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"Non l'ho mai raccontato a nessuno" era questo l'incipit da cui partire per l'undicesimo esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura.

Un incipit evocativo che ci ha regalato grandi soddisfazioni. Grandi storie, autobiografiche o meno, non è importante questo, quanto le emozioni profonde che emergono da ogni singola riga. Un grazie speciale a tutti i partecipanti e un augurio di buona lettura a tutti gli altri.


Non l’ho mai raccontato a nessuno, sa?

Quella volta che sono tornata a casa dopo il famoso lockdown del 2020, dopo la morte di mia nonna, è stata proprio difficile. Non credevo, prima di partire dalla Terra delle Montagne, di aver sofferto così tanto la solitudine ed il lutto.

Ero a pezzi. E me ne sono accorta sull’aereo.

Era il primo weekend di “libertà”, in cui si poteva viaggiare. Guardavo le facce delle persone in fila intorno a me in attesa al gate. Ho provato ad attaccare bottone, ma non c’erano grandi facce tristi. Eppure era stata una situazione difficile per tutti, non solo per me. Appena, da Roma Fiumicino, siamo partiti in direzione Pisa ho visto il mare. Ed ho iniziato a piangere. E sono scoppiata in lacrime, con la mascherina, vedendo l’Elba e la Meloria.

Il mare non è noioso, non è monotono come il fiume ed il lago. Ed è anche imprevedibile, si increspa, mescola tutto. La natura che sento anche mia.

In quel distanziamento - due persone per fila - ho sentito singhiozzare la ragazza nella mia stessa fila.

Ho fatto finta di niente per non imbarazzarla. Ma tra me e lei sembrava un concerto.

Non so se ha presente la canzone “Autogrill” di Guccini: descrive un momento di incontro tra due persone, con lui che sente l’anima della persona accanto “vicina”, ma non riesce nemmeno a dirle una parola.

Ecco: alla fine del concerto singhiozzato, appena arrivati, al momento della discesa, io ho provato quella sensazione. Volevo solo dirle ciao e farle un sorriso da sotto la maschera.

“Fila dalla 1 alla 10”. Ecco il nostro momento!

Mi sono alzata. Lei si alzata. Ma se ne è andata ad occhi bassi.

Sarà stata davvero lei a piangere? Era di lei il singhiozzo che mi accompagnava? Nell’alienazione e nell’incognito delle maschere?

Nella paura del diverso. Quanto mi ha fatto paura il diverso, ed anche a quella ragazza. Soprattutto in quel momento. Il diverso che non è empatico, che non piange per un’emozione. Quello che non mostra solidarietà, quello che ha avuto paura del contatto vero, anche solo con un sorriso. Ma anche quello che si vuole avvicinare troppo alla tua sfera, perchè in quel momento solo stare vicini era pericoloso, indipendentemente dalla natura dell’altro.

Era già quel momento evidenza della guerra che ne sarebbe venuta fuori. La crisi economica degli anni ‘20 e la Prima Guerra Fredda Sociale, dopo 2 anni di Distanziamento. Si ricorda?

Marianna Palmerini



Non l'ho mai raccontato a nessuno, nemmeno a me stessa. Quando sentivo una pulsazione in quella direzione, nei miei pensieri, la reprimevo. Era come se improvvisamente comparisse un bozzetto e io lo andassi immediatamente a schiacciare con un dito. Inizialmente faceva resistenza, poi si iniziava ad infossare sotto al peso del mio polpastrello. Sembrava quasi che il mio dito ci lasciasse l’impronta. Poi rimaneva un’aureola nella parte più esterna, sulla circonferenza del bozzetto. A questo punto ero costretta ad ingegnarmi per appianare quel rigonfiamento e allora iniziavo a spingere con il palmo della mano, con tutta la forza che avevo, con gli occhi chiusi. Credevo che chiudendoli avrei esercitato più pressione. Una volta appianato, rimanevo qualche minuto a contemplarlo, soddisfatta. Ma continuavo comunque a guardare lì, in quel punto. Anche volendo, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Solo un evento improvviso ed eclatante riusciva a farmi pensare ad altro, e poi magari non ci pensavo più per giorni, settimane, anche mesi. Se ne andava per come compariva. C’ho messo tanto a dirlo a me stessa. Qualche volta poi ne ho parlato al muro della mia stanza, altre volte l’ho confidato al soffitto. Dirlo guardando negli occhi qualcuno era invece un ostacolo insormontabile. Un giorno però ho trovato un’escamotage: l’ho detto al cane.

Anonimo



"Non l'ho mai raccontato a nessuno..."

