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Per l'ultimo esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura ho scritto un racconto, scegliendo il ragazzo in foto come protagonista. Era una storia breve e senza impegno, quella di un uomo che attende una donna in ritardo a un appuntamento. Una volta finita mi sono subito resa conto che non bastava ciò che avevo scritto, ci voleva anche il punto di vista di lei. Quindi ora, eccoli entrambi: prima lui e poi lei.

Un minuto.
Un minuto di ritardo.
Non è grave, sono sicuro che stia arrivando. È colpa mia, io sono sempre così puntuale che passo la mia vita ad aspettare gli altri. Sono sereno, già che ci sono scrivo a quel cliente.

Un minuto.
Un minuto di ritardo.
Uno dei laccetti di cuoio dei miei sandali si rompe proiettandomi sull’asfalto a pochi metri da lui. Più che le ferite, brucia l’umiliazione. Una signora mi porge la mano, mi sollevo, lo cerco con lo sguardo. Non si è accorto di nulla, scrive al cellulare, per fortuna.

Cinque minuti.
Cinque minuti di ritardo.
Guardo lungo la strada. Non arriva. Cerco notizie sul cellulare. Nessun messaggio su whatsapp, non un cenno su messenger, neanche un vecchio caro sms. Tranquillo. Sono tranquillo. Rido a un meme del mio socio.

Cinque minuti.
Cinque minuti di ritardo.
Mi infilo dentro il centro commerciale che si trova dietro l’angolo. Con le scarpe in una mano, cammino a piedi nudi fino al primo negozio di calzature. Se faccio in fretta forse riesco a salvare l’appuntamento.

Quindici minuti.
Quindici minuti di ritardo.
Cammino avanti e indietro sul marciapiede. Spero che arrivi presto. Ma vorrei che non mi beccasse in piena crisi di ansia, vorrei avere un'aria più cool ma proprio non ci riesco. Che mi becchi pure così, che rida di me vedendomi da lontano mentre macino km sul marciapiede e armeggio col cellulare, che mi becchi pure così, basta che arrivi. Presto. O anche tardi. Basta che arrivi.

Quindici minuti.
Quindici minuti di ritardo.
Scelgo un paio di adorabili sandali ma mi accorgo di aver dimenticato la carta di credito in ufficio. Non ho molti contanti con me: l’unica cosa che posso permettermi è un paio d’infradito. Andrò all’appuntamento con il tizio carino del bar, il tizio su cui ho fantasticato per settimane, con un paio di infradito di plastica. Due zattere verde mela di due numeri in più. Mi accascio su una panchina di fronte al negozio. Un piangino isterico ora non me lo leva nessuno.

Trenta minuti.
Trenta minuti di ritardo.
Ha il telefono staccato. Riempio l'aria di parolacce assortite, una signora copre le orecchie del nipote e mi guarda con rimprovero. Giro i tacchi e faccio per andarmene.
"Scusa" sento alle mie spalle.
Mi giro.
Eccola.
"Oddìo, scusa il ritardo! Temevo di non trovarti più, il lavoro, la metro, il cellulare scarico, sono un disastro" ha l'aria arruffata, ha corso, gli occhi lucidi, sta per piangere.
È davvero dispiaciuta. Voleva davvero esserci, ora c’è. Basta che arrivi, mi ero detto.
"In ritardo? Figurati anch'io sono appena arrivato".

Trenta minuti.
Trenta minuti di ritardo.
Decido di tornare a casa. Ora gli scrivo un messaggio per avvertirlo che ho avuto un contrattempo. Prendo il cellulare dalla borsa: è scarico. Non mi perdonerà mai. Mi odierà per sempre. Dovrò anche cambiare bar.
Prima di andarmene, lo spio da dietro l’angolo, è ancora là, dopo mezz’ora non ha ancora rinunciato, fa avanti e indietro sul marciapiede, è nervoso, arrabbiato, deluso.
È adorabile.
Non ero l’unica a tenerci a questo appuntamento.
Mi avvicino, “Scusa” dico alle sue spalle.
Si gira. “Oddio, scusa il ritardo! Temevo di non trovarti più, il lavoro, la metro, il cellulare scarico, sono un disastro"” continuo. Sono orrenda, mento per salvare la dignità, sto per piangere.
"In ritardo? Figurati anch'io sono appena arrivato", mi sorride.
Spero tanto che non mi guardi i piedi.




Ben strano il destino della mia rubrica di consigli. La prima edizione, uscita a inizio del mese, ha dovuto evitare teatri, cinema e cabaret, dato che li avevano già chiusi quasi tutti per colpa del coronavirus. Mentre la seconda (questa!), invece di uscire ad aprile, viene anticipata ad oggi, 11 marzo 2020, perché da un paio di giorni l'Italia è diventata tutta Zona Rossa e noi, lavoro permettendo, è meglio che #StiamoACasa. Quindi, se questa rubrica vuole avere un senso, che lo abbia soprattutto ora, nel momento del bisogno, nel momento in cui è grande la necessità di svago e suggerimenti.

Che siate da soli o in compagnia, con i vostri genitori, i vostri figli o i vostri amanti, 24 ore a casa sono lunghe e, per evitare l'abbrutimento, oltre che, cucinare, mangiare, fare ginnastica, è il caso di distrarsi con tutto ciò che la rete ha da offrire in questo momento. E vi posso assicurare che è molto ed è vario.

Eccovi un breve elenco da me amorevolmente redatto.

Stasera iniziano le trasmissioni di Red Zone Comedy, la stand up comedy disponibile direttamente a casa. Se guardandola mangerete patatine e vi farete uno spritz, l'effetto locale di cabaret sarà perfetto! www.facebook.com/redzonecomedy

Avete dovuto rinunciare a viaggi già in programma e vi è presa una tristezza cosmica? Non c'è problema, è possibile visitare alcune attrazioni anche dal proprio divano. Tre esempi? Il Louvre, la NASA e Digital Cosmos, la sede digitale del Castello di Rivoli – museo d'arte contemporanea. Quest'ultima è stata aperta in fretta e furia da pochissimo, proprio per andare in contro all'emergenza attuale e continuare a diffondere bellezza, vi pare poco?
www.louvre.fr/en/visites-en-ligne.
www.nasa.gov/glennvirtualtours.
www.castellodirivoli.org/mostra/digital-cosmos/.

Volete leggere ma avete finito i libri a casa? E che sfiga! Comprateli online, scaricateli o, ancora meglio, aiutate le librerie sparse per l'Italia che, grazie all'idea del sito The Book Advisor,  si impegnano a spedirvi i libri direttamente a casa. Le merci circolano ancora, il corriere suona, vi lascia il pacchetto davanti alla porta e stiamo tutti tranquilli.
Ecco l'elenco: www.thebookadvisor.it.

Poi avete ovviamente Youtube, la TV, i social con gli attivissimi influencer, ad ognuno il proprio, e il mio Laboratorio Condiviso di Scrittura, giunto ormai al quinto esercizio, a partecipazione libera e assolutamente gratuita. Mi sto autopromuovendo? E certo!

Mi sono persa qualcosa? Voi aggiungereste qualcosa all'elenco?



Dopo due mesi di esercizi, durante un periodo che dire complicato è dir poco, ho ritenuto che fosse il momento di tirare il fiato e di scrivere senza troppi pensieri. Quindi, dopo aver dato nuovi significati a nuove parole, storie a facce sconosciute, litigi a coppie senza volti, si torna all'origine, si torna alla Scrittura a Tempo.

Esercizio perfetto per coloro che hanno già partecipato al laboratorio e hanno bisogno di rallentare il ritmo e anche per chi al laboratorio non ha mai partecipato e preferisce iniziare in maniera soft, mettendo un piedino alla volta dentro l'acqua ghiacciata.

Per chi non lo sapesse: cos'è la scrittura a tempo? L'esercizio di base di ogni laboratorio che si rispetti.

Si punta una sveglia che dovrà suonare dieci minuti dopo l'inizio dell'esercizio. Si parte da un incipit  (uguale per tutti) e si scrive, si scrive, si scrive, senza pensieri, senza tornare indietro, senza correggere, fino a quando la sveglia non suona e allora ci si interrompe.

Per questa settimana il vostro incipit sarà il seguente:
Lo vide in un angolo. Sedeva di fronte alla finestra e guardava le fronde degli alberi graffiare il cielo giallognolo di Roma. I capelli neri brillavano alla luce dei lampadari. Gli si avvicinò con cautela. "Mi scusi...
Nei dieci minuti a vostra disposizione qualcuno avrà scritto un racconto, qualcun altro una poesia, un flusso di coscienza o chissà che altro. Non c'è problema, non si può sbagliare questo esercizio, qualunque cosa scriviate andrà bene. L’importante è che il trillo della sveglia vi sorprenda con la penna (o la tastiera) ancora in mano. Finito il tempo, finita la possibilità di scrivere. STOP. Ovviamente se siete a metà parola, o anche a metà frase, potete concluderla a sveglia già suonata. Non sono poi così cattiva!

A esercizio finito potete spedirmi ciò che avete prodotto senza correggerlo, oppure potete sistemarlo, o ancora usarlo come l'inizio di un racconto più lungo e articolato. Starà a voi scegliere, potrete fare ciò che vi pare, la scrittura a tempo serve a questo: a liberare la creatività senza costrizioni. Divertitevi quanto vi pare e ricordatevi solo di spedirmi il tutto entro domenica 22 marzo 2020 alle ore 12.

Come sempre, se avete domande, contattatemi pure sul Blog, su FB, Twitter, Instagram o LinkedIn, non si può dire che io sia una persona difficile da trovare!

Credo di avervi detto tutto, non mi resta che augurarvi buona scrittura!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio collettivo di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 22 marzo 2020, ore 12.

Volete leggere tutti i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.
Due settimane fa ho pubblicato quattro immagini tra cui scegliere, quattro facce, quattro persone, quattro protagonisti. Come sempre, anche questa volta, molti di voi mi hanno risposto in maniera incredibilmente sollecita e quindi oggi condivido con tutti le nostre storie. Storie che sanno di passato, di mistero, di magia ma anche quotidianità.

Questa volta i racconti non sono in ordine di ricezione ma in ordine di personaggio scelto.

Buona lettura e a domani per il quinto esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura Creativa!


Emma è una ragazza di 12 anni in piena adolescenza, viso limpido e sempre sorridente con una smorfia leggermente burlona… “Non so quando mi parli sul serio o quando mi stai prendendo in giro” – le dice suo padre quando lei lo guarda quasi senza espressione quando lui la richiama all’ordine. Lei scappa dicendo “Ti voglio bene papino” e lui si scioglie come neve al sole.

Emma ha un frizzante fisico snello ed è sempre in continuo movimento… “Sembra che voli” – commenta sua madre ogni volta che la vede saltellare in mezzo ai rami dell’albero in giardino. Da sempre nel mondo dell’Aldiquà ha imparato a giocare fin da piccola con le fate. Sì con le fate!, perché Emma è nata con uno strano dono… un occhio magico che nasconde con astuzia dietro ai suoi occhiali da sole.

Da quando ha visto la luce Emma si è rivelata una bimba speciale, appena nata la sua testa era ricoperta da una leggera peluria grigio azzurra che crescendo man mano si è trasformata in splendidi capelli turchesi, lisci, morbidi sempre a seguire il movimento del suo corpo irrequieto. Nella sua famiglia né mamma né papà hanno i capelli turchesi ma, guardando vecchie foto, hanno scoperto che la trisnonna Ada aveva anche lei i capelli turchesi e che assieme a quei capelli turchesi aveva anche un dono un po' strano... Oltre ai capelli turchesi Emma aveva l’occhio sinistro di un azzurro profondo che guardava un po' all’insù…per questo motivo era vittima di prese in giro a scuola e di discriminazione. Molti bambini non la volevano come amica ed Emma ci soffriva molto. Ma quell’occhio non era un occhio qualsiasi, era come quello della nonna Ada…vedeva gli esseri magici, incluse le fate, così non rimaneva mai sola. Aveva un gruppo di amici magici che l’apprezzava così com’era lei EMMA indipendentemente dalla sua apparenza e dal suo modo di essere. Il suo occhio magico aveva anche un altro immenso dono, riusciva a percepire le emozioni che provavano le persone intorno a lei. Un dono che all’inizio le faceva paura ma che crescendo l’avrebbe resa sempre più empatica e capace di capire meglio gli altri… fu grazie alla scoperta dell’empatia che Emma iniziò a scoprire quelli che poi divennero i suoi amici non magici!

Patricia Scioli



Un minuto.
Un minuto di ritardo.
Non è grave, sono sicuro che stia arrivando. È colpa mia, io sono sempre così puntuale che passo la mia vita ad aspettare gli altri. Sono sereno, già che ci sono scrivo a quel cliente.

Cinque minuti.
Cinque minuti di ritardo.
Guardo lungo la strada. Non arriva. Cerco notizie sul cellulare. Nessun messaggio su whatsapp, non un cenno su messenger, neanche un vecchio caro sms. Tranquillo. Sono tranquillo. Rido a un meme del mio socio.

Quindici minuti.
Quindici minuti di ritardo.
Cammino avanti e indietro sul marciapiede. Spero che arrivi presto. Ma vorrei che non mi beccasse in piena crisi di ansia, vorrei avere un'aria più cool ma proprio non ci riesco. Che mi becchi pure così, che rida di me vedendomi da lontano mentre macino km sul marciapiede e armeggio col cellulare, che mi becchi pure così, basta che arrivi. Presto. O anche tardi. Basta che arrivi.

Trenta minuti.
Trenta minuti di ritardo.
Ha il telefono staccato. Riempio l'aria di parolacce assortite, una signora copre le orecchie del nipote e mi guarda con rimprovero. Giro i tacchi e faccio per andarmene.
"Scusa" sento alle mie spalle.
Mi giro.
Eccola.
"Oddìo, scusa il ritardo! Temevo di non trovarti più, il lavoro, la metro, il cellulare scarico, sono un disastro" ha l'aria arruffata, ha corso, gli occhi lucidi, sta per piangere. È davvero dispiaciuta. Voleva davvero esserci, ora c’è. Basta che arrivi, mi ero detto.
"In ritardo? Figurati anch'io sono appena arrivato".

Jane Pancrazia Cole



Me la sono fatta fare proprio così questa foto, in bianco e nero, con lo sguardo lanciato lontano, una foto quasi antica, dal sapore di cose passate. Mi hanno sempre detto che ho un profilo alla Virginia Wolf e io mi sono voluta calare nel personaggio, almeno in un ritratto da appendere al muro.


Sì, perché io poi questa cosa del flusso di coscienza ce l’ho proprio dentro, anche se non mi serve per scrivere: il pensiero parte da un punto non precisato e fluisce, gira, spazia, si ferma sui dettagli di storie fantastiche, si eleva a livelli inimmaginabili creando vortici di emozioni. Sono una donna semplice, ma dentro di me è chiusa una rivoluzionaria, poi una santa, poi una donna libera, che come diceva un’altra eccellente scrittrice, è l’assoluto contrario di una donna leggera. Tutte queste etichette mi sono sempre andate strette e forse è proprio per questo che all’apparenza io sono così normale, così adeguata ai canoni di brava persona agli occhi di chi guarda.

Poso nuovamente lo sguardo su questa foto e lì ci trovo ancora quei pensieri di bambina che si sognava archeologa e non certo una banale impiegata. Guardo il mio profilo, ormai appesantito e con i primi segni del tempo che passa, ancora non ci credo che tutto quello che ho dentro, giovane, scalpitante, ferocemente innamorato della vita, strida così pesantemente con il mio involucro esterno. Quante cose si possono nascondere in una foto. Quante emozioni. Sono lontana in quello sguardo, sono tra le braccia di un amante appassionato, sono la mano tesa all’aiuto, sono il pugno levato al potere, sono il pianto disperato, il grido di vendetta contro l’ingiustizia. Spesso la sera, quando appoggio la testa sul cuscino e chiudo gli occhi, mi chiedo cosa ne ho fatto del giorno passato: il tempo, l’unico vero tesoro che ci è dato, questo tempo come l’ho vissuto? E soprattutto, l’ho vissuto veramente? La vita sembra fatta solo di impegni, ma è davvero la vita questa? Il mio ritratto in bianco e nero sembra parlarmi anche di questo, mi racconta di mondi che vorrei aver visto, di sguardi che avrei voluto incrociare, di avventure. Mi parla di vita.

L’ho appeso al muro, senza cornice, perché almeno la foto non voglio che sia imbrigliata in spazi prestabiliti: l’ho appeso ed ho guardato le reazioni di chi l’ha visto. Mia madre ha borbottato che sembro una vecchia, mio padre ha sorriso evitando di rimarcare che forse, lo sono.

Le mia amiche si sono divise tra quelle che lo hanno ignorato, come se fosse solo un altro oggetto di arredamento e quelle che invece hanno dato un giudizio, chi sommario, tipo “oh che bella quella foto”, chi tagliente “dai, ma non sei poi così male”, chi invece cercando un significato che andasse oltre l’apparenza. Quelle, neanche a dirlo, sono le mie migliori amiche: quelle che sanno cosa pensi anche quando non lo dici e sanno trovare anche in una semplice foto, quella che veramente sei.

Voglio immaginare anche cosa ne penserebbe l’uomo della mia vita di quella foto, se solo ci fosse; cosa vi scorgerebbe, se riuscirebbe a capire qualcosa che standomi accanto, ancora non sa. Quell’uomo sognato, desiderato, quell’uomo che non c’è proprio perché non assomiglia a nessuno ed è solo quello che aspetti. Lui vorrebbe vedere quei mondi insieme a me, quegli sguardi insieme a me, alzare con me quel pugno, lui compagno e complice, lui tenero e sicuro.

E ora basta flusso di coscienza, torno alla mia normalità, fisserò ancora il mio ritratto un giorno e forse, allora, anch’io sarò fuori dalla mia cornice, sarò libera come uno sguardo in bianco e nero lanciato nella vita.

Letizia Battaglia

Mi chiamo Flora, vestigia del lavoro di botanico di mio padre e dell'amore per le lettere classiche di mia madre.
E assomiglio al nome che porto, a chi non succede... Ogni genitore dovrebbe saperlo che la prima scelta che fa per un figlio ne racconterà l'indole e la guiderà, per amore o per forza.
Mi chiamo Flora e come il mondo che rappresento anche io muoio in inverno e rinasco, in questo angolo di Inghilterra, ogni volta che i daffodils tingono di giallo le piccole colline.
Allora passeggio, col mio libro e col quaderno nero, dove disegno fiori, insetti, dettagli insignificanti che raccontano l'intera storia dell'universo: la nervatura di una foglia, il viola di un petalo, la radice gonfia di un ciclamino.
Ogni tanto mi siedo, metto insieme i pensieri e le pagine, cercando un filo nei miei disegni.
Cosa trasformi un fiore in frutto, un seme in pianta, l'aria in vita.
A volte mi pare di avere tutto chiaro: il sole ci manda la luce, qualcosa, nelle foglie, la trasforma in cibo, gli animali lo mangiano, noi mangiamo gli animali, infine tutto muore e torna all'aria, alla terra, alla luce.
Ho messo in fila queste idee. Non mi hanno fatto parlare, il posto delle donne d'Inghilterra non è la scuola, ma il letto, a far figli timorati di Dio, e in cucina, a rigovernare piatti sudici e mariti ubriachi, di lavoro, di birra e di noia.
Già, Dio.
Dio che non entra nel mio quaderno, che non racconta, non spiega, non torna.
Perché Dio dovrebbe aver fatto il cancro del platano, la scoliosi e l'appendicite?
Perché non potremmo solo spiegare quello che c'è con quello che da sempre sappiamo?
Nulla esiste per grazia, tutto accade per caso e necessità.
Bisognerà che alla prima occasione ne parli con mio cugino Charles, è l'unico che mi capisce in queste cose...
Letteredalucca
Questa è la storia di Virginia, una donna intraprendente, impulsiva ed eclettica che ha saputo abbattere alcuni luoghi comuni riservati alle donne della sua epoca. Ella visse agli inizi del Novecento a Parigi, quando allora la città era un punto nevralgico della produzione artistica internazionale, fin tanto che era possibile ascoltare conversazioni personali nelle più disparate ed inconsuete lingue, per lo più sconosciute alle orecchie di molti.

Virginia si trasferì a Parigi all’età di 25 anni, quando comprese che la sua città natale, un piccolo paese collinare, era troppo stretto e rigido rispetto alle sue idee rivoluzionarie. Nel suo paese natale Virginia viveva in una spaziosa villa in campagna insieme ai suoi genitori, con le sue sorelle ed i suoi fratelli. Nonostante questa importante compagnia, la nostra protagonista, nei suoi anni adolescenziali, si sentiva spesso isolata ed incompresa. Inoltre, durante questo periodo le successe un importante fatto che modificò per sempre la sua vita, tanto da valerle il soprannome di idiota fra i suoi amici e compagni che, nonostante volessero davvero bene a Virginia, suscitarono in lei un forte senso di inadeguatezza, rendendo la ragazza introversa, timida ed insicura. Questo soprannome nacque in seguito allo spargersi di notizie circa la salute della nostra protagonista, una ragazza assai minuta che all’età di 14 anni fu afflitta per la prima volta da un attacco epilettico, malattia che la accompagnò lungo l’arco della sua adolescenza; questi episodi erano reputati, in quegli anni, incomprensibili ed innaturali di fronte agli occhi dei suoi coetanei. Essi iniziarono, in seguito alla lettura del libro Idiota di Dostoevskij ad associare il soprannome del protagonista del romanzo, idiota per l’appunto, a Virginia, essendo entrambi accomunati dalla stessa malattia. Ella non comprese mai questo strano nomignolo anzi cercò in tutti i modi di rimuoverselo, cercando di ripetere più e più volte ad i suoi amici, le precise indicazioni dettatale dal medico del paese che capì che poteva trattarsi di un aspetto positivo essendo tale patologia definita in greco morbo sacro. Virginia riportava le parole del dottore ogni qual si volta veniva chiamata con quel suo orrendo soprannome che le affibbiarono i suoi amici, vuoi per auto difesa vuoi per cercare di convincersi che lei fosse non solo normale bensì dotata di alcune attitudini riservate a pochi eletti, siccome l’epilessia affliggeva, in epoca greca e romana, personaggi illustri. Nonostante questo coraggio e questa continua lotta da parte di Virginia verso l’ingenuità e l’ignoranza dei suoi amici, ella non solo si convinse sempre più delle sue doti naturali, bensì di impegnò anima e corpo alla ricerca di un possibile riscatto personale, lontano dal suo paese natale.

Secondo il medico del paese, divenuto ormai suo complice più segreto, ella possedeva delle innate doti scrittorie, fu proprio lui, infatti, ad iniziarla a quel fantastico mondo sperimentale ed in continua evoluzione che era la letteratura francese di quegli anni. l’immaginario della nostra giovane fanciulla, sarebbe dovuta avvenire in un ambito ben specifico: la letteratura. Virginia, complice con il dottore, continuava a seguire, tramite quotidiani e riviste d’avanguardia, le innumerevoli imprese e scoperte che si consumavano quotidianamente a Parigi. In particolare modo, in quegli anni, la colpì la possibilità di poter raffigurare visivamente il contenuto letterario di una poesia, avendo lei appena letto il testo Il Pleut scritto da Guillame Apollinaire. In seguito a questa rivoluzionaria scoperta e forte del fatto di disporre di innate abilità scrittorie decise all’età di 25 anni di lasciare la sua terra natale e di avventurarsi, senza alcuna sicurezza economica o di ogni qual altro genere, nella capitale francese.

La ragazza trovò un’insolita sistemazione sulla rive droite, proprio grazie alla frequentazione di quei celebri café di cui aveva sentito parlare nei numerosi testi da lei letti in quegli anni. Fu in questi luoghi, così tanto sognati ed immaginati visivamente, che la nostra Virginia iniziò ad interfacciarsi con nuove compagne di avventura, specialmente con tre donne a lei coetanee che le proposero, pochi giorni dopo il suo arrivo a Parigi, di vivere nella loro abitazione, una mansarda situata nei pressi di Montmartre. Virginia accettò volentieri ed iniziò, quasi subito, a raccontare il motivo del suo approdo a Parigi, riscontrando nella sua malattia e nelle sue ambizioni personali le primarie fonti di migrazione verso quella terra promessa così tanto agognata e sognata negli anni della sua adolescenza al paese. Le sue inquiline e nuove amiche abituate a ben altri disordini e problemi che dovevano fronteggiare in quella crudele quanto affascinante città, qual era Parigi, non si sorpresero in alcun modo della dichiarazione di Virginia, anzi le diedero pieno supporto e comprensione cercando, fin tanto che gli era loro possibile, di aiutare Virginia nell’orientarsi. La nostra giovane fanciulla seguì alla lettera i consigli delle sue nuove amiche e fu così che iniziò a frequentare abitualmente le Chat Noire e la Rotonde, café dove era possibile incontrare i massimi esponenti della rivoluzione artistica e letteraria di quegli anni. Ella iniziò a sentirsi subito a suo agio, i nuovi problemi quotidiani le permisero di scordarsi e di rimuovere per sempre vecchi mostri insiti ormai del suo passato e di una donna che non esisteva più. Il suo nuovo mondo era costituto da orari irregolari, pasti saltuari, una vita inusuale la cui principale fonte di gioia proveniva da continue lezioni di vita, di arte, di letteratura e di musica udibili gratuitamente nei café da lei frequentati giornalmente. Tutto ciò che ella ascoltava durante il giorno lo trasportava su carta all’alba, quando le sue inquiline dormivano ancora e la città sembrava sotterrata da un leggero strato di oscurità ed incertezza utile a suscitare, nella nostra donna, un profuso senso di curiosità sulle nuove opportunità e sfide che la aspettavano l’indomani. Questa nuova vita, città e compagnia le permisero di realizzare e concretizzare, in opere letterarie di rara bellezza poetica e sentimentale, quella donna insicura e timida abituata a sognare ad occhi aperti.

Lucrezia Pellizzola
Era l’inverno del 1923, di lì a pochi giorni sarebbe stata sulla prima pagina di tutti i giornali, gli strilloni si sarebbero trovati ad annunciare a squarciagola “Madame Lestrange regina dell’occulto!” Nei salotti di Londra, si sussurrava di come Madame Lestrange, donna dall’apparenza morigerata, di nero vestita e con espressione anonima, fosse però in grado di riportare per qualche minuto indeterminato, nell’aldiquà chi si trovasse nell’aldilà. Molti cacciatori di ciarlatani si erano cimentati nell’intento di smascherarla, ma con scarsi risultati. Chiunque avesse vissuto quell’esperienza dal sapore ultraterreno, era pronto a giurare non solo quanto avesse sentito ma soprattutto, cosa ben più difficile da inventare, quanto avesse visto! La proclamavano medium, spiritista, regina dell’occulto e, ad aumentare quell’aura di timore reverenziale, era il fatto che si veniva ricevuti, in prima battuta, in un’anticamera. Qui, all’interno di un villino liberty dalle vetrate smerigliate, Madame Lestrange ascoltava in devoto silenzio la storia del richiedente, guardava quasi sempre un punto nel vuoto, senza fissare alcuno trasmetteva la sensazione che fosse già in una sorta di trance, mentre l’interlocutore viveva nel sacro terrore del sentirsi, alla fine, negata la possibilità del “contatto”. Si, perché alla fine madame Lestrange decideva se valesse la pena o meno di utilizzare il suo dono per quel determinato caso. Superato l’esame iniziale, la diafana signora dal dono soprannaturale, faceva accomodare i richiedenti nella sua stanza attorno al tavolo della cerimonia e, mentre iniziava, faceva servire loro del tè caldo al limone. Da quel momento in poi, raccontava chiunque avesse frequentato quel posto, accadeva che la percezione della realtà di ogni presente fosse del tutto alterata e surreale. Ora, all’epoca ero io il maggiordomo al servizio che si occupava di tutto, posso spiegarvi molte cose a partire dalle abilità della Signora. Innanzitutto Madame Lestrange era una chimica e, in quanto tale, sapeva perfettamente come il potere di un veleno venisse accelerato nel momento in cui questo venisse a contatto con una sostanza acida. Proprio per ciò, al momento del tè spettava a me il compito di inserire un’infima quantità di polvere velenosa con il limone, sicché questo procurava delle piccolissime allucinazioni che, ovviamente variavano da soggetto a soggetto, facendo sì che La Signora potesse manipolare la coscienza di ognuno a proprio piacimento. Ovviamente una volta fuori, i presenti, non si azzardavano a contraddirsi ed ognuno poteva riferire alle cronache le proprie differenti e senza dubbio veritiere, esperienze! Ecco perché Madame non poté mai essere smascherata, balzando invece così agli onori delle cronache come la Regina indiscussa dell’Occulto.
Daria de Turris

Guarda, guarda come se ne va in giro. Come se nulla fosse.

Strafottente nel suo cappotto scuro. Con quell'andatura finto-incerta, guarda come studia la situazione. Sta tramando qualcosa.

Leggero come una farfalla ma preciso come un dardo, il suo sguardo aleggia sulla via. Si schianta sui lampioni, buca il marciapiede, squarcia le vetrine dei negozi. Si ficca nei passanti lacerandoli. Con gli occhi, lui condanna a caso. Tu sì, tu no.

Guarda quel vecchio come avanza sprezzante, con il cappello blu petrolio che affonda tra la gente. Si crede più alto ma è solo più visibile.

Ecco! La sua prossima mossa verso l'inesorabile! L'hai vista? È lì, concentrata sulla sua barba. Hai notato come le labbra gli tremano dalla rabbia? Vibrano in modo quasi impercettibile, come volessero colpire, anche loro, cose e persone. Ma aspettano, non è ancora il momento.

L’aria è sempre più calda, la luce accecante, l’asfalto diventa burro. Eccoli i passanti frettolosi, non curanti. Il vecchio vorrebbe trafiggerli, uno alla volta.

"Poveracci. Tutti. Ignoranti." Ti sembra di sentirlo, vero? E intanto una goccia di sudore si impossessa della sua fronte, tra i capelli e il cappello blu.

Guarda, com’è sottile il suo odio. Non urla, il disprezzo è un rumore bianco.

Ma che succede? La strada di colpo cambia ritmo, alcune persone si fermano…

Il vecchio col cappotto scuro è a terra, ansimante. Con una mano si stringe il braccio sinistro. Circondato dai bersagli umani, allarga il volto in un ghigno insoddisfatto.

Marika De Sandoli




Come avrete già capito il 2020, per Radio Cole, sarà l'anno del Laboratorio Condiviso, ma non di solo laboratorio si vive e così, presa da incoercibile smania propositiva, ho deciso di inaugurare una nuova rubrica. Mensile. Il titolo? Ovviamente: Pancrazia Consiglia.

E no, non si tratta di una posta del cuore in cui voi mi scrivete i vostri tristi problemi ed io, dall'alto della mia esperienza, vi sciorino i miei preziosissimi consigli. No, non si tratta di questo, anche se a scriverla ora mi sembra un'idea bellissima! Ma no, dicevo, si tratta di altro: una volta al mese vi suggerirò cose da fare, vedere, leggere. Del resto, è ciò in cui consiste gran parte del mio lavoro, quindi perché non farlo anche qua?
Il periodo però è, come ben sapete, uno dei più delicati, quindi per questo giro salto a piè pari teatri, cabaret, cinema e musei, sperando ardentemente che possano tornare a pieno regime il prima possibile. Per questo mese, intanto, mi concentro su tutto ciò di cui potete godere da casetta vostra, dal vostro soggiorno virusfree.

Iniziamo con un libro: Il Dizionario che cura le parole. Da leggere, consultare e conservare gelosamente. Il primo volume di una serie che progetta di andare dalla A alla Z, per dare nuova vita a parole importanti come "resistenza" e "coraggio". Per saperne di più ecco il mio articolo pubblicato su TorinOggi.

Sempre di lettura tratta il secondo consiglio ma, in questo caso, non di una lettura da fare bensì da ascoltare. Luna's Torta, caffè libreria torinese, ha organizzato su Facebook una lettura online del Decamerone. Iniziata il 29 febbraio continuerà per 10 giorni. Dieci giorni durante i quali in oltre 100, tra operatori culturali, artisti, librai, gestori di locali, semplici fruitori provenienti da tutta Italia, leggeranno in video, un pezzo per uno, tutta le novelle del Boccaccio. Qui il link alla pagina dell'evento.

Infine, per trascorrere questi giorni virali e piovosi, potete anche scegliere di spiaggiarvi sul divano, accendere la tv e godervi tutti i film dello Studio Ghibli finalmente disponibili su Netflix. Sono sette i titoli tra cui  è possibile scegliere da ieri (primo marzo): Nausicaä della Valle del vento, Principessa Mononoke, I miei vicini Yamada, La città incantata, La ricompensa del gatto Arrietty, Il mondo segreto sotto il pavimento e La storia della Principessa Splendente.
Non avete l'abbonamento a Netflix? Tranquilli, potete usufruire della prova gratuita, basta registrarsi su questo sito. No, Netflix non mi paga per questo spottone: io sono una blogger poveraccia e lui è Netflix, perché mai LUI (il signor N) dovrebbe pagare ME?

Questi sono i miei consigli, voi ne avete altri da aggiungere?


Per questo esercizio vi regalo quattro protagonisti o, meglio, un protagonista da scegliere tra quattro (uno tra le 4 foto).

La faccenda è semplice: scegliete una tra le quattro proposte e trasformate uno dei soggetti nel protagonista del vostro racconto. NO, non DOVETE inserire nel racconto tutti e quattro i personaggi. Ne basta uno. 

Se avete domande dubbi o perplessità palesatevi nei commenti, via email, o tramite chat, io sono qua pronta a rispondervi.

Come sempre, vi ricordo che al laboratorio possono prendere parte tutti, non è necessario aver partecipato ai primi esercizi e, se parteciperete a questo, non siete poi obbligati a continuare. Ci mancherebbe, sarebbe sequestro di persona!

Buona lavoro a tutti!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, dialogo, monologo, flusso di coscienza, etc…). 
Lunghezza testo: dai 100 ai 5000 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: Laboratorio collettivo di scrittura. 
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 8 marzo 2020, ore 12.

Volete leggere i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.

Sarò anche di parte ma devo dire che, in un periodo travagliato come questo dove lo stare a casa è fortemente consigliato, il laboratorio condiviso di scrittura è un'ottima occupazione, scarica la tensione e sposta l'attenzione altrove.

E, per scaricare la tensione, cosa c'è di meglio che mettere nero su bianco un bel litigio? Questo è ciò che abbiamo fatto per il terzo esercizio. Ci sono state discussioni soprannaturali, familiari, alcune divertenti altre decisamente più drammatiche.

Se volete sfogliarle come una rivista le trovate al seguente link.

Se invece vi va benissimo anche la semplice pagina del blog, trovate tutti i racconti a seguire.

Buona lettura e a domani per il prossimo esercizio!

Paolo e Maria hanno litigato. Spettatrice involontaria, mi trovavo placidamente a leggere sulla mia panchina preferita nel tepore primaverile, quando la mia quiete fu turbata da un “ora, davvero, basta!”. Non urlato, badate bene, ma detto con quella determinazione e assertività che inevitabilmente ti fa rivolgere lo sguardo verso ciò che non ti riguarda. Misi a fuoco una ragazza: cappotto blu, lungo, assumeva un atteggiamento di quelli che sembravano non essere troppo distanti dalla propria natura, piuttosto sembrava essere stato portato all’estremo. Cercava di controllarsi, si scorgevano le sopracciglia aggrottate insieme a quella ruga di preoccupazione di chi non sa dove il suo istinto, se non canalizzato, l’avrebbe potuta portare.
Lei si chiama Maria, l’ho intuito quando lui l’ha nominata per farla tranquillizzare.
Vi dirò, lui era più interessante da osservare in quanto ambivalente negli atteggiamenti: aveva uno sguardo freddo, zigomi alti, occhi chiari, ma di quelli imperscrutabili che ti lasciano sulla soglia, non trapelava un’emozione eppure, a giudicare dall’atteggiamento di lei, era lui a dover essere in torto e a dover ristabilire un legame…non riusciva ad accostarsi a lei anche se le parole che pronunciava, recavano tranquillità…ostentava fermezza, ma aveva paura della sua reazione? Oppure, sì dai pensiamola male, forse effettivamente era un bugiardo, magari era un attore di teatro, dunque per lui un gioco da ragazzi recitare! E magari lei aveva scoperto un tradimento, una relazione… da quanto tempo staranno insieme? Occhio e croce da un po’ non è fresca la cosa… forse lui, ma anche lei, perseverava nell’errore? Ah mio caro Paolo, attoruncolo da 4 soldi, potrai biecamente ingannare lei che prova qualcosa per te, ma non la sottoscritta…. ti ho scoperto! il tuo corpo non mente… guarda, guarda come in fondo ti avvicini con le parole, ma non fisicamente… e quello sguardo?! si avrai anche gli occhi celesti, ma i tuoi sono vuoti e senza emozioni… che dobbiamo fare eh? Glielo dico io che stai recintando, prove alla mano, o ti decidi… alt fermi tutti… è una lacrima quella????!!! Sta piangendo??? Ah… beh…. e lei ora che fa? Ecco, ecco che si è rilassato quel viso che prima era contrito…. scende una lacrima anche a lei… ora anche lui effettivamente sembra rassegnarsi… il corpo indifeso… allora forse era rispetto e timore del rifiuto quello che dimostravi e, non il mantenere una distanza…f orse non sei un attore…
Quanto dicono di noi le emozioni, le parole che utilizziamo, rispetto al linguaggio del nostro corpo?
Da sempre mi incuriosiscono gli atteggiamenti umani, mi piace notare, osservare e studiare, analizzando così tanta eterogeneità; quanto si capisce guardandosi intorno, captando spunti di riflessione da riportare anche su se stessi, nella propria esistenza…
Vedete, il mio, nelle vite degli altri, è sostanzialmente un interesse di tipo clinico–scientifico misto a curiosità socio–antropologica. È per questo che, alla fine dei conti, il perché della litigata neanche ve lo saprei dire, non li ho ascoltati. Li ho guardati.
Daria de Turris
– Dico, oramai sei qui da dieci anni, un tempo ragionevole per maturare un’opinione su un argomento così controverso, quindi che mi dici? – chiedeva lui tutto sicuro di sé.
– Cosa vuoi che ti dica? Nulla che tu non sappia. Ho cercato di capirci qualcosa molte volte e di continuo ma non posso negare che la tua opinione, la tua posizione mi hanno messa sempre in soggezione – rispondeva lei con voce sommessa.
– Come in soggezione? – l'incredulità si manifestava nel suo viso arrossito.
– Sì perché ogni volta che cercavo di vedere la situazione da una prospettiva diversa mi dicevi che non era quella giusta. –
– Ma dai non è vero! – Lui rideva e lei lo guardava torvo.
– Sì che è vero, ti ricordi quella volta che mi sono messa a testa in giù perché non riuscivo a percepire la giusta prospettiva…l’ho fatto per sfidarti. –
– Sfidarmi? Hahaha eri proprio buffa. –
– Volevo che tu vedessi quanto fosse ridicolo dire sempre "Mah non è il punto di vista giusto". Alla fine mi sono rotta le palle e ti ho lasciato pensare come volevi. –
– Beh ma tu non hai cercato di controbattere –…le sue certezze iniziavano a vacillare.
– Davvero? – ahahah questa volta rideva lei
– Si davvero! – Alla risposta di lui lei rideva ancora di più. Lui era sempre più a disagio e impettito le disse tutto in un fiato: – Allora dimmelo ora, sono passati 10 anni, cosa pensi del sesso degli angeli? – – Che se fossero pirla come te sarebbero estinti! – Rispose lei asciugando i lacrimoni.
– Certo che tu non sei per niente simpatica!–
– Perché tu sei la comprensione fatta diavoletto? –
Cercando di recuperare la situazione, messo all'angolo con la coda tra le gambe lui... – Dai dai tu mi scaldi sempre il cuore…non te la prendere. So che volevi essere un angelo… ma vedi loro non hanno sesso e noi sì! –
– Ahhh meno male…perché qual è la differenza? –
– Come qual è la differenza? – nuvole di vapore circondavano il viso incandescenti di lui.
– Tra il non sesso degli angeli e te? – lei rideva senza riuscire a contenersi.
– Sei una perfida coda appuntita – – E tu un freddo tridente smussato. Cornetti mosci – – Rossa sbiadita –
– Alloraaaaaa la smettete? – dall’alto alto alto alto due vocine celestiali urlarono.
– Cosa succedeeeeeeeeeeeeeeeeee??? – risuonò dal profondo profondo inferno.
– Smettetela di litigare che qua su si fa sesso. –
– Ecco lo vedi…non ci sono gli angeli di una volta – sbuffò lui rassegnato.
E così c’erano nuvole infuocate e un gelido inferno.
La storia non finisce qui perché Cornetta e Cornuto rimasero a pensare al loro non più infuocato futuro, mentre Angioletta e Angiolino con gli amici facevano un trenino…peppepeppepe.
Deray

Quindi siamo a San Valentino e che, non me lo vuoi fare un regalo a San Valentino?
Bene, vattene. Te ne devi andare, la devi smettere di tormentarmi in queste notti infinite.
Caro Paolo, sì, perché per mei sei caro, lo sei stato e lo sarai sempre, accettalo, fattene una ragione; il tempo che passa non basta ad archiviare il cuore e i sentimenti.
Quindi la devi smettere, perché tutto questo fa un male indescrivibile: o torni veramente o resti dove sei e non ti fai più vedere, non così almeno. Non è possibile che una persona vada a dormire dopo lunghe giornate di fatica, di responsabilità, di preoccupazioni e l’unica cosa che riceve in cambio è un sogno che dilania l’anima. Ogni volta. Ogni stramaledettissima volta, da dieci anni a questa parte, tu arrivi, finalmente torni e cosa fai? Non mi parli, non mi abbracci, sei incazzato con me ed io ancora non capisco perché.
Come quella volta, ti ricordi in quel sogno, quando tu arrivasti bello bello dicendo che a casa non ci volevi più tornare, che ti eri trovato ben due e dico DUE donne diverse e volevi solo loro! Ti tirai anche un o schiaffo quella volta Paolo, io che non ho mai alzato le mani nemmeno su una zanzara. Era il dolore, non ero io: il dolore mi ha fatto questo, essere quella che non sono.
E ogni volta, io felice, ti guardo e ti dico finalmente sei tornato, ti domando dove sei stato, mi domando se finalmente sei guarito, se sei stato veramente malato, aspetto di sentire il cuore che batte, il tuo cuore che batte di nuovo con il mio: e tu mi ignori, non mi spieghi, non mi parli, mi lasci in un dolore che non ha spiegazione.
Una volta ho portato anche lei con me e tu hai avuto il coraggio di dirmi che era una mossa scorretta: non si usano i figli. Non si usano i figli. Una pugnalata, sai. E io che avrei solo voluto che ci prendessi entrambe e ci stringessi forte.
Sono troppi anni che va avanti così, non so se ti scrivo più per rabbia o per dolore, adesso. Vorrei solo sapere che stai bene, che tutto quello che ho fatto, anche se è stato inutile, tu lo serbassi nel cuore, come faccio io con ogni immagine, ogni ricordo.
Non mi hai mai fatto regali, figuriamoci a San Valentino, hai sempre odiato le feste imposte ed ero io che regalavo qualcosa a te: l’ultima volta il David Bowie Platinum Collection.
Eravamo eroi in quei giorni, “We can be heroes, for ever and ever, what d'you say?” Che ne dici, Paolo?
La tua (non proprio) Maria
Letizia Battaglia 

arrivammo sul più bello.
noi, i nipoti amatissimi e numerosi come gatti.
loro, i nonni e bisnonni al tempo stesso, di uomini fatti e di bambini appena nati.
nonno paolo e nonna maria.
mai un litigio. o per lo meno abilissimi nel nasconderlo.
che poi anche loro avranno avuto trent'anni una volta, anche se non ce l'hanno mai raccontato.
magari anche loro avranno fatto volare piatti, sbatacchiare pensili, lanciato scarpe, moccoli o madonne.
ma non davanti a noi.
davanti a noi i nonni erano sacri come la madonna e san giuseppe, come gli dei dell'olimpo, perfetti, canuti e saggi.
e invece erano lì, in cagnesco, ostinati, ingrugniti, arrabbiati.

"no, mai e poi mai. te lo puoi scordare."
"va bene, vai dove ti pare, io non potrei andare in nessun altro posto."
"io invece sì, vuoi vedere? sono di Gragnolo, a Frosina non ci vengo."
"ma siamo tutti lì, da sempre."
"sarete tutti lì. senza di me."

li guardavamo senza capire. senza seguire il senso di una rabbia che non capivamo, che non sapevamo infilare nella scatola giusta.
poi piano piano iniziammo a capire.

"a Frosina è in discesa. ed è girato verso monte. io non ci voglio venire."

a Frosina,in effetti, tutto era in discesa. i paesi, qui da noi, si arrampicano a sentire l'aria che soffia dal mare, di là dal monte, che arriva dalle piccole valli collinari.
ma un'unica cosa era in effetti girata verso monte.
il cimitero.
ecco di cosa parlavano.
ecco il problema.
la tomba.
la pietra, con la foto, con la scritta, con il vaso per i fiori.
da comprare per tempo, per non lasciare a chi rimane anche un pensiero indesiderato in un momento già triste di suo.
comprare il posto per riposare in saecula saeculorum, mano nella mano, come nella vita, gabbando quel fin che morte non vi separi che li aveva portati fin lì, ai figli, ai nipoti, ai bisnipoti. querce di bosco circondati da cespugli e alberelli, capifamiglia senza mai un dubbio, senza mai un cedimento.

"che succede?"
chiese il più grande di noi.

"succede che il tu'nonno è una testa di legno. io, a Frosina, in discesa e senza vedere il panorama non ci vado. pitta m'ingolli."
"Pitta m'ingolli" era la frase definitiva.
in dialetto vuol dire una cosa del tipo "potessi sprofondare", essendo la "pitta" un pozzo, un buco profondo nel terreno.
mio nonno comprese che non aveva scampo. avrebbe dovuto lasciare tutti i parenti, la madre, il padre, le zie e gli zii, i cugini.
tutti i Di Chiara morti da un pezzo, che lassù, a Frosina, in discesa, lo aspettavano da generazioni.
perché lei, la donna che amava, voleva essere seppellita dove si vede il panorama. e dove le bare non stiano in discesa.

"oh che ti devo di'? siam istati insiem' tutta la vita, 'un ti lascio sola a Gragnolo, verò anch' io..."

nonno Paolo si arrese. nonna Maria buttò la minestra nel brodo, soddisfatta. aveva vinto lei.
ancora una volta.
letteredalucca

Non credo di aver capito…
E’ per il mio progetto di scrittura. Questa settimana l’input è di scrivere una litigata.
Questo l’ho capito, ma non ho capito cosa c’entro io.
Aiutami! Litighiamo e così trascrivo la litigata.
Spero che non ti diano mai l’input di scrivere un racconto dal punto di vista di un omicida… se questo è il tuo modo di trovare l’ispirazione, sono fottuto.
No, tranquillo. Il racconto sul serial killer l’ho già scritto e tu sei ancora vivo.
Scusa?
Sì, l’ho scritto due settimane fa e non ti sei accorto di niente. Guarda che dovresti far qualcosa per i tuoi riflessi… non hai idea di quante volte ti sono arrivata alle spalle senza che te ne accorgessi.
Cosa hai fatto? Cioè, mi sei arrivata alle spalle per far cosa?
Ma niente! Volevo provare la sensazione di chi si avvicina ad una preda ignara. Sai, nell’arte le emozioni devono essere vere, scrivi ciò che vivi.
Ma che stai dicendo? Preda ignara? Maria, sono tuo marito, non sono una preda ignara! No, ma io non ci posso credere… vuoi un’emozione vera per la tua arte? Vaffanculo! Eccoti una bella emozione sincera, scrivici il nuovo Guerra e Pace! Ma ti sei ammattita?
Paolo, guarda che stai esagerando. Non avrei mai usato il coltello, te lo giuro! Per chi mi prendi
Cooosa? Mi sei venuta alle spalle con un coltello? Maria, ti prego, dimmi che è uno scherzo, un brutto scherzo che adesso finisce!
Paolo, la tua reazione è spropositata! Ti ho chiesto uno spunto per la litigata ma stai degenerando! Dovevo immaginarlo, sempre così melodrammatico… me lo sentivo che non avrei dovuto coinvolgerti direttamente ma questa volta ho voluto credere che finalmente mi avresti dato il tuo supporto attivamente! Scusa se ho voluto darti fiducia!
Io sto degenerando? Mia moglie mi arriva alle spalle con un coltello manco fosse una ninja e quello che degenera sono io? Aspetta un attimo. Cosa intendi con “questa volta”? Ci sono state altre volte? Maria… partecipi a questo progetto da gennaio, hai già scritto due racconti. La litigata è il terzo, il secondo era l’omicidio…. Maria? Il primo racconto… COSA HAI SCRITTO NEL PRIMO RACCONTO?
La Peppa Bennet

M : Stammi lontano, sei stato via per 3 giorni, dico 3 giorni e adesso ti ripresenti e vuoi stare abbracciato? Era già successo e ti avevo perdonato ma ora basta, non sono una mezza calzetta io!!!
P : Maria, amore mio, non so cosa sia successo, ti giuro. Non volevo, mi sono trovato in quella situazione e ci sono dovuto rimanere. Non avrei mai voluto veramente... Credimi, sei la mia anima gemella, tu mi completi.
M : Sei il solito ruffiano e bugiardo, ti hanno visto tutti, non vi siete nascosti per nulla, con quella puttanella rossa... non è la prima volta che va con altri. Stupida io che sto qui ad aspettarti, se avessi voluto avrei trovato anche io qualcuno; pensi sia difficile, ti avvicini, anche se si è diversi e poi si viene presi dalla sorte e si sta un pò insieme. Vuoi questo tipo di relazione tra di noi? Dimmelo ma non era questo che mi aspettavo dalla vita.
P : Ma no, un errore non può pregiudicare, 5 anni di amore...
M : Due errori.
P : Si due errori ma è colpa di Federico, lo sai è talmente sbadato.
M : Certo è sempre colpa di Federico.
P : Maria noi siamo insieme dalla nascita, sono stati anni bellissimi, non buttiamo tutto così. Ricordi il nostro viaggio a Vienna? Quanto ci ha fatto camminare... e quando siamo stati in Messico? che caldo, puzzavamo da far schifo..
M : Paolo mi sono data a te con ogni fibra del mio essere, ho sofferto e non voglio più soffrire. Pensavo di perderti per sempre, come l'anno scorso, quel taglio sul tallone... Grazie a dio la madre di Federico riuscì a salvarti con 8 punti. Non puoi fare più questa vita.
P : Maria non succederà più te lo prometto, restiamo un pò in disparte io e te, isoliamoci un pò e vedrai che non succederà più.
M : Va bene amore mio.

Proprio in quel momento Federico aprì il cassetto e prese Paolo e Jasmine (la puttanella rossa), Paolo cerco di divincolarsi stretto nella mano di Federico ma nulla, l'ultima cosa che vide prima che il cassetto si chiudesse fu il volto paonazzo di Maria. Questa volta non mi avrebbe più perdonato.

Federico stava per uscire di casa in ritardo come al solito quando sua madre nel salutarlo gli disse : "Scemotto hai di nuovo i calzini spaiati".
Roberto Tavella

Il ragazzino correva a perdifiato nella via che tagliava in due il piccolo paesello abbarbicato in cima alla montagna.
“Paolo e Maria hanno litigato!” continuava ad urlare a squarciagola mentre i duecento abitanti del paese si affacciavano alla finestra e si voltavano a vedere Ninetto che correva verso la chiesa.
Ninetto era un ragazzino di dodici anni, che era stato colpito in pieno volto dal calcio di un mulo quando ne aveva sei. Era finito in coma – il sonno degli angeli, come dicevano in paese – ed al suo risveglio il suo cervello si era fermato al momento dell'incidente, rendendolo di fatto un bambino per sempre, con il volto un po' sghembo ed asimmetrico.
Quella mattina Ninetto si trovava a passare di fianco alla casa di Paolo e Maria, quella deliziosa casetta in fondo al paese dalle cui finestre si vedevano tutti i campi a valle, e sentendo dei rumori strani si era avvicinato a sbirciare dalla finestra. Quello che aveva visto lo aveva spaventato e così era corso in paese a dare la notizia: Paolo e Maria hanno litigato. Anzi, lo stanno ancora facendo!
I due protagonisti di questo fattaccio si conoscono fin da bambini piccoli, lui figlio di agricoltori, lei figlia della maestra e dell'unico meccanico della zona.
Quando Paolo aveva quattordici anni era diventato orfano a causa di un incidente ed era stato affidato alle amorevoli cure della zia Rosa, e Maria aveva cominciato a frequentare Paolo un po' per dargli conforto, un po' per un sentimento che ancora non sapeva spiegare, ma che presto comprese essere amore. Da quel momento non si sono mai più lasciati.
Paolo e Maria sono considerati la coppia perfetta: sempre insieme allegri e sorridenti, sempre pronti ad aiutare gli altri col sorriso sul volto.
Per questo tutti rimasero sbalorditi nel sentire che la coppia perfetta aveva litigato. Le comari anziane del paese, non senza invidia, sorridevano soddisfatte, mentre gli altri reagivano con un misto di stupore ed incredulità.
Il parroco non ci voleva credere. Li aveva sposati lui dieci anni prima ed erano sempre stati di ispirazione per la comunità, anche se non erano mai riusciti ad avere figli nonostante le preghiere ed addirittura un pellegrinaggio a Lourdes.
Dopo qualche giorno di pettegolezzi e di sguardi interrogativi alla coppia, che quando arrivava in paese si comportava come se niente fosse, gli abitanti non sapevano più cosa pensare.
Il parroco decise di fare qualcosa e si diresse una bella mattina di sole a casa della coppia.
“allora, mi volete spiegare cosa succede?” chiese il parroco senza troppi preamboli mentre sorseggiava il caffé che solo Maria riusciva a fare così buono.
“che cosa intende?” risposero all'unisono le voci della coppia.
“si dice in paese che qualche giorno fa abbiate litigato, più precisamente quattro giorni fa, verso sera”.
Paolo e Maria si guardarono e subito dopo esplosero in una risata: “quattro giorni fa verso sera, e magari l'ha detto Ninetto, vero?”
Il parroco cominciava ad intuire la verità: “qualcosa mi dice che non stavate litigando”
“Don, lei sa che stiamo provando ad avere un figlio da qualche anno. Ebbene ci stavamo provando anche la sera di quattro giorni fa”, disse Paolo mentre cercava di non ridere di nuovo. Il parroco si fece una bella risata insieme alla coppia, si fece promettere di “litigare” con le finestre chiuse, specialmente quelle che danno sulla strada, e la Domenica si prodigò in una ispirata predica sul potere maligno del pettegolezzo e sulla forza dell'amore. Ed in privato spiegò a Ninetto qualcosa sull'amore e che spiare il prossimo non è mai bello.
Beppe Carta
Decise di salire in camera a riposare. Era stanca. Non riusciva a capire cosa fosse. Era difficile essere lei, troppe domande, troppe possibilità, troppa irrazionalità.
Il telefono vibrò. Guardò il display, sbuffò.
Avevano litigato solo una volta prima di quel, sempre per colpa del bastardo. Non che fosse un rapporto normale quello con sua madre, ma di solito non litigavano.
Quando il bastardo era morto avevano litigato.
Lei aveva un unico pensiero. Aveva bisogno di sapere. Aveva bisogno di passato.
Si chiedeva cosa avessero immaginato i vicini quella domenica pomeriggio sentendo gridare “quelle del terzo piano”.
Il signor Gino sicuramente che fosse una vergogna: “Sono in lutto è che diamine”.
La signora Eliana: “Povere, che cosa non fa fare il dolore”.
Il Signor Domenico: “Ho sempre detto che avevano qualcosa di strano quelle due”.
Le grida salivano, scendevano, si fermavano, erano interrotte dal pianto, riprendevano fiato, ricominciavano.
“Non capisco perché ti sia tanto intestardita su questa storia, il passato è passato. Lascialo lì. Ora lui è morto. Finito. Tutto finito. Perché vuoi continuare a farti del male?” disse la donna dai capelli scuri legati in uno chignon.
“Che tu non lo capissi non avevo dubbi. Sei sempre andata avanti senza farti troppe domande. Perché per te le persone vanno prese per come sono. In fondo sono tutte buone. Lui non lo era, neppure in fondo. Era un invasato, un mostro” disse quasi con la bava alla bocca.
Sua madre la fissava scuotendo la testa. Due giganteschi mondi in una stanza. Due mondi che si confrontavano per la prima volta. Sua madre parlava sempre ma non raccontava mai. La sorprendeva spesso. Quando aveva lasciato il padre. Quando aveva deciso per il bene di tutti di far internare il fratello. Quando aveva cominciato a lavorare. Quando aveva ripreso l’ex marito in casa perché nessuno doveva morire solo. Due mondi che non si capivano.
“Come potresti essere un mostro tesoro? Non dire sciocchezze” le disse con dolcezza.
“Come potrei non esserlo. Mio padre era un uomo violento, incline alla cattiveria, per non parlare del periodo della guerra.”
“Sciocchezze”
“Sciocchezze? E’ tutto documentato. Vogliamo parlare di mio fratello?”
“Tuo fratello è semplicemente una persona fragile. Tu non lo sei. Ti sei laureata, hai una casa, un buon lavoro.”
Doveva calmarsi, le veniva da vomitare, il cuore batteva forte ma non riusciva a fermarsi. Tutta quella rabbia doveva uscire. Se l’avesse trattenuta ancora probabilmente le sarebbe venuto qualcosa, le sarebbe cresciuto qualcosa di oscuro, di mortale dentro.
“Non sono fragile? Non sono fragile?” si era messa a gridare con quanta forza aveva in gola.
Voleva gridarle di tutti gli uomini sbagliati, di tutte le scelte sbagliate, di tutti i sogni infranti, di tutti i sogni mai perseguiti; come quella volta che sarebbe bastato poco per farla finire nel baratro della depravazione, senza neppure il gusto di farlo, solo per assecondare il desiderio altrui, solo per ricevere un po' di amore, poco importava che fosse un amore finto.
Sospirò “Mamma, io ti voglio bene ma non abbiamo nessuno. Nessun parente, nessun aneddoto familiare. Nessuno. Tutti hanno aneddoti, tutti hanno qualche tenero racconto. Noi non ne abbiamo. E ora viene fuori che qualcosa abbiamo. Che qualcuno lo avevamo e forse quel qualcuno mi potrebbe aiutare.”
Sua madre la guardo. Sospirò.
“Senti tesoro, non è tutto oro quello che luccica. Quella donna è un’estranea. Non la conosci e hai la tendenza a romanzare le cose"
Colpita e affondata.
“È vero. Innegabile.” disse sedendosi e prendendosi la teste fra le mani “Abbiamo affrontato la cosa con lo psichiatra. Abbiamo superato la cosa, la tengo sotto controllo.” aveva detto sfiancata.
“Non capisco, veramente continuo a non capire. Tuo padre non era un’ottima persona”
“Dire che non era un’ottima persona è un eufemismo” la interruppe la ragazza.
“Lo vuoi chiamare bastardo senza cuore? Va bene, chiamiamolo bastardo senza cuore. Ma non ti ha mai fatto mancare niente”
“No a parte l’affetto e la libertà”
“Non essere melodrammatica”
“Non mi sembra di essere melodrammatica mamma. Ti sto descrivendo le cose per come sono state. Papà era un uomo meschino. Aveva sempre messo il suo credo politico davanti a tutto e questo, unito al fatto che non aveva morale lo ha reso esplosivo durante la guerra. Dopo con noi figli si è comportato come se fossimoo delle reclute e non i suoi figli. Come si comportava con te? Non andava mai bene niente di quello che facevi, mai”
“Tuo padre è stato l’unico che si è preso cura di me, poi mi sono accorta che non era quello il modo giusto di occuparsi di una persona. Ma tu sei giovane, puoi andare avanti. La devi smettere di struggerti.”
“Io non mi struggo. Io sono terrorizzata di essere come lui. Sono terrorizzata di non essere una brava persona. Sono terrorizzata di essere pazza.”
“Ne abbiamo già parlato, ne hai già parlato con il dottore. Non sei pazza. Non hai ereditato niente da lui, tranne gli occhi azzurri e i capelli biondi. Non si ereditano queste cose. Devi andare avanti”
Sua madre non capiva. Lei aveva bisogno del passato. Aveva bisogno di sapere perché suo padre era quello che era. Il perché del bipolarismo di suo fratello. Aveva bisogno di capire e l’avere scoperto che qualcuno c’era a cui chiedere poteva aiutarla a trovare un equilibrio.
Aveva trentacinque anni, nessun fidanzato, nessun figlio. Pochi legami. Nessuno le piaceva e lei non piaceva a molti. La trovavano pesante. Era entrata in terapia, molte cose erano cambiate ma non tutte e da suo padre non avrebbe cavato un ragno da un buco. Le persone che la potevano aiutare erano tutte morte e lei non poteva farsi sfuggire quell’occasione.
Quella donna era anziana e non sarebbe vissuta ancora per molto pensava.
Era stufa delle occasioni perse. Questa volta no. Questa occasione l’avrebbe presa al volo. Dicono che se niente cambia, niente cambia quindi qualcosa doveva cambiare.
Silenzio, la casa era in silenzio.
“Mamma domani parto e vado da lei. Ho già la valigia pronta” disse Paola interrompendo il silenzio.
Maria si girò di scatto e la guardò con qualcosa di molto simile alla paura. Era abituata alla vita un po' confusa della figlia ma chi non era confuso? Alle sue molteplici domande e a delle scelte di vita che a volte sembravano molto discutibili ma alla fine si era sempre salvata. Egregiamente secondo i suoi parametri e ora si lanciava in quella cosa senza né capo né coda, ai suoi occhi era una follia. L'ennesima. Ma più pericolosa.
“Come farai con il lavoro?”
“Ho parlato con il mio capo e mi affiderà tutti lavori che posso svolgere da casa. Casa l’ho messa su Airbnb. Sandra si occuperà della cosa”
“Sandra, la mia amica Sandra?”
“Sì, sembrava molto contenta della cosa. Ha detto che questo le avrebbe dato qualcosa a cui pensare dopo il divorzio.”
“Non mi ha detto niente” disse la donna un po' piccata.
“Beh, se devo dirla tutta non gliel’ho proprio detta tutta”
“Hai deciso? Sei proprio sicura? Per me sbagli”
“Sì mamma sono proprio sicura” disse Paola alzandosi dalla sedia e dirigendosi verso l’attaccapanni. “Non puoi aspettare ancora un po’, riflettere ancora un po’. Tuo padre è ancora caldo”
“No, non posso. Ti mando un messaggio quando arrivo a casa” disse la ragazza. Prese la borsa e uscì.
Bionda per scelta

Ancora una mezz’ora di stoico immobilismo ed il processo di incorporazione nel divano sarebbe arrivato a compimento. Le gambe pelose sarebbero sprofondate nel tessuto. Vi era un’alta probabilità che non se ne sarebbe neppure accorto avendo gli occhi fissi sullo schermo del mio i-pad. Ne ero sicura. Il divano non si sarebbe neppure macchiato e con un po' di fortuna sarebbe stata inghiottita anche la forfora: un processo naturale ed indolore. Dopotutto non puoi occupare per ore, giorni, anni, la stessa identica posizione senza farti distrarre da nulla (che ne so: una richiesta di aiuto per aprire l’infida lattina dei pelati? una telefonata dall’altra parte della città per farsi venire a prendere? la telefonata di mia madre?) e pensare di farla franca per sempre. Dovevo concentrarmi sul divano, cercare di far riposare l’istinto di farla finita. O di finirlo io. Lì, sul divano. Però a quel punto il divano si sarebbe macchiato (il sangue era tra le sostanze che quel tessuto avrebbe trattenuto, senza possibilità di candeggio, lo avevo controllato). Ma come era possibile aver scambiato l’indifferenza mista a fancazzismo per una dote: un tipo tranquillo e pacato, vero? E io invece? Una che non riesce, neppure se si concentra, a stare ferma per più di 2 secondi. Neanche mentre fa una TAC. Figuriamoci su un divano! Perché non aveva messo la sveglia quella mattina dopo averlo detto era un mistero. Ero sicura che l’aveva detto. Paolo: va bene alle 8, allora? Avevo annuito, di spalle, mentre lavavo i denti. E poi naturalmente la sveglia non era suonata. E avevo fatto tardi. Ero uscita sbattendo la porta. Era andato tutto storto. Giornata da incubo e tutto per quella sveglia. Come al solito: tu chiedevi una cosa e lui immancabilmente non la faceva. Se era così importante perché non l’hai messa tu? Lo sapevo che me lo avrebbe detto. E poi: ma sei solo arrivata tardi! Non è mica la fine del mondo. Già. Avrei urlato, come al solito, impegnato il resto della serata a discutere animatamente, a parlare di rispetto, di importanza delle piccole cose, dei gesti apparentemente inutili ma vitali. Senza risolvere nulla. Gli passai accanto ed entrai in bagno. In un attimo ero già sotto la doccia a canticchiare city of stars. Giusto per smaltire la litigata appena consumata prima ancora di nascere. Anni di convivenza erano serviti a qualcosa.
Anonimo
“È finito il latte” disse Paola.
“E io che ci posso fare?” rispose Maria.
“Niente, tu non puoi farci niente. Del resto, quando è stata l’ultima volta che ti sei resa utile, tu?”
“Dio, quanto vorrei non vedere più la tua faccia”
“E che aspetti? Quella è la porta, vai!”
“Magari” sospirò Maria, voltandosi a guardare l’ingresso. Poi, come ogni giorno, andò ad accoccolarsi sulla poltrona che dava sulla finestra. Dal primo piano avevano una visuale perfetta. La strada era deserta se non si consideravano due gatti, un carabiniere e due portantini.

“Monopoli?” chiese Paola in piedi alle sue spalle.
“Cosa?”
“Vuoi giocare a Monopoli?”
“No, tu sei una capitalista senza scrupoli”
“Trivial?”
“No, io so tutte le risposte, non c’è gusto”
“Scarabeo?”
“Ok”
“Prendo anche le arachidi”
“Ne abbiamo ancora?”
“No, io ne ho ancora. E io, nella mia enorme bontà, te ne offro qualcuna”
“Non ne voglio”

“Mmmmmmmmm che delizia” mugugnò Paola leccandosi le dita sporche di sale.
“Spero che ti ci si strozzi!”
“Non so se ti converrebbe, dopo ti toccherebbe convivere con il mio cadavere”
“Cavoli, non ci avevo pensato” si rabbuiò Paola.
“Davvero? Io ci penso tutti i giorni”
“Al tuo cadavere?”
“No, al tuo” sorrise Paola, aprendo il tabellone sul tavolo del salotto per poi accomodarsi a gambe incrociate sul tappeto. “Quando mi fai andare completamente fuori di testa, quando ti lamenti per la milionesima volta del fatto che abbiamo finito il succo d’arancia, quando frigni perché non puoi farti una bella passeggiata al parco, ecco in tutte queste occasioni, e in molte altre ancora, bada bene, in molte altre ancora, io sogno di farti stare zitta. Per sempre. Sarebbe così liberatorio, riacquisterei la pace ma poi penso al tuo cadavere, non potrei buttarlo fuori, neanche dalla finestra dato che ce le hanno sigillate, e dover convivere con te da morta sarebbe persino peggio che convivere con te da viva”.
Le sorelle si guardarono negli occhi. I lampeggianti dell’ambulanza che si allontanava illuminarono per un attimo i loro visi.

“Casa”
“Eh?”
“CASA” ripeté Maria, posizionando 4 tessere quadrate in fila. “C-A-S-A. 1 punto per ogni A, 1 per la C e 1 per la S. Quattro in totale”
“Casa? Tutto qua? Sei il fenomeno dello scarabeo, un talento raro. Sarà una partita molto emozionante”
“Stronza”
“Eh?”
“STRONZA, S-T-R-O-N-Z-A”
“Ma non ce l’hai la Z e poi non toccherebbe a me?” commentò Paola spiando le tessere celate dell’altra.
“Stronza, tu sei una stronza!”
“Non trascendere, abbiamo deciso tre giorni fa che dovevamo smettere d’insultarci. E, tutto sommato, devo ammettere, che la convivenza ne ha giovato. Sono tre giorni che non ho la tentazione di strangolarti con le calze”
“Allora, direi che sarebbe il caso di aggiungere una nuova regola: vietato sognare la morte dell’altra” sbuffò Maria.
“Non puoi tarpare le ali ai sogni” sorrise compiaciuta Paola.
“E potrei nasconderti calze e oggetti contundenti, almeno?”
“La tua è una richiesta legittima, te lo concedo”
“Ti ringrazio” disse Maria per poi girarsi a guardare nuovamente la porta. Sprangata.
“Quanto manca alla fine della quarantena?”
“Due giorni, sette ore e 28 minuti”
“Va bene, continua pure a sognare di sopprimermi ma almeno passami le arachidi”.
Jane Pancrazia Cole

Paolo e Maria hanno litigato, raccontatemelo.

Per questo esercizio avete due protagonisti e una situazione, sta a voi realizzarla nel modo che preferite, può essere un racconto, un dialogo, un monologo, una poesia o qualunque altra cosa che vi venga in mente.

A litigare possono essere Paolo e Maria o Paolo e Mario o ancora Paola e Maria. Possono avere qualsiasi età e il rapporto tra i due può essere di qualsiasi tipo: innamorati, amici, parenti, conoscenti o anche sconosciuti. Stupitemi!

Per dubbi, domande e perplessità, come sempre: potete commentare o scrivermi privatamente (sul blog, su fb o via email).

Ricordo ancora che al laboratorio possono prendere parte tutti, non è necessario aver partecipato ai primi esercizi e, se parteciperete a questo, non siete poi obbligati a continuare. Ci mancherebbe! 

Buona scrittura a tutti! 

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, dialogo, monologo, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: Dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: Laboratorio collettivo di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 23 febbraio 2020, ore 12.

Volete leggere tutti i Racconti realizzati per questo esercizio? Li trovate qui.
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