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Poco ispirante o troppo difficile, chi lo sa? Fatto sta che il decimo esercizio del laboratorio Condiviso di Scrittura ha visto una partecipazione limitata ma, come sempre, preziosa.

Quindi per questa settimana abbiamo solo tre racconti: uno mio, uno di Beppe e uno di Marianna, partecipanti appassionati di questa avventura, che ringrazio con tutto il cuore. Tre testi diversi accomunati dallo stesso titolo L'amico immaginario.

Buona lettura!


Iniziò tutto all’età di quattro anni. Me ne stavo solo nella mia cameretta e facevo lunghi discorsi col mio amico Gianni. Il mio amico speciale, che solo io potevo sentire e vedere. I miei genitori mi lasciavano fare perché secondo loro era indice di intelligenza, io facevo il possibile per evitare di parlare con Gianni in loro presenza.

Crescendo, Gianni cresceva con me. Mi consigliava cosa fare, quali persone evitare per non mettermi nei guai, mi suggeriva le risposte alle interrogazioni, mi teneva compagnia nei momenti in cui ero da solo, ed erano tanti. Non sono mai stato un ragazzino troppo socievole, ma avevo ottimi voti a scuola ed i miei genitori non si preoccupavano, l’importante per loro era che io fossi educato, studioso e sereno.

Vennero i tempi delle scuole superiori, e Gianni era ancora con me. I miei compagni di scuola mi consideravano un tipo un po’ strano e mi lasciavano in pace. Anche gli immancabili bulli non provavano interesse per me, perché li avevo corrotti suggerendo le risposte durante i compiti in classe ed aiutandoli nello studio. Ero come in una bolla, il cui accesso era precluso per tutti tranne che per Gianni.

Gli anni scorrevano tranquilli, tra ottimi voti, vacanze noiose in compagnia dei miei genitori e lunghe chiacchierate con Gianni. L’università non cambiò di molto il mio stile di vita. Gianni era sempre con me, e grazie alle sue geniali intuizioni ottenevo ottimi voti. L’ultimo anno di università lo passai praticamente chiuso in casa, scrivendo la tesi che Gianni correggeva, suggerendomi modifiche o aggiunte che avrebbero reso più brillante e scorrevole la mia presentazione.

Uscii dall’università con il massimo dei voti, i miei genitori erano davvero orgogliosi di un figlio tanto brillante e colto, i miei compagni di corso mi videro sfilare via dalle loro vite immediatamente dopo la tesi, per non farvi più ritorno.

I mal di testa iniziarono circa due anni dopo, quando ormai ero inserito nel mondo del lavoro, con delle mansioni tecnico-scientifiche che mi consentivano di lavorare da casa, senza contatti con colleghi o capi.

Erano delle fitte lancinanti, posizionate proprio dietro gli occhi. Talvolta erano così violente che la vista si appannava, costringendomi a sdraiarmi al buio. Gianni però era sempre lì e mi sussurrava parole di conforto, che mi portavano a lunghi sonni ristoratori.

Una mattina avvenne: stavo facendo una doccia, quando il mondo divenne buio. Mi risvegliai in un letto di ospedale, con mia madre in lacrime che mi teneva la mano ed un dottore che parlava a mio padre, il quale ascoltava con un’espressione che non gli avevo mai visto. I medici individuarono una massa scura all’interno del mio cervello. Fortunatamente la massa era facilmente raggiungibile, e decisero che la chirurgia era l’opzione migliore.

Quando mi svegliai avevo una sete terribile ed ero molto debole e spossato, ma i mal di testa erano svaniti, insieme a Gianni. Provai a sussurrare il suo nome per diversi giorni ma non ottenni risposta. L’amico di una vita era svanito insieme alla massa tumorale nel mio cervello. Quando mi resi davvero conto della portata di tale evento, piansi come non avevo mai fatto. Adesso ero davvero solo.

Questo mi portò a reagire. Adesso, a distanza di dieci anni, ricordo a malapena la sua voce. Mia moglie dorme accanto a me, un bicchiere di latte potrebbe aiutarmi a fare lo stesso. Mi avvicino alla camera di mio figlio, lo sento parlare. Nascosto vicino all’uscio, sento che parla da solo, come se ci fosse qualcuno in camera con lui. Lo chiama Gianni.

Beppe Carta




Mio fratello aveva un amico immaginario che si chiamava Caccoloni.
Caccoloni era un’ombra, che vestiva sempre dei completi scuri con camicia bianca. Quando appariva, la cravatta era immancabile ed aveva lo stesso colore cangiante del completo: entrambi assumevano infatti tutte le possibili tonalità di nero/grigio, così che Caccoloni poteva mimetizzarsi nell’oscurità e mostrare solo la luminosa chiara camicia ed i bianchi occhi scintillanti.
Mio fratello se ne vergognava un po’. Avrebbe preferito di gran lunga che il suo amico immaginario sparisse per sempre ed ogni volta che si accorgeva di lui nascosto tra le onde delle sue scarpe preferite provava sempre a calciarlo via.
Mio fratello se ne vergognava soprattutto quando si incontrava con me e con nostra cugina, cioè quando anche i nostri amici immaginari si incontravano.
La mia amica immaginaria si chiamava Avventura ed era una vecchiettina canuta e permanentata, dagli occhi curiosi e sperduti, con uno zaino da viaggio coloratissimo sempre in spalla. Lo zaino era una composizione di totem, incastrati in maniera magistrale – un gufo, un cervo, un lupo, un piccolo orso - ritrovamenti speciali durante i suoi innumerevoli viaggi in ogni continente. Era l’essenza, in definitiva, della mia anima un po’ svampita e della mia voglia di viaggiare.
L’amica immaginaria di mia cugina, invece, si chiamava Luna. Le sarebbe stato senza dubbio meglio il nome Spavento, perché era una bambina tremante, così simile alle immagini della Piccola Fiammiferaia, la ragazzina di strada della rivoluzione industriale, sola, con una pezza stretta sulla testa, il grembiule, la lampada a cherosene. Ed ogni volta che le veniva rivolta parola saltava in aria dalla paura o si nascondeva dietro qualcosa.
In particolare aveva una paura matta di Caccoloni, così scuro e tetro. Quando ci incontravamo, lei non si faceva vedere. Si fingeva un nuovo totem dell’enorme zaino di Avventura od addirittura ci si nascondeva dentro. Caccoloni si sentiva così respinto ed in colpa... per essere sé stesso.
La paura di Luna, era indice – non so come – del bullismo di mia cugina nei confronti di mio fratello. 
Piccole cose, chewingum sui vestiti, sgambetti, brutti nomignoli, prese in giro.
Caccoloni, all’ennesimo chewingum ed all’ennesima richiesta da parte di mio fratello di sparire dalla sua vita, decise di cambiare. Era tutta colpa sua.
Una settimana aveva cercato di tingersi la nuca color arcobaleno. La settimana successiva aveva dismesso l’abito nero per sostituirlo con i pantaloni colorati comprati sui banchetti al mercato sudamericani etnici, insieme al flauto di Pan in offerta. La settimana successiva si era messo le lenti colorate.
Luna continuava però a nascondersi ed a nascondersi, in luoghi sempre più particolari. Oramai l’etichetta di brutto, tetro, sporco e Mostro, a Caccoloni, non gliel’avrebbe tolta più nessuno. Nonostante l’animo dolce, combattivo, docile e l’amore per mio fratello.
Che continuava a cercare di calciarlo via.

Adesso sono tutti spariti. La mia Avventura urlandomi in faccia che era stufa di stare in casa con i miei genitori. Luna ha finito il cherosene e non si è vista più.
Eppure, io mi ricordo, mio fratello aveva un vero amico – immaginario - che si chiamava Caccoloni.

“Ci aveva tormentato a lungo il dubbio su chi era un mostro e chi non lo era, ma da un pezzo poteva dirsi risolto: non-mostri siamo tutti noi che ci siamo e mostri invece sono tutti quelli che potevano esserci e invece non ci sono, perché la successione delle cause e degli effetti ha favorito chiaramente noi, i non-mostri, anziché loro.”

Marianna Palmerini



Sono accanto a Jimmy da quando era piccino. Era ancora nella culla quando facevo tintinnare nelle sue orecchie campanule fatate. Stava seduto sul prato avvolto stretto nelle fasce, quando gli raccontavo di mosche che navigavano nello stagno su grandi foglie ed erano costrette a scappare da terribili rospi. Poi, quando cominciò a camminare gli parlai a lungo di quei tre fratelli che avevo conosciuto molte vite orsono e della mia passione per i bottoni. Infine, era già più grandicello, più o meno 5 o 6 anni di quelli che contate voi, quando credetti che fosse giunto per lui il momento di provare a prendere il volo saltando dalla finestra. L'esperimento non riuscì, Jimmy si ruppe un braccio e, arrabbiatissimo, smise di parlarmi.

Furono anni noiosissimi, io continuai a bisbigliarli all'orecchio ma lui non volle più rispondermi. E così feci di tutto per attirare la sua attenzione. Le campanule divennero prima campanelli e poi graziose fatine dai caratteri dispettosi. Le mosche crebbero fino a diventar grandi quanto pirati, le foglie galeoni e i rospi coccodrilli. Persino i bottoni cambiarono e si fecero baci. Le provai di tutte ma Jimmy si mostrò persino più caparbio di me.

Finalmente però venne il tempo dell'Accademia e per lui fu tale la solitudine nei primi giorni che, pur di aver di nuovo un amico, alla fine decise di perdonarmi.
"Ce ne hai messo di tempo" gli dissi seduto al fondo del suo letto.
"Peter, mi sono quasi ammazzato per te!"
"Quante storie, sono passati anni e tu sei ancora vivo e vegeto. Forse, quella volta, non abbiamo usato abbastanza polvere di fata, la prossima andrà meglio"
"Hai la testa piena di storie e, per colpa tua, ora ce l'ho piena pure io. Papà dice che non mi serviranno a niente nella vita!"
"I papà sono noios..." mi interruppi quando vidi la luce del corridoio accendersi e il custode spuntare sulla porta. "Ehi tu, James Matthew Barrie" disse indicando il mio amico "torna a dormire!"

Jane Pancrazia Cole

Come vi avevo già annunciato, sabato pomeriggio ho partecipato a una diretta Facebook dedicata al cinema degli anni '80.

Eravamo in 5. Chi quel decennio l'ha vissuto da bimbo e chi da ragazzo.  Ognuno di noi ha "portato" due film dell'epoca a cui è particolarmente legato. E una pellicola che, per ragioni diverse e sicuramente opinabili, detesta. 

Quindi no, non è stata una tavola rotonda dedicata ai più grandi capolavori cinematografici di quel periodo e neanche un compendio esaustivo dell'argomento, ma una chiacchierata tra amici che hanno ricordato sensazioni e sentimenti degli ormai lontanissimi anni '80. 

Se vi va di recuperare l'evento – perché la mia presenza in una diretta Facebook può considerarsi tale – andate a questo link e buona visione!


Per questioni anagrafiche e culturali sono un'esperta di cinema anni '80. E sciorinerò tutta la mia conoscenza domani, sabato 30 maggio, alle ore 17 in una diretta su facebook.

L'appuntamento è con il format C'era una volta il Cinema che potrete seguire sul mio profilo o sul profilo di Morandazzo. Una tavola rotonda semiseria – molto semi e poco seria – che vedrà partecipare gente bella bella che, molto probabilmente, finirà con l'accapigliarsi parlando di Dirty Dancing!

Preparate glitter e rossetti rosa shocking gli anni '80 stanno tornando!

La 127 verde prato arrancava su per la collina. Giovanni era andato al Sant’Anna a prendere Lucia e il loro piccolino appena nato.

La strada era scivolosa a causa della neve caduta pochi giorni prima, spifferi di aria gelida entravano nell'abitacolo, mentre le ombre si allungavano e il sole si preparava a tramontare.

Lucia, stretto il piccolo in una copertina, tremava per il freddo ma anche per la paura, "Sarà una brutta notte" disse fissando il tetto della villa che s'intravedeva più su lungo la strada ...

Continua...

La splendida foto è di Alessandro Bonvini, CC BY 2.0.
E il mio racconto continua sulle pagine di TorinOggi.

Siamo già arrivati al decimo esercizio, DECIMO. Accipicchia, vola il tempo quando ci si diverte! Il Laboratorio Condiviso è nato a gennaio e in questi mesi vi ho proposto incipit, finali, facce, nomi, illustrazioni e persino oggetti. Tutti spunti che voi avete usato per raccontare splendide storie.

Ma, in mezzo a tutto questo cucuzzaro di roba, manca una cosa, ovvia, che non abbiamo ancora usato, parte stessa di ogni racconto o poesia che si rispetti: il titolo. Evocativo o meno è la presentazione di un testo, lo identifica, ci permette d'intravederne il contenuto come sbirciando da una porta socchiusa.

Questa settimana ne ho scelto uno, uguale  per tutti voi. L'amico immaginario sarà il titolo dei vostri componimenti, racconti, poesie, monologhi, che siano.

Lasciatevi ispirare dai ricordi d'infanzia, dai libri che avete letto, i film che avete visto, le storie che vi hanno raccontato, gli sguardi che vi osservano da sopra le mascherine. Le possibilità sono infinite, sfruttatele!

Prima di augurarvi buon lavoro, come sempre, vi ricordo che, per dubbi o perplessità, sono a vostra disposizione, sul blog, via email e sui social. Sono Jane Pancrazia Cole, anche detta SempreConnessa.

Buona scrittura a tutti, spero di leggervi presto!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 31 maggio 2020, ore 12.

Volete leggere i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.

Le illustrazioni di Dixit hanno scatenato la fantasia di molti di voi, non solo per quanto riguarda il contenuto ma anche la forma. Per questo nono esercizio, infatti, abbiamo ben due filastrocche e una... tenetevi forte... canzone! La potete ascoltare al fondo del post.

Io non posso far altro che ringraziarvi per avermi e averci regalato, ancora una volta, delle storie bellissime e degli atti di vero e proprio coraggio.

Buona lettura a tutti e tenetevi pronti per il prossimo esercizio!



Da sotto il piumone sembrava un giorno come gli altri e come gli altri l’avrei cominciato a vivere solo dalla tarda mattinata in poi. Ma quel mattino un’insolita e inappropriata luce estiva lottava affannosamente con i rami dell’enorme noce che sovrastava la mia minuscola casa, e uno dei raggi, il più antipatico evidentemente, non trovando nessun ramo pronto a sbarrargli la strada, riuscì ad entrare dritto a colpire lo specchio posto sulla cassettiera della nonna e riflettendo, un po’ sulla povera nonna e un po’ sullo specchio, colpiva di rimbalzo il vetro della sveglia posta sul comodino e, ancora rimbalzando (la luce e non la sveglia), colpiva l’unico mio occhio non affondato nel cuscino con il risultato di sostituire nella sua funzione principale la sveglia.
Dovevo fare qualcosa, ma cosa?
Non d’accordo con me stesso rovesciai il piumone di lato e mi alzai in piedi di scatto riuscendo nella non facile operazione di mantenere l’equilibrio pur avendo ancora gli occhi chiusi. Mi avvicinai a memoria al cassettone di nonna e quando la pancia toccò il cassetto più aperto dei tre, finalmente decisi di aprire gli occhi.
Con mia meraviglia nello specchio non c’era il mio solito viso, ma quello di un coniglio stanco e visibilmente segnato da postumi di una serata dedicata all’alcol. Rimasi così a fissarmi negli occhi rossi per qualche minuto in un tempo sospeso tra rassegnazione e meraviglia.
Eppure dovevo fare qualcosa, ma cosa?
Poi arricciai il naso un paio di volte e mi decisi a vestirmi. Indossai con calma armatura, mantello e presi la mia spada e andai verso la porta della mia minuscola casa. Ma i postumi forse non erano affatto tali, perché di porte ne vedevo tre. Altri minuti interminabili attendendo che almeno una delle tre cominciasse una qualche forma di dissolvenza, o che vibrasse, o che mi facesse intendere con un qualunque segnale di essere una porta non reale.
Niente. Erano veramente tre porte. Dovevo sceglierne una. Anche se non ricordavo esattamente perché dovessi uscire in realtà.
Dovevo fare qualcosa, ma cosa? Io non me lo ricardavo.
All’improvviso realizzai che nessuna delle tre porte assomigliava a quella di casa mia. Un fruscio dietro di me, seguito da un piccolo lamento. Voltai solo la testa verso la camera da letto che mi ero lasciato alle spalle con un movimento che durò molto più del necessario e vidi qualcosa muoversi sotto il piumone. Nemmeno il piumone era quello di casa mia.
Dal fondo del letto spuntava una zampa di coniglia con un piccolo tatuaggio sulla caviglia: una carota a forma di cuore. SBAM! Come un’iniezione di adrenalina di colpo rivedo una serie di immagini comparire velocemente a ritroso nella memoria: tatuaggio, coniglietta, sesso, spogliata, un bicchiere ancora, entra un attimo, la porta in legno, abito qui, ti accompagno, domani parto per la guerra, evviva, ancora uno, sei ubriaco, bella sei sola?, evviva, ancora uno, evviva, alla guerra, ancora uno, al re, bella portaci un boccale, andiamo alla locanda, è giunta l’ora, il re ha deciso. La porta in legno è quella giusta per andare. Adieu.

Luca Nava


La vita scorreva serena, nel villaggio di Hug-Majul. Il trifoglio cresceva abbondante sulla riva del ruscello, grazie alle acque alimentate dal ghiacciaio della montagna sacra.

Hug-bree era un giovane inquieto alla ricerca di sfide ed avventure. Da piccolo aveva passato tre giorni nella foresta, spaventando a morte i genitori ed i suoi quindici fratelli e sorelle. Crescendo, Hug-bree era diventato un coniglio forte e coraggioso.

Una notte il villaggio fu svegliato da un immenso boato ed il ruscello si prosciugò. Ben presto il trifoglio si seccò, la carestia era alle porte. Hug-bree aveva capito cosa era successo, ma per averne la prova doveva scalare la montagna sacra e questo era assolutamente proibito.

Così si armò di tutto punto, indossò l’armatura che il fabbro gli aveva costruito, e nel cuore della notte si diresse verso la montagna sacra. Attraversare la foresta fu molto pericoloso, dovette far ricorso alla sua forza ed astuzia per sconfiggere l’orso che gli si parò davanti, colpendolo alla base del collo con un agile balzo.

Passarono i giorni, ma finalmente Hug-bree giunse in cima alla montagna sacra e si ritrovò davanti ad uno spettacolo orribile: una frana aveva ostruito il passaggio delle acque. Disperato, si sedette senza sapere cosa fare.

La mattina dopo si svegliò di soprassalto. Una piccola bambina umana era seduta accanto a lui. La curiosità ebbe la meglio sulla diffidenza e si avvicinò.

“So perché sei qui”, disse la bambina. Ma la voce che sentiva era una grande eco all’interno della sua testa. “Hai visto la frana e non sai come liberare le acque che danno vita al tuo villaggio, vero?”. Hug-bree pensò che non si trattasse esattamente di una bambina umana. “Hai ragione”, gli disse leggendogli nel pensiero, “sono una fata della prima schiera che popola la montagna, ecco perché vi è proibito salire quassù. Sono qui perché voglio aiutarvi. C’è un solo modo per eliminare la frana, grazie all’invenzione di un umano chiamato Nohb-ehel. La sua casa si trova oltre la montagna, sull’altro versante. Vive in mezzo ad una radura al di là del bosco”, e sparì.

Hug-bree, rincuorato da questa nuova speranza, si diresse il più velocemente possibile al bosco sull’altro versante, ed individuata la radura trovò la casa. Col cuore che batteva all’impazzata si avvicinò alla porta, che era aperta. Fissata su di essa un foglio riportava delle parole al tempo stesso cariche di speranza e di mistero.

La fata mi ha avvisato del tuo arrivo, piccolo amico. Ho quello che serve per risolvere il problema del tuo villaggio, ma da umano non posso presentarmi a te. Inoltre, visto che sono convinto che le soluzioni ai problemi debbano essere conquistate, ti pongo un quesito. Entrando, troverai davanti a te tre porte: la prima è riccamente decorata, di legno pregiato, fine ed elegante. La seconda porta è di legno grezzo con un architrave in pietra, la terza porta è completamente di ferro, con robuste cerniere. Quale porta cela la soluzione al tuo problema? Buona fortuna, piccolo amico!

Hug-bree si sedette a riflettere: “la prima porta non va bene, perché ricchezza e potere non mi serviranno. La terza porta in ferro, non potrà aiutarmi perché forza e robustezza non mi aiuteranno a spostare massi così grandi. La porta in umile legno grezzo e l’inamovibile architrave in pietra rappresentano l’umiltà e la determinazione, che sono l’unico mezzo per risolvere i problemi”.

Quella stessa notte il villaggio fu svegliato da un tremendo boato, e alle prime luci dell’alba le fresche acque del ruscello ritornarono a dare la vita al villaggio.

Beppe Carta


Tutte le paure le aveva chiuse dentro una corazza a prova di lacrime. Era diventato il più valoroso coniglio delle Valli Scuoiate. Da quando armeggiava la spada con inaudita maestria si erano fatti sempre più radi i rapimenti di vispe conigliette con patate al forno. Non l’aveva scelto il suo personaggio. Ma ci si trovava a suo agio. Mentre con la spada sguainata inseguiva le Indifese Carote non faceva che ripeterselo. Era proprio l’Impavido Coniglio! E lo sarebbe stato per sempre. Il segreto era fermarsi un pochino prima, spingersi, anche correndo, in fondo ai prati più ambiti ed ai castelli più lontani. Ma poi rimanere lì, impalato e sereno a godersi le sue sconfinate sicurezze. Senza mai oltrepassare la soglia. Non era certo una cosa facile. Ci aveva messo anni per costruirsi così. Ed era stato tanto bravo che non riusciva neppure a ricordarsi chi fosse. Dopotutto a chi importava? Lo osannavano per la spada e le frasi spietate e senza senso. Lo adulavano per la violenza inaudita che esprimeva al meglio contro Ortaggi Indifesi (i nemici più odiati) o contro Conigli Maculati (non era certo colpa sua se aveva un pelo bianco candido!).

E così la vita trascorreva beata tra imprese e perigliosi viaggi senza meta. Una volta, dopo giorni e giorni di cammino era arrivato in una casetta che avrebbe potuto conosceva fin troppo bene. Era così modesta! Ma non era affar suo. Si era fermato a guardare le pietre sconnesse intorno alla porticina di legno. Per un attimo un fremito l’aveva percorso. Ma per fortuna era stato solo un attimo e c’era anche una certa brezza. Nessun sentimentalismo e nessun legame. Lui era un grande guerriero: l’Impavido Coniglio non aveva certo bisogno di coccole e leccatine. Chiuse l’elmo e si mosse di scatto per continuare il viaggio, senza voltarsi più. Dietro quella porta marrone, accanto ad una stufa annerita, la vecchiaia consumava una sdentata coniglia che non faceva che pensare a lui. All’Impavido Coniglio che non vedeva da anni e che non avrebbe abbracciato mai più.

Erano passati anni di peripezie inaudite ma la sua fama era cresciuta oltre i confini più lontani solo dopo il salvataggio di Dolce. Dopo averla strappata ai Ghiri Briganti avevano viaggiato per giorni per fare ritorno al castello dorato dall’uscio scarlatto. Tutti l’avrebbero festeggiato se solo avesse avuto tempo per fermarsi. Sin dall’inizio del viaggio aveva risposto solo con battute oscene e sfuggenti alle domande della fanciulla. Così Dolce aveva presto smesso di rivolgergli la parola e si era concentrata a soffocare quel sentimento che sarebbe potuto nascere nel suo cuore. Sarebbe stata solo gratitudine e niente più.

Era giunto l’inaspettato inverno. Per fortuna l’Impavido Coniglio aveva un manto caldo sotto la corazza termica. Anche se le giornate si facevano sempre più corte, non si lamentava. Nelle ore del mattino riusciva a mostrare a tutti il proprio sprezzo. Era un coniglio tutto d’un pezzo, neanche l’età che avanzava l’aveva scalfito. C’era una colonia di Conigli Maculati da annientare e poche ore per portare a termine quella bell’impresa. Li vide che per tentare di sfuggirgli attraversavano il fiume su una porta metallica usata a mo’ di zattera. Si fermò un attimo. Gli era sembrato di riconoscere qualcuno. Non c’era tempo e, per fortuna, non aveva ricordi. Lanciò un dardo e la porta affondò per riaffiorare poco distante, privata dei suoi occupanti. Sospinti dalla corrente sarebbero annegati in pochi minuti. Ma non c’era tempo, un’altra strada da percorrere, uguale a tutte le altre, era proprio lì davanti a lui.

Anonimo


Guardo la porta a sinistra e penso che per ,me è troppo sontuosa.
Dall'altra parte ci sarà qualcosa di troppo, per me. Già c'è l'aspettativa, x esempio. Se poi entro e trovo qualcosa che non è all'altezza di quello che promette, rimarrei delusa.
O magari di là si aspettano troppo per quel che sono. Quindi no.

Quella a destra... troppo acciaio, troppo grigio, troppe viti.
Se la varco, mi aspetto corridoi asettici, scale con corrimano tristi e ferrei, scale infinite, tutte uguali, tutte ugualmente fredde che finiscono chissà dove.

In mezzo c'è la mia porta, in fondo.
Che avrà un corridoio basso e lungo, che sa di umidità e mistero, che mi porta ad avventure di sicuro più alla mia portata.
Magari mi porta a radure umide attraversate dai raggi dal sole che fanno fatica a districarsi tra il fogliame.
Però sento la cascata in lontananza, il profumo dei fiori selvatici, il rumore dell'acqua, gli uccellini che cantano.
Niente è stato costruito appositamente. Come me, del resto. Né un sontuoso salotto, dove potrei starmene tranquilla, nell'agio di chi una strada l'ha percorsa, o forse, all'ombra di qualcuno che l'ha percorsa e decisa per me, né una scala fredda e sempre uguale per piani e dimensioni, che alla fine potrebbe rassicurarmi. Terrebbe a bada la mia inquietudine.
E invece no.
Guarda, mi tolgo anche l'armatura. Che finalmente non solo mi pare di aver capito chi sono. Mi pare pure di aver capito come sono. Forse anche cosa voglio. Magari non esattamente quello. Ma ci sono vicina.
E a che mi serve un'armatura cigolante, una spada inutilmente pesante? Non devo combattere con nessuno. Che poi si sa, l'unica con cui dovevo combattere ero io.
Così lo faccio per davvero.
Abbandono maschere, o tentativi di averle. Abbandono aspettative che non mi sono mai appartenute; abbandono vestiti dentro ai quali non mi sono mai sentita a mio agio.
Libera e allineata, finalmente, alla parte migliore di me, varco la porta più bassa, la porta più piccola, la porta felice di essere così com'è.
E vado.

Nathalie Manca


"Mi siedo accanto al coniglio.
Fiatone, sudore, mantello, pelo e spada.
Corre verso la porta a sinistra, ma non prova ad aprirla.
Osserva quella al centro,
quella di destra.
Le annusa tutte e tre, senza toccarle. Credo sia una fiaba, l’armatura non cigola nemmeno.
Torna qui, dove sono seduto.
Le fissa una alla volta.
Non parla con me.
Non si cura di me.
Leggo in lui la premura di chi ha un’urgenza diversa dalla mia,
che non mi riconosce suo pari,
indegno di confronto.
Sembra un eroe antico,
di quelli che non hanno incertezze, o dubbi. Sta solo valutando quale sia la strada giusta, perché per lui c’è una strada giusta.
Mi chiedo se lo faccia con cognizione di causa, con istinto, o cos’altro. Se stia in fondo solo inseguendo qualcosa che gli è caro, e non ha tempo di pensare.
Certe volte la vita è così, deve averlo capito prima, e meglio di me.
Sono uscite, quelle? Entrate?
Io valuto ciò che vedo, da qui. Sono porte. Solo porte.
Cosa dovrei immaginarci, dietro?
Me che sposto la mia miseria da questa stanza a quell’altra? D’accordo.

A sinistra c’è un bazaar. Un bazaar immenso. E cavalli. E sole, tanto sole. Ed è pieno di gente che non conosco.
Al centro c’è un maniero. Sono sicuro che qualcuno mi sta aspettando, lì. Per questo non so se ci andrò. Perché l’aspettativa non sarebbe la mia, ma di qualcun altro. Ci troverei un unicorno, lì, ne sono sicuro.
Ma mi farebbe pena, probabilmente, o io ne farei a lui. Meglio non vedersi.
A destra c’è ferro, acciaio. Penso che si scenda solamente, che le scale portino giù, che ci sia odore di disinfettante e cloro. E che ogni volta che qualcosa non sembrava per me, alla fine lo era. Ma è roba che ti capita, non che scegli tu. Quando devi scegliere tu è diverso.

Il Bianconiglio che non fa rumore,
che non si cura di me,
e non ha bisogno dei miei consigli,
è sparito da un po’.
Fiatone, sudore, mantello e spada.
Tutto sparito, andato chissà dove.
Mi ha lasciato seduto qui,
spettatore di un mondo
senza serrature,
a chiedermi più che dove andrò io,
dove abbia scelto di andare lui. E a pensarci, di almeno una delle due domande
non so la risposta."

Deva Ashura


– Ecco, ci sono. – disse Lupin a se stesso, con le zampe che gli tremavano e i battiti del cuore accelerati, finalmente davanti a quelle porte che avrebbero dato un senso a tutta la sua storia.

Era un giovane coniglio Lupin, ma si era sempre contraddistinto per forza d’animo e pacatezza, lui il discendente del primo Lupin, quello che era fuggito dalla gabbia dove era nutrito abbondantemente, quello che non si rassegnava al fatto che avere un pasto sicuro ogni giorno fosse davvero vita.

Il vecchio Lupin lo sapeva, sotto il suo lucido pelo nero, che tutta quella storia non aveva mai una buona fine: troppi sparivano, non era possibile che ogni volta che un coniglio diventava abbastanza adulto e abbastanza pasciuto, se ne andasse così, nel nulla. Ma gli altri non lo stavano a sentire, loro avevano da bere, da mangiare, le loro conigliette sempre a disposizione per fare l’amore, tanti piccoli che nascevano ciclicamente e li rendevano orgogliosi: perché mai fuggire? Nessuno di loro si rendeva conto che mai alcuno del gruppo era diventato vecchio, anzi, nessuno di loro sapeva cosa fosse un vecchio coniglio.

A tutte queste cose pensava il giovane Lupin davanti a quelle porte e a quando finalmente il suo avo fuggì, sgusciando fuori dalla gabbia mentre la contadina metteva dentro il fieno: fece un balzo improvviso, prendendo la povera donna di sorpresa tanto che a quella uscì un grido strozzato e fece un balzo indietro come se avesse dentro una molla. Scappò veloce, nel prato verde mentre le urla e le mani della donna cercavano di acciuffarlo. Si nascose, in attesa di poter andare più lontano e anche quando vennero a cercarlo gli altri della famiglia di lei, non si mosse. Si salvò così il vecchio Lupin e vide e seppe che fine facevano gli altri conigli.

Per tanto tempo rimase in disparte pensando a quello che doveva fare e quella ponderazione e quell’intelligenza le avrebbe trasmesse al giovane che adesso stava davanti a quelle porte: e fu così che organizzò la rivoluzione. Fuggirono tutti i conigli e varcarono le tre porte, quelle che portavano alla Terra dei Fuggiaschi, tre porte che portavano in tre mondi diversi mentre tutti scappavano dallo stesso, fatto di una prigionìa che sembrava libertà.

Veniva dalla discendenza del vecchio e ora a lui, il più giovane dei Lupin, toccava tornare indietro. La profezia diceva che sarebbe toccato tornare a colui che aveva il pelo dal colore opposto, il Lupin nero aveva liberato la sua stirpe, il Lupin bianco doveva portare la pace e la concordia trai generi: quello umano e quello animale.

Niente più paura, niente più discordia, ora davanti a quelle porte sapeva benissimo quale era la prima cosa che doveva fare: e gettò via la spada. Nel mondo lì fuori, quello degli uomini, sarebbe arrivato in pace, alla ricerca non di vendetta, ma di unione. Perché se gli uomini erano stati crudeli, allora i conigli erano stati stupidi e rassegnati: nessun filo d’erba a riempire la pancia può mai valere come la libertà.

Letizia Battaglia


Pioveva a dirotto quando raggiungemmo il nostro posto preferito: un parcheggio a spina di pesce lungo corso Francia. Se si era abbastanza fortunati da trovare un buco, era la scelta ideale, si stava nascosti in bella vista in una zona sicura. "Eccoci qui" dissi guardandolo dallo specchietto retrovisore. Lui sbadigliò e si stropicciò gli occhi.

Spostatami anch’io sul sedile posteriore, gli slacciai le scarpe e lo aiutai a infilarsi il pigiama, quello in pile che gli avevo comprato per lo scorso natale. "Ormai ti sta corto" dissi con lo sguardo alle sue caviglie nude.

Poi venne il mio turno di prepararmi: mi tolsi gli stivali e mi rifugiai in un vecchio golfino. Quello marrone. Quello che pungeva. Paolo lo giudicò con il suo broncio bambino ma poi si arrampicò su di me, appoggiando senza esitazione la sua guancia paffuta alla mia spalla ossuta di lana infeltrita. Abbracciati così riuscivo ancora a sentire quell’odore d’infanzia, dolce e pulito, nonostante tutto.

Dietro, con lo schienale tirato giù, c'era posto per tutti e due, e anche per Gino. Il nostro cane di pezza.
Ci sdraiammo, avvolti tutti e tre nella coperta, stretti stretti tra due valige e alcune buste. Il lampione illuminava l'abitacolo ma i vetri bagnati ci regalavano l’illusione di uno spazio solo nostro.

"Hai freddo?" gli chiesi in una carezza.
"No" rispose con la sua piccola voce.
"Perfetto, allora dormi, notte tesoro mio"
"E la storia?"
"Ma non sei stanco?"
"No" biascicò col visino stretto tra Gino e me.
"Va bene" sorrisi nei suoi capelli sottili.
"Dove eravamo rimasti?"
"Carota…"
"Giusto, Cavalier Carota.
Il Cavalier Carota aveva superato il labirinto e, una volta attraversato il corridoio rischiarato solo da alcune fiaccole, era giunto in una stanza.
Lì, di fronte a sé, trovò tre porte".

La città attorno a noi si stava addormentando. E Paolo con lei. Solo io ero destinata a rimanere sveglia a lungo, come sempre, cercando la via d’uscita per Cavalier Carota e soprattutto per noi.

Jane Pancrazia Cole

      

Avevano la stessa forza, pari l'agilità e con le stesse armi, erano secoli che combattevano e sempre per lo stesso motivo, il vile denaro. Ormai dopo tanto combattere erano quasi scomparse; se penso a quanto erano grandi gli eserciti all'inizio e quanta fatica fecero per accumulare cosi tanti denari senza mai pensare veramente a se stessi, mi vien da piangere, ma sarebbero, ahimè, lacrime inutili.

E adesso che si scoprivano come due formiche, con due stuzzicadenti a mo’ di spada non ebbero più niente da fare se non continuare a lottare. Troppo l'oro e il benessere che si era accumulato sotto di loro, schiacciando tutto, troppi i più deboli schiacciati per lasciarli continuare a combattere e neanche il pensiero ormai formulava qualcosa di diverso dal voler battere l'altro. Anche la memoria si era consumata, tanto che nel momento in cui si fermò tutto, loro non capirono neanche il perché e invece di cercarlo, rincominciarono a lottare.

Si dice che alla fine non restò più nulla, anche perché nessuno poté raccontarlo e anzi io stesso qui, mi stupisco: ancora provo a scrivere parole? Qualcuno le leggerà, mi correggerà e mi aiuterà a capirle meglio? Forse si o forse no, ma non ho potuto fare altrimenti e in fondo è bello così ed è facile poi capire, ragionare se ci si sofferma anche solo un attimo a guardare.

Paolo Puleo


Padre e figlio della Famiglia Insetti
Capi del Regno furon eletti
da formichine sì laboriose
ché furon presto danarose.
Un giorno, preso da avidità,
il figlio perse di colpo lucidità
E vedendo il padre in cassa
Agitato, tuonò la grancassa

“Sudditi, presto, accorrete!
Un ladro attenta alle nostre monete!”
“Non mi riconosci? Incredibile!
Son tuo padre e pur contabile!

Sto contando i danari
Ordinandoli in filari
Torri alte più di un dito”
“Or ti sfido, cuor ardito”

“Lascia stare quel fioretto,
sono tuo padre, te l’ho detto”
Invece il figlio, noncurante
Si beò della folla urlante

E scalò la torre svelto
Certo d’esser il prescelto
L’altro allora: “Che sbruffone!
L’arma è pronta a dar lezione.

Marika De Sandoli



A come avventura
B come bravura
C come canaglia che con me verrà in questura
D come diamante
E come elefante

Cantavo sempre questa filastrocca ai mie figli per dormire. Mi fermavo ad ogni piccola strofetta e la intermezzavo con pezzettini di una storia appena “sfornata”.
È stata poi la volta dei mie nipotini quando me ne occupavo o quando venivano a dormire da me. Poi ancora è stata la volta dei miei piccolissimi bisnipotini.

F è il furfante che in galera porterò
G c’è tanta gente
H non c’è niente
I mmediatamente alla L passerò
L è l’animale

Tutti si divertivano tantissimo: da piccolini battevano le mani sorridenti ad ogni nuova storia, da più grandicelli non si fermavano mai i cori di “Ancora!” che mi forzavano – con mia somma gioia - ad immaginarne di sempre nuove.

M meno male
N è già Natale e tanti doni porterà
O come orco
P come Pinocchio
Q questo ranocchio che stasera mangerò

I miei figli, nipoti, bisnipotini, oramai cresciuti, non hanno più avuto bisogno delle mie storie. Negli ultimi anni in definitiva ho sofferto di tanta solitudine. Io però ho continuato a canticchiare a voce bassa la filastrocca seduta su una panchina del parchetto vicino casa, guardando le stelle e scrivendo su un mio quaderno la storia della serata.

R come Roma
S come strade
T tutte le strade che a Roma porteranno
U che bella storia
V vi ho raccontato

Sono troppo stanca e senza forze stanotte. Tanto che, mai successo, non riesco a completare la storia della serata. Ho come il presentimento che domani non riuscirò a tornare alla mia panchina. Sull’ultima pagina del quaderno ho scritto “da proseguire” - ”to be continued”. Il quaderno: lo lascio in eredità a Stella, la mia bisnipotina più vivace e fantasiosa. Chissà che la mia Stella non riesca anche ad immaginare il mondo senza di me. Ma sempre con me ed il mio quaderno vicini.

Z ho tanto sonno e ora vado a riposar
sotto le lenzuola tutte le parole fanno capriole
ed un’altra storia inventerò.

Marianna Palmerini


 

La Peppa

Nicola Lagioia e Marco Pautasso ieri hanno condotto l'ultima giornata del Salone. Un gran finale come un varietà, che ha visto musicisti, scrittori, giornalisti e attori alternarsi.

Quello di quest'anno è stato un "Salone virtuale," ha detto Lagioia, "che non si sostituisce a quello fisico ma che è stato in grado di raggiungere e appassionare anche chi al Salone, quello vero, non ci era mai stato, o per collocazione geografica o per problemi di salute o di lavoro".

Il Gran Finale è stato una carrellata infinita di personaggi della cultura e dell'arte. I torinesi direttamente sul palco sotto l'iconica torre di libri di François Confino – da anni simbolo della manifestazione – tra questi: Fabrizio Bosso, Levante, i Perturbazione e l'immancabile Baricco. I non indigeni, invece, collegati da casa loro, come Francesco Bianconi, Carlo Rovelli, Zerocalcare, Jasmine Trinca e Roberto Saviano.

Bravi eh, per carità, ma una spanna sopra tutti: Arturo Brachetti, che ha raccontato il Piccolo Principe attraverso l'arte del disegno con la sabbia. Sì, sa fare anche questo Brachetti.
Quanto ci fai sentire inadeguati, Artù!

Infine, Nicola Lagioia, prima di salutare e ringraziare tutti ha voluto suggerire a noi spettatori/lettori “Visto che per vedere tutto questo po' po' di roba non avete dovuto pagare il biglietto, andate a comprarvi un libro, per dare una mano a una filiera che è, al tempo stesso, preziosa e molto fragile”.
E ha ragione, non dimentichiamolo.

Il Salone del Libro si è concluso. Questa mia maratona sul blog, anche.
Viva il Salone del Libro! E viva me! 
Troppo?
Ok, viva il Salone del Libro e basta!

Vent'anni fa, Ilide Carmignani andò da Ernesto Ferrero – allora direttore del Salone – chiedendo uno spazio per i traduttori. L'idea piacque, si partì con una tavola rotonda che poi, negli anni, crebbe, diventando un'importante sezione del Salone stesso. Il nome della sezione? L'azzeccatissimo L'autore invisibile. 

"Il 20% dei libri stampati in Italia sono traduzioni" dice Nicola Lagioia – direttore attuale del Salone. "In realtà, se si eliminano scolastica e saggistica, la percentuale sale di parecchio", specifica la Carmignani. Numeri simili riguardano tutta l'editoria europea, notoriamente tra le più aperte, curiose e cosmopolite. Del resto, giratevi un attimo, alzate lo sguardo, eccola là, la vostra libreria, quanti libri di autori non italiani ci sono? Ecco, appunto. Quanto è importante ma sottovalutato il valore del traduttore?

Quest'anno per festeggiare l'anniversario de L'autore invisibile, a partecipare a questo Salone sui generis, è stata chiamata Anita Raja, traduttrice di numerose autrici di lingua tedesca, tra cui le più note sono sicuramente Christa Wolf e Frida Petzenbaum.

"Non sono una traduttrice professionista," ci tiene subito a precisare Anita Raja, "perché questa attività è sempre stata collaterale. Lo faccio da più di 30 anni ma, non essendo ciò che mi dà da vivere, ho sempre avuto il vantaggio di poter scegliere e di fare questa attività solo per piacere".

"La traduzione è il rapporto tar due lingue e due scritture. Un rapporto non paritario. Chi traduce subisce l’autorità e la fascinazione di un testo di partenza – se l’autore è un grande autore – e offre il proprio linguaggio con amore, con passione, con ammirazione."

"Piegarsi alle necessità del testo di partenza, forzare la propria più modesta capacità di linguaggio per essere all’altezza dell’originale. La traduzione è un'opera di riscrittura che ha la prerogativa dell’ospitalità e l’obbligo di reinventare ogni volta uno spazio linguistico adeguato ai bisogni del testo originale. Tradurre non è trascrivere ma riscrivere, non in modo libero ma comunque inventivo. Trovare, escogitare il modo migliore per ospitare l’originale."

"Il testo ci domina, ci tiene stretti nella sua rete già come lettori. Quando leggiamo un testo che amiamo è difficile capire dove finiamo noi, dove comincia il personaggio, dove ci pieghiamo alle intenzioni dell’autrice/autore, dove inseriamo le nostre intenzioni. Tradurre significa accettare quella disparità, che quella parola è più potente della nostra, vedere con chiarezza la rete del testo, farsene lucidamente intrappolare. Dal riconoscimento della disparità muove la domanda che dovrebbe assillare chiunque traduca: quanto sarò capace di trasportare nella mia lingua della sua parola?"

"Alle opere di grande valore letterario ogni veste in un’altra lingua va stretta. Ogni lettura, ogni traduzione porta i segni della parzialità storica. Il testo di arrivo non è mai definitivo e sempre perfettibile. Il testo originale sprigionerà in futuro significati che ora non vediamo o che appanneranno ciò che ci è sembrato di vedere. Forse dobbiamo concludere che la ricchezza, la plurivocità del testo originale non si riproduce in una sola traduzione ma in un insieme di traduzioni, quelle precedenti e quelle che seguiranno, ed è bene, è bello che sia così", conclude Anita Raja in un intervento appassionato e ricco.

Nota a margine dovuta. Vi state chiedendo chi sia Anita Raja? Il nome vi suona molto famigliare? Se siete appassionati di letteratura, gossip e misteri l'avrete già riconosciuta, altrimenti ve lo dico io. Anita Raja è la sospettata numero 1. Uno dei nomi più tirati in ballo in quanto possibile vera identità di Elena Ferrante. Sarà davvero lei? Ovviamente io non è ho la più pallida idea e, onestamente, poco m'interessa. Ma, in quanto ad amore per le parole e capacità di racconto, direi che questo suo intervento testimonia un innegabile talento. Che l'abbia usato vestendo panni diversi e raccontando amiche geniali? Bah, non lo sapremo mai o forse sì.
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