Quella sensazione di inadeguatezza verso il mondo esterno che non riesco a spiegare e mi porto dentro.

A proteggermi quella corazza che mi sono creata durante il periodo dell'adolescenza. Purtroppo, questo sentimento riemerge ogni volta che la vita mi mette davanti ad un qualsiasi problema.

Come poter dimenticare quelle parole apparse sullo schermo "Faresti meglio a sparire per sempre".

La ferita più profonda è stata generata dal tradimento della fiducia data senza remore a quella persona che credevo un' amica.

Scoprire che quelle parole erano state suggerite proprio da colei alla quale avevi aperto il tuo cuore e confidato i tuoi sentimenti è stato peggio di un pugno in pieno volto.

Cosa spinge una persona, a cui non hai fatto nulla di male, a buttare su di te tanto odio immotivato. Soprattutto chi lo fa riesce a prevedere le conseguenze portate da tali gesti?

Nel mio caso sono state diciamo "solo psicologiche, e cerco di combatterle ogni giorno, ogni volta che sento del suicidio di un ragazzo o ragazza a causa del bullismo ripenso alla lettera e mi vengono i brividi... e se fossi stata io quella ragazza?

Anonimo



"Non l'ho mai raccontato a nessuno, ma era giusto fartelo sapere. Addio, figlio mio.” 

Così si concludeva la lettera che Miguel aveva trovato nella tasca del pigiama di suo padre, morto quella mattina. Lo aveva portato via dall’orfanotrofio del convento di Villa Real quando aveva sette anni, e già dopo un anno Miguel aveva cominciato a pensare a lui come ad un padre. 

Si chiamava Augusto Lorenzin, un uomo alto, forte e dolce al tempo stesso. La malattia l’aveva portato via nel giro di sei mesi, riducendolo ad uno scheletro. I suoi occhi, però, erano sempre gli stessi: luminosi, pieni di vita e di intelligenza, con un fondo di tristezza e di malinconia di chi ha vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra e dei campi di concentramento.

Miguel riprese in mano la lettera, si asciugò gli occhi, e rilesse quel foglio ingiallito scritto a mano.

“Figlio mio, 

è da tanto tempo che avrei voluto consegnarti questa lettera, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo. Mi sto portando dentro questo peso da quando ti portarono all’orfanotrofio dopo la sparizione di tuo padre. Il tuo vero padre, intendo. Già, perché io conosco la tua storia da quando ancora avevi un padre, quando vivevi in quella piccola casa nel barrio di Puerto Madero, vicino al negozio di Pedro.

A quei tempi vivevo nel barrio Palermo, da buon italiano. Mi ha sempre fatto sorridere che un veneto come me sia andato a vivere a Palermo, anche se si parla una lingua diversa. Avevo un piccolo negozio di gastronomia che avevo chiamato “Gastronomia Italia”, un po’ per ricordare le mie origini, un po’ per attirare gli italiani che vivevano nel barrio. La mia attività funzionava bene, avevo tanti clienti affezionati che venivano a comprare un po’ di tutto. Ero finalmente sereno, dopo anni passati con la paura e l’orrore appoggiati sulla mia spalla come una scimmia arrabbiata.

Avevo sempre le maniche arrotolate fin sopra i gomiti, ed ogni tanto mi cadeva l‘occhio su quelle sei cifre tatuate sull’avambraccio. Allora distoglievo subito lo sguardo perché mi riportavano alla mente dei ricordi che ho cercato di nascondere nella parte più profonda ed inaccessibile della mia mente.

Un giorno il campanello d’ingresso tintinnò e la mia vita cambiò di colpo. Era lui, era sicuramente lui: gli occhi gelidi, il portamento militare e quell’espressione che non sono mai riuscito a dimenticare. Si chiamava Herbert Von Hurer, ed era stato il comandante del campo di concentramento nel quale avevo vissuto i tre anni più terribili della mia vita. La mia mano corse subito a coprire il tatuaggio e sentii il sudore imperlare la mia fronte. Lui non mi riconobbe.

Molto educatamente mi chiese se avessi a disposizione dei bratwurst, perché a Buenos Aires non se ne trovavano neanche al mercato nero. Colsi l’occasione e gli dissi che li avrei potuti trovare ma che c’era bisogno di tempo, se mi avesse lasciato il numero di telefono avrei potuto procurarglieli. Il mio cuore batteva all’impazzata. Mi diede il numero e l’indirizzo con un sorriso appena accennato e sparì dalla porta. Nei giorni che seguirono mi procurai quello che stava cercando, lo chiamai e ci demmo appuntamento al negozio, verso l’orario di chiusura.

Fu fin troppo facile, lo portai nel retrobottega e gli dissi che sapevo chi fosse. Lui sbiancò, cercando di convincermi che avevo sbagliato persona, allora gli sussurrai la frase in tedesco che pronunciava più spesso, e che era sinonimo di percosse e torture: “Der letze, der in die Baracke eintritt….”. Con un filo di voce completò la frase: “…muss Pfand bezahlen”. “L’ultimo che entra nella baracca…deve pagare pegno”.

Fu facile sopraffarlo: con gli anni avevo ripreso peso e mi ero irrobustito, mentre lui era parecchio dimagrito e non faceva più esercizio fisico. Le mie dita affondarono nel suo collo e lo tennero stretto finché smise di muoversi. Avevo anche pensato a come liberarmi del cadavere, ma non voglio scendere in dettagli. Sappi solo che se vorrai ritrovare il corpo di tuo padre non ti sarà possibile.

Dopo che i vostri vicini di casa diedero l’allarme si scatenò per tutta Buenos Aires una caccia all’uomo per ritrovare tuo padre. La notizia fu riportata da tutti i giornali, i titoli parlavano della misteriosa sparizione del Barrio di Puerto Madero. Io leggevo avidamente tutti gli articoli, alla ricerca di un eventuale testimone che avesse potuto vederlo mentre entrava nel mio negozio, ma non si trovarono testimoni attendibili o tracce che potessero portare a me. Ma lessi di te, il bambino di sette anni figlio dell’uomo scomparso, orfano di madre ed ora anche orfano di padre. Senza parenti che potessero prendersi cura di te, finisti all’orfanotrofio.

Fu lì che ti trovai dopo due mesi dal fatto: triste e solo sedevi in un angolo, con quei bei capelli biondo scuro e quegli occhi tristi e grandi. Gli stessi occhi di tuo padre, la stessa tristezza dei miei. Fu lì che presi la mia decisione: prenderti con me. Le suore del convento, cui portavo periodicamente delle provviste e che mi conoscevano bene, non ebbero problemi ad acconsentire che ti portassi a casa nonostante non fossi sposato, definendomi un angelo del paradiso. Se solo avessero saputo.

Crescesti bene, figlio mio. Forte, buono, spaventosamente intelligente. Non riuscii più a batterti a scacchi da quando avevi dieci anni, è il mio unico cruccio. Col passare degli anni avevo quasi rimosso le circostanze che ti portarono a vivere con me, ed in seguito ad adottarti legalmente dopo che Rosita era entrata nelle nostre vite, con la prepotenza e la dolcezza che solo una donna argentina può avere. Ridemmo insieme al matrimonio, piangemmo insieme al suo funerale. Non riesco ancora adesso a perdonare l’automobilista ubriaco che la uccise, anche se rimase ucciso pure lui nello schianto.

Ed ora che la vita mi sta abbandonando, sento il bisogno di confessarti tutto. Perdonami per essere stato codardo e per non avertelo detto a voce, ma ci sono cose che ancora adesso non riesco ad affrontare.

Non l'ho mai raccontato a nessuno, ma era giusto fartelo sapere. Addio, figlio mio.”

Miguel prese la lettera, la piegò con cura e la ripose tra le mani del padre. Adesso sapeva tutta la verità ma non gli importava. Era diventato suo padre e l’aveva amato con tutte le sue forze, l’aveva portato via da un padre biologico che nei suoi ricordi di bambino appariva freddo e a volte spietato. Pensò che Augusto Lorenzin, un veneto approdato in Argentina in cerca di una nuova occasione, la vita gliel’aveva salvata.

Beppe Carta



Non l’ho mai raccontato a nessuno nemmeno al mio amico immaginario. Sì, ho un amico immaginario. Per l’esattezza da circa 23 anni e so già cosa stai pensando. Non sono pazza. A lui confido sempre tutto: paranoie, scleri improvvisi, brutte parole. Spesso mi ritrovo a passeggiare avanti e indietro per la casa mentre aspetto il caffè salire nella moka o cerco ispirazione per uno dei miei articoli. Inizio a farmi dei discorsi degni di una sceneggiatura con botta e risposta, possibili comparsate e colpi di scena. Come se qualcuno potesse replicare, ma in realtà quella che replica ad ogni battuta sono sempre io. Sono capace di rimproverarmi da sola e subito dopo chiedermi scusa. Credo che vedere dall’esterno questi siparietti sia quasi divertente. Potrei avere un futuro da comica. Questa volta, però, è diverso. Non posso pronunciare a voce alta quello che sto custodendo gelosamente nella mia testa con la speranza che il cuore non possa percepire nulla. Ogni volta che capta una nuova emozione inizia a battere nella speranza di farsi sentire e ora non è proprio il caso di dare spettacolo di egocentrismo. Non dopo tutto questo tempo. Non sono pronta alle possibili conseguenze nell’ammettere di aver preso in giro tutti e sentirmi dire che devo andare avanti. Effettivamente davanti alle carte di separazione consensuale, firmate da entrambi, cosa pretendo ancora? Il caffè, ho dimenticato il caffè sul gas. Sono il solito disastro. 

 Sabrina Marchetti



Non l’ho mai raccontato a nessuno ma lo farò ora. Non so andare in bicicletta. Sono un’adulta che, se ci provasse ora, avrebbe ancora bisogno delle rotelle. Vi sembra imbarazzante? Lo è.

Ho vissuto dagli zero ai 7 anni con i piedi felicemente piantati a terra. Poi, un lontano 25 dicembre di tanti anni fa, sotto l’albero di Natale trovai una bici. Regalo dei miei zii. Da quel momento, i piedi sarebbero dovuti finire su due pedali.

L’entusiasmo per l’inaspettato dono durò poco. Precisamente fino a quando, pochi giorni dopo, i miei genitori investirono mia sorella, 8 anni più grande di me, dell’onere di mettermi sul sellino e spingermi verso un luminoso futuro da ciclista.

L’infelice esperimento ebbe luogo in cortile e durò pochi minuti. Finì rapidamente con una bimba frustrata e in lacrime e una ragazzina al limite dalla crisi isterica. La piccola fifona tornò a casa dichiarando che a lei non interessava imparare ad andare in bici.

Io, ovviamente, avevo paura di cadere e farmi male. 
Mia sorella, di soli 15 anni, non aveva la pazienza e l’autorità necessarie per imporsi e riuscire nell’impresa. I miei genitori – lavoratori incalliti, appartenenti alla generazione che vestiva nutriva, amava i figli ma sicuramente non li accompagnava ai giardinetti – misero la bicicletta in cantina e ritennero la faccenda chiusa.

E sarebbe anche andata bene così se, con gli anni, la vicenda non si fosse trasformata in un simpatico aneddoto famigliare. Il cui titolo più o meno era: “Quant’è imbranata la nostra secondogenita. Ah ah ah grasse risate”. Tirato fuori periodicamente per anni, anni e anni. Fino a quando decisi che era giunto il momento di indicare a tutti il grassoccio elefante che stazionava in cucina con noi dai tempi della mia infanzia, e che i miei genitori si ostinavano ad ignorare.
“Io sarò anche stata imbranata e fifona” dissi loro. “Ma voi prima avete scaricato la responsabilità su mia sorella. Una ragazzina. E poi avete lasciato decidere una bambina di sette anni, bambina a cui non facevate mai decidere un cazzo, solo perché eravate troppo pigri, stanchi o in fondo non ve ne fregava nulla, per alzare il culo un sabato pomeriggio e insegnarmelo voi”. Fu solo in quel momento che vidi riflesso il pachiderma negli occhi dei miei. 
L’elefante così sparì e, insieme a lui, il simpatico aneddoto.

Che sia chiaro: i miei genitori, per il resto, sono quasi perfetti e io, effetti, sono un po’ rancorosa. Però, quando finalmente sputo il rospo, anche a distanza di enne anni, mi sento meglio e solo a quel punto sono pronta ad andare avanti. Con rotelle o meno. 
E questo no, non l’avevo proprio mai raccontato a nessuno.

Jane Pancrazia Cole

Torna l'attesissimo (lo stavate attendendo tantissimo, nevvero?) appuntamento mensile con i miei consigli su cosa fare e vedere. E, per questa volta, anche sentire.

Cominciamo col botto, con il canale di YouTube di David Lynch. Sì, proprio quel David Lynch. Il regista. Il genio. Il visionario.
E che si è inventato il nostro pazzo pazzo David? I Weather Report. Le previsioni del tempo. Fatte da quello che sembra quasi un bunker, commentando nuvole e temperature.
"Diane, undici e trenta di mattina del 24 febbraio. Sono quasi arrivato a Twin Peaks, cinque miglia a sud della frontiera canadese, due miglia ad ovest dei confini dello stato. Non avevo mai visto tanti alberi in tutta la mia vita. Come direbbe W. C. Fields, è meglio stare qui che a Philadelphia. Temperatura 12°, cielo leggermente nuvoloso. Il meteorologo ha previsto pioggia. Se si potesse guadagnare tutti quei soldi per sbagliare il 60% delle volte sarebbe un bel lavorare", diceva all'inizio di Twin Peaks l'agente Cooper.
Tutto torna, pazzo pazzo David.
https://www.youtube.com/channel/UCDLD_zxiuyh1IMasq9nbjrA.

Mi avete seguito quando ho parlato del Salone del Libro qui, qui, qui e pure qui? No? Certo che, ogni tanto, potreste pure darmela una soddisfazione!
Comunque, sul sito ufficiale del Salone sono disponibili tutti gli incontri di questa specialissima edizione streaming appena trascorsa. Andate a curiosare e divertitevi!
https://www.salonelibro.it/ita/salto-extra-replay.
http://www.radiocole.it/2020/05/pancrazia-al-salone-si-comincia.html.
http://www.radiocole.it/2020/05/pancrazia-al-salone-il-principe-tigre.html.
http://www.radiocole.it/2020/05/pancrazia-al-salone-lautore-invisibile.html.
http://www.radiocole.it/2020/05/pancrazia-al-salone-il-gran-finale.html.

Vi piace il cinema? Ogni domenica pomeriggio sulla pagina de Il Morandazzo c'è un appuntamento imperdibile: Il buono, il brutto il cattivo. Alle 17, Massimo Pica (il Morandazzo) e Federico Basso parlano di film belli (il buono), brutti (il brutto, of course) e imperdibili (il cattivo!). Tanto cinema e parecchia simpatia. Sarò anche di parte, essendo strettamente imparentata con il Morandazzo, ma per me questo è diventato un appuntamento irrinunciabile.
https://www.facebook.com/ilmorandazzo/.

Da qualche mese ho una nuova passione: i podcast. Un mezzo di comunicazione e diffusione della cultura che ho imparato ad amare e spero, presumibilmente dal prossimo autunno, anche ad utilizzare personalmente (spoiler!). Le proposte sono infinite ma il mio preferito per ora è Pilota, di Alice Alessandri, Alice Cucchetti e Andrea Di Lecce. Tutto dedicato alle serie tv. Una manna per quelli malati come me.
https://www.querty.it/show/pilota/.

E, come sempre, concludo con l'EVENTO dell'ANNO! Vabbè magari anche un po' meno. Più onestamente: il mio progetto dell'anno. Il Laboratorio Condiviso di Scrittura. Un esercizio ogni due settimane. Può partecipare chiunque. Si può partecipare quando si vuole e quante volte si vuole. È completamente, assolutamente, meravigliosamente gratuito. In questi giorni è in ballo l'undicesimo esercizio, scrivete, bella gente, scrivete!
http://www.radiocole.it/2020/06/undicesimo-esercizio-scrittura-tempo.html


Durante quest'avventura, che è il Laboratorio Condiviso di Scrittura, ogni tanto bisogna prendere una pausa, rilassarsi, continuare sì a scrivere ma in maniera più libera, meno impegnata.

È a questo che serve la Scrittura a Tempo, efficace fil rouge di questo laboratorio. Esercizio che vi ripropongo periodicamente, quando ritengo che sia il momento giusto.

Come ogni volta, avete dieci minuti di tempo: puntate la sveglia. Partite dall'incipit che vi darò e da lì scrivete, scrivete, scrivete. Senza mai fermarvi, senza mai correggere, senza mai rileggere, senza mai tornare indietro. Continuate così fino alla sveglia. Al suo trillo avrete davanti a voi un testo unico, che potrà essere una poesia, un racconto, un monologo, un flusso di coscienza, qualsiasi cosa sia scaturita da questo "esperimento". 

Potrete già spedirmi quel testo, senza correzioni o correggerlo, modificarlo, utilizzarlo come l'inizio di un lavoro più ampio. Fate come vi pare!

Ecco l'incipit per questa volta:
"Non l'ho mai raccontato a nessuno...
Ricapitolando: puntate una sveglia che suonerà dieci minuti dopo. Scrivete partendo da questo incipit. Quando suona la sveglia metteteci un punto. E poi, riletto il risultato, decidete che farne: spedirmelo così com'è, correggerlo, ampliarlo, modificarlo. Avete piena libertà di scelta.

Buon lavoro e a presto!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: dai 100 ai millemilioni di caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 14 giugno 2020, ore 12.

Volete leggere i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.
Poco ispirante o troppo difficile, chi lo sa? Fatto sta che il decimo esercizio del laboratorio Condiviso di Scrittura ha visto una partecipazione limitata ma, come sempre, preziosa.

Quindi per questa settimana abbiamo solo tre racconti: