima Gymnopedie, inno alla malinconia di quel ragazzino che vedeva in un pianoforte il mezzo per esprimere la frustrazione di sentirsi diverso da tutti.
Quando finisco, mi saluta con un sorriso soddisfatto e torna al suo tavolo, accolta dai brindisi delle amiche. Franco, invece, mi guarda torvo: l’intermezzo concertistico non è quello per cui mi paga nel suo piano bar. Prontamente intono L’anno che verrà… stasera la suono volentieri: sono proprio contento di essere qui in questo momento.
La Peppa Bennet 

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un'indicazione? Fu proprio li che mi diressi...
non ero mai stata alle regole, o meglio, a quelle senza spiegazioni o che non capivo. Piano, quasi più lenta di una tartaruga, con l'anima che sudava per l'emozione e l'ansia, girai il pomello. Era uno di quelli di ottone, ormai rovinato perché nessuno metteva più piede in quella stanza da anni, a quanto sembrava.
Mi accorsi che era una sorta di serra, misi il piede dentro e uno strato di polvere si alzò nell'aria, sebbene i miei movimenti fossero stati lenti e controllati. La luce filtrava e ristagnava nella stanzetta dalle finestre della serra. L'aria era immobile e un leggero tepore, in quell'autunno tanto freddo, lo si poteva respirare in quella stanza fuori dal tempo. L'ordine che vi regnava era interrotto solo dalle ragnatele e dalla polvere che come lunghe liane invadeva quello spazio. Vidi due scrivanie di legno, antico, pesante, una con sopra libri e penne, calamai e fogli tutti sparsi, e l'altra strabordante di colori, pennelli e tele.
Sulle pareti quadri dipinti, pagine strappate dai libri decoravano la stanza. Due sedioline, tre sgabelli, un divano e due tappeti giacevano sparsi, ma composti in mezzo alla stanza. Rimasi stupefatta, sembrava un posto incantato. Mi chiesi il perché del divieto della vecchia. Ai miei occhi era un posto di quiete per la mente. Azzardai un altro passo, e vidi meglio i fogli sulla scrivania della "scrittura" così mi piaceva definirla. Una pila di carte scritte a mano con tratto leggero, femminile direi. Il testo era ben incolonnato e sembrava una lieve onda che si allungava a destra. Erano versi, forse poesie. Alcuni fogli giacevano appallottolati nel cestino, accanto alla scrivania, mentre altri sopra la stessa. Il tempo in quella stanza si era fermato.
Ratabirata

Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi...

... verso l’atrio principale e suonai il campanello. Ma niente. Nessuno rispose.

Aspettai ancora qualche istante e decisi di riprovare. DLIN DLON. Magari non aveva funzionato o non mi aveva sentita.

Presi coraggio e decisi di sbirciare dalla finestra.

Immaginai di vivere in una di quelle classiche scene da film o telefim di pessima produzione, quelle in cui la fase iniziale era con una povera malcapitata che avrebbe creato la suspance dei primi istanti, ma che tutti sapevano che sarebbe morta in modo stupido.

"Corri via!" Tutti pensano questo guardando quelle sequenze e invece lei resta lì davanti al suo destino ormai segnat… AAHHHRG!
Fine dei vaneggiamenti.
Ecco apparire la vecchia.

Indossava il suo solito golfino ceruleo infeltrito e il broncio sorpreso di chi non si aspettava di ricevere una visita.

"Ah, sei tu, cara. Entra"

La vecchia era la signora PJ.

Vedova, due figli che si alternavano ad andarla a trovare e tenerle compagnia e con nipoti ormai grandi, ma che non avevano dimenticato che lei fosse lì, sola e la facevano sentire amata anche e solo con una chiamata quando non potevano passare a trovarla di persona.

Era la mia vicina, ma la vedevo poco. Preferiva starsene in casa e organizzare la sua vita come quando c’era con lei il suo amato marito e intrattenere i numerosi ospiti che si alternavano nella sua casa.

Il loro amore era iniziato in tempo di guerra e si erano trasferiti quando iniziavano a costruire le prime case nel circondario.

La signora PJ era diventata malinconica dopo la morte del marito. Come non comprenderla, in fondo lui era il suo grande amore, così gentile e disponibile.

Nel quartiere tutti lo conoscevano e lo avevano amato.

Loro erano parte della storia del quartiere da quando tutto intorno alla loro abitazione non c’erano molte case più che altro campagna e campi.

Alla signora PJ, il vedere acquistare le case del vicinato da nuove coppie che subentravano agli anziani con cui aveva condiviso la giovinezza non la rendevano affatto triste, ma – al contrario – piena di speranza.

Il susseguirsi delle generazioni e delle nuove famiglie la riportavano alla fine degli anni 40 quando, neo sposi e pieni di progetti, anche lei e il sig. PJ si erano trasferiti.
Laura Sabato 


Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo Dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un'indicazione? Fu proprio lì che mi diressi. L'erba era alta, mi bagnai le caviglie; sentivo l'acqua fresca, un lieve fastidio, come un avvertimento. La porta era vecchia e logora, di legno, a grandi listelloni che furono verdi, ma che oggi somigliavano ad un vecchio albero rugoso. La toccai con un po' di timore e allo stesso tempo con una curiosità irrefrenabile. Al tatto era quasi morbida, gonfia com'era di umidità. Aveva uno di quegli antichi anelli attaccato al centro, lo accarezzai e sentii il freddo e il ruvido del ferro. Tutto aveva un odore come di cantina e di terra bagnata, provai a spingere ma mi resi subito conto che si apriva al contrario. Non aveva un pomello ma solo il buco della serratura. Provai ad infilarci un dito per tirarla verso di me, ma nulla. Mi ricordai di quella vecchia chiave, doveva essere lei la chiave giusta. Questo luogo mi riempiva di emozioni: mi faceva un po' paura ma al contempo esercitava su di me un magnetismo irresistibile, come quando da bambina mi infilavo in tutti i posti più nascosti dalla nonna, a cercare chissà che, ad indovinare la storia degli oggetti, chi li avesse toccati ed usati, a come erano vestite le persone all'epoca e a quali erano le emozioni che le muovevano. Era come precipitare in un vecchio romanzo ricco di personaggi e particolari, ma di un colore un po' sbiadito, come quelle vecchie illustrazioni con signore dagli abiti gonfi e gli ombrellini per il sole a passeggio con distinti signori dal monocolo ed il cappello. Il tempo passa veloce lasciandomi là rapita in una specie di film proiettato nella mia testa. L'odore forte del legno mi risvegliò da quel sogno.

Lisa


Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi.

Come mio solito ero arrivato tardi alla cena di compleanno di Gianfranco, un collega con cui non avevo neanche tanto feeling.

Odiavo le feste di compleanno, così chiassose e finte, ma odiavo ancora di più le cene di compleanno, bloccato in un posto a parlare con sconosciuti.
Gianfranco aveva avuto un'idea splendida, fare la cena in un mega ristorante cinese appena fuori città.  

"La muraglia Cinese" era una struttura immensa, un inno al capitalismo e all'incompetenza, oltre 1500 coperti e un parcheggio che conteneva appena un terzo dei posti macchina. Visto il notevole ritardo misi la macchina in un posto ai limiti della legalità, sperando nella fortuna che ovviamente non mi assistette.

Dopo circa 10 minuti un altoparlante interruppe la musica new age in perenne sottofondo e annunciò "la punto targata rtx 234 è da spostare con la massima urgenza". Mi alzai di scatto e mi fiondai fuori per spostarla.

Salii in macchina in cerca di un posteggio, era tutto pieno.

Decisi di circumnavigare l'enorme ristorante sperando di trovare nel parcheggio sul retro, percorsi quasi 5 minuti e avvistai un posto in una zona poco illuminata.

Aprii la porta sul retro e imboccai un corridoio illuminato da freddi neon, sembrava un'installazione militare, attraversai una porta che si aprì automaticamente al mio passaggio e mi trovai a un bivio: si aprivano due corridoi lunghissimi che al loro volta avevano varie diramazioni, imboccai quello a destra.

Passarono 5 minuti di cammino e mi bloccai davanti a una porta con dei simboli cinesi, che sperai significassero "accesso al ristorante".

Mi si aprì una sala enorme con delle vasche in cui erano immersi dei cinesi, totalmente coperti da un liquido gelatinoso verde; le vasche erano collegate a dei tubi e sopra ognuna c'era una lampada che emanava lampi a intermittenza.

Mi aggirai guardingo tra le vasche e notai che nelle prime c'erano degli anziani, col procedere verso il fondo della sala l'età si abbassava, fino alle ultime dove gli occupanti avevano un'età di circa 18 anni.
Sentii un forte vociare e un rumore come di rotelle nel corridoio, feci in tempo a nascondermi, appiattendomi dietro una vasca, quando entrarono 3 cinesi portando una barella su cui era disteso un uomo di circa 90 anni, chiaramente in fin di vita.
Lo sollevarono dalla barella e lo immersero nella vasca, accendendo la luce dedicata.
Mi appiattii ancora di più e decisi di attendere, una volta usciti aspettai almeno 40 minuti e poi decisi che era il momento di fuggire, ma prima mi avvicinai alla vasca per vedere il corpo appena immerso.
Quello che vidi mi terrorizzò: un corpo di una persona di circa 60 anni, era ringiovanito di 30 anni. Preso dal panico uscii correndo e ripercorsi il tragitto che avevo fatto per entrare, dopo 5 minuti mi trovai fuori nel parcheggio e tirai un sospiro di sollievo, salii in macchina e mi allontanai a folle velocità verso casa, scrivendo un messaggio a Gianfranco per giustificare l’assenza.
Avevo assistito a un Cocoon in versione cinese, pensai che il luogo comune che "i cinesi non muoiono mai" era proprio a vero.
Mi spogliai, avevo bisogno di una doccia per schiarirmi le idee e capire cosa fare, sarei dovuto andare dalla polizia o fare finta di nulla?
Suonò il citofono, sobbalzai. Chi poteva essere a quest'ora?
Risposi e mi si gelò il sangue, era il fattorino de "La muraglia cinese" con il mio ordine a domicilio, ordine che non avevo mai fatto.
Roberto Tavella


Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che si diresse, aveva sempre seguito le regole ma aveva smesso da un po’ di farlo. Cose innocue per carità ma cose che la rendevano un po’ più libera, un po’ più leggera. La porta scricchiolò, il movimento spostò una tendina, il caldo e due occhioni dolci l’accolsero. Era una cucina, una splendida cucina d’altri tempi. Pentole appese in alto. Pentole sul fuoco che sbuffavano. Credenze piene di cibo. Una donna di colore borbottava mentre tagliava con prepotenza del pollo. Tossì per far sentire la sua presenza. La donna si girò e il cane le andò incontro scodinzolando. “Salve, lei deve essere la nuova ospite della contessa... coraggiosa... la contessa vieta a tutti di venire qui in cucina” disse la donna mentre riprendeva a martoriare il povero pollo. “Più che coraggiosa, direi disubbidiente”. “Beh, a volte può essere la stessa cosa” le disse alzando il sopracciglio con espressione d’intesa.

Bionda per scelta


Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi…

Avevo solo diciannove anni, ma il mio corpo era sempre più prossimo a quello di un uomo, sebbene la mia voglia di avventura rimanesse quella tipica dell’età imberbe, sconsideratamente curiosa.
La vecchia poteva ben immaginare che non avrei resistito certamente alla sua interdizione. Da quando mi ero trasferito in città quella villa continuava ad attirarmi a sé e a respingermi, come l’onda fa con la rena. Più mi avvicinavo all’ingresso, più avevo la sensazione che mi rifuggisse. Austera nei sui marmi tipici, lasciava a colonne dalle sembianze femminili sopportare il suo peso. Freddi corpi bianchi, rotondi e lisci come quelli stampati sui libri d’arte. Gli occhi persi nell’infinito nulla, le bocche socchiuse a sussurrare cori di vento. Il suono dei miei passi restituiti dal legno massiccio del portone d’ingresso sembravano dettare il tempo al loro canto.
Ai lati, come rigoli i due selciati che conducevano alle logge. Che conducevano al retro.
Antonio Savinelli


Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi. Sapevo che mi era vietato ma non potevo certo tirarmi indietro. “Solo i servitori usano la porta posteriore” mi aveva detto più volte la vecchia. La vecchia tata, Clara. Ma ora non m’importava, non mi doveva importare. Stavamo giocando a nasconderci in giardino e, come al solito, io ero sotto. Accidenti a loro! Elsa, mia sorella, si era infrattata chissà dove, impossibile da trovare, la maga dell’occultamento tra felci e cespugli. Un fungo, praticamente. Ma Giovanni, quel baro di mio cugino, contro ogni regola da gentiluomo, era sgattaiolato dentro la Villa dalla porta posteriore, avevo riconosciuto la sua zazzera bionda un attimo prima di vederla scomparire dietro la porta che si chiudeva. Non c’era tempo da perdere, dovevo andargli subito dietro o l’avrei perso per sempre, dentro quel guazzabuglio di corridoi e stanze. No, non potevo lasciarmelo scappare, mi rifiutavo di perdere anche contro Giovannino. Elsa va bene ma Giovannino no, ne andava della mia dignità! Con le mie scarpe di vernice e i calzoni corti feci uno scatto verso la porta, girai la maniglia, venni investito dai profumi della cucina, vidi Giovannino scappare verso il fondo del corridoio, passai sotto le gambe di Alfredo, il maggiordomo, “Signorino, cosa state facendo?”, travolsi una cesta con le camice inamidate del Conte, mio padre, zigzagai tra due giovani valletti, “Ma che ci fa lui qua?”, attraversai al volo il salottino della servitù, feci volare con una capocciata un vassoio di biscotti, “Ma che succede? Accidenti!”, salii a due a due le scale che portavano al piano di sopra, spalancai la porta, allungai le dita e finalmente lo acciuffai.“Ahi! Ahi! Ahi! Lasciami i capelli!” frignò Giovannino.“Ti ho preso, ti ho preso, ti ho preso!” gridai io, Adalberto Federico Tancredi detto Gino, orgoglioso dei miei ricci pieni di briciole, dei calzoni strappati e dell’antipatia – guadagnata sul campo – di tutta la servitù.

Jane Pancrazia Cole
E domani, sempre su questo blog, saprete quale sarà il prossimo esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura.

È ufficiale, oggi prende il via il laboratorio condiviso di scrittura creativa. Sono sempre un po’ emozionata quando inizio un nuovo corso e questa volta non fa eccezione.

Oggi vi darò le indicazioni per il primo esercizio che dovrete spedirmi (janecole@live.it) entro domenica 26 gennaio. Oggetto della mail: Laboratorio condiviso di scrittura. Non temete, tutte le indicazioni di carattere pratico le ritroverete al fondo del post come promemoria.

Ogni laboratorio che si rispetti comincia con la scrittura a tempo. E anche in questo caso vale la medesima regola.

Prendete un foglio di carta o aprite un file sul pc. Scrivete il seguente incipit:
Girai intorno alla villa. Ricordai che la vecchia aveva detto che per nessun motivo dovevo entrare dalla porta posteriore. Un avvertimento o un’indicazione? Fu proprio lì che mi diressi… 

Puntate una sveglia, una di quelle vecchio stampo o, molto più probabilmente, quella del cellulare. La sveglia dovrà suonare dieci minuti dopo l’inizio dell’esercizio. Partite dall’incipit e cominciate a scrivere, senza fermarvi, senza tornare indietro, senza pensare. Assolutamente vietato correggere in corsa! Fatevi trascinare dalla fantasia o dalla quotidianità e, se proprio non vi viene in mente nulla, cominciate a buttar giù qualsiasi cosa, una parola dopo l’altra, numeri, giorni della settimana, una bella lista della spesa e poi chissà. Scrivete, scrivete, scrivete ma, attenzione, dosate le energie, dieci minuti possono essere incredibilmente lunghi.

Qualcuno di voi inizierà un racconto, qualcun altro un flusso di coscienza, qualcun altro ancora dieci cose diverse tutte assieme. Non sforzatevi, seguite la corrente, non fatevi venire l’ansia. Non si può sbagliare questo esercizio, qualunque cosa scriverete andrà bene. L’importante è che il trillo della sveglia vi sorprenda con la penna (o la tastiera) ancora in mano. Finito il tempo, finita la possibilità di scrivere. STOP. E sì, rispondo subito alla domanda che sicuramente mi vorrete fare: se siete a metà parola, o anche a metà frase, potete concluderla a sveglia già suonata. Non sono poi così cattiva!

Nei laboratori di scrittura classici, a esercizio finito, ognuno legge il proprio risultato agli altri. Ma questo è un laboratorio speciale ed avrete tempo fino al 26 gennaio per lavorare sul vostro scritto. Leggetelo e decidete voi che farne. Potrete correggere gli errori dettati dalla fetta e poi spedirmelo così com’è. Potrete revisionarlo completamente, stravolgerlo fino ad ottenere un risultato che vi soddisfi. Potrete usarlo come inizio di un racconto più lungo, potrete fare ciò che vi pare. La scrittura a tempo deve essere un detonatore di creatività e non una gabbia.

Per domande, dubbi, spiegazioni ulteriori, scrivete nei commenti. Ma, se siete riservati, anche via email, via messenger o attraverso il modulo sul blog. Cercherò di rispondere a tutti e il più velocemente possibile.

Ricordatevi, questo è un laboratorio, un nostro/vostro spazio, dovete divertirvi. Non fatevi venire l’ansia, non rimuginate sul vostro testo per giorni per poi magari rinunciare a spedirmelo. Non negateci e negatevi questo dono.

Bene, credo di avervi detto tutto, manca solo una cosa: buona scrittura!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: Dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: Laboratorio collettivo di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 26 gennaio 2020, ore 12.

Volete leggere i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.


Durante questo 2020 riorganizzerò il mio lavoro e dedicherò tempo a diversi progetti che mi stanno particolarmente a cuore. Il primo? Il laboratorio condiviso di scrittura. “Laboratorio condiviso”, per gli amici.

Cos’è? 

Prima un breve antefatto.
Quasi dieci anni fa partecipai per caso a un laboratorio di scrittura. Poche cose ho amato quanto ho amato quelle serate a scrivere con il bloc-notes sulle ginocchia, insieme ad altre persone, tutte accomunate dalla curiosità, dal desiderio di esprimersi e dalla voglia di scrivere ma anche, e soprattutto, dalla voglia di sapere cosa scrivevano gli altri. Perché questa è una delle grandi forze del laboratorio: confrontarsi con gli altri, restare ammirati dal loro talento, essere spronati dalla bellezza e dalla creatività altrui.
Il laboratorio, però, ad una certa chiuse. Io ne rimasi orfana e, dalla nostalgia, qualche anno dopo ne aprii uno tutto mio. Questa volta da “insegnante” e non da allieva. L’esperienza partì da casa per poi spostarsi su Skype e lì fiorire per anni.

Ora, però, sento la necessità di fare un passo avanti, di crescere ancora, di rendere questa realtà, quest’avventura ancora diversa. Ora è il momento del laboratorio condiviso di scrittura a cui tutti potete partecipare, comodamente da casa vostra, quando volete, se volete, e a costo zero.

Come funzionerà?
Martedì prossimo: 14 gennaio, pubblicherò – e condividerò urbi et orbi – un post con le indicazioni per il primo esercizio. Un’ispirazione, uno spunto, una scintilla creativa che vi possa essere da irresistibile stimolo. Poi avrete tempo di scrivere un testo (racconto, poesia, haiku, flusso di coscienza, fate voi) e di spedirlo a me entro domenica 26. Il 27 verrà pubblicato il primo post con tutte le vostre creazioni più una, la mia. Il giorno dopo, martedì, altro esercizio, due settimane dopo la pubblicazione, e così per tutto l’anno. Un’idea diversa ogni due settimane, tante versioni diverse (le vostre, anzi no, le nostre) ogni volta.

Sia che partecipiate in 100, in 2 o nessuno, io ogni due settimane pubblicherò comunque il mio testo, il mio esercizio svolto. 
Il vostro dovrà essere mandato all’indirizzo janecole@live.it; oggetto: laboratorio condiviso di scrittura. Ricordatevi di specificare sempre se volete rimanere anonimi o no, taggati o meno. Comunque, non temete, ad ogni post vi ripeterò tutta la solfa.

Che ne dite? Vi va di prendere parte a questa avventura lunga un anno? Non temete potrete partecipare una due o 30 volte, solo la prima e mai più, a partire dalla seconda o aspettando l’ispirazione dell’esercizio giusto, una volta sì e una no. La porta sarà sempre aperta, a voi la scelta di varcarla se e quando vorrete.

E se vi state chiedendo: perché mai dovrei partecipare? A che pro? Che mi frega di finire nel blog di questa? Si partecipa per ritagliarsi del tempo, per cercare degli stimoli, per avere un rifugio, una cuccia dove mettersi a proprio agio, un foglio bianco da riempire di idee, un salottino virtuale dove scrivere e leggere. Trovate l’immagine che più vi attrae e questo sarà il laboratorio, questo sarà il laboratorio per voi.

Se avete delle domande sono qua. E ricordatevi: ci leggiamo martedì prossimo con il primo esercizio.

Ps: l’idea è nata da una agenda che, un paio di natali fa, proprio dei miei allievi di scrittura misero insieme e mi regalarono. L'avevano riempita di spunti, immagini, frasi, colori. Tante idee diverse per stimolare la scrittura. Quindi è tutto merito loro, grazie Michela, Michele, Peppa, Patricia!
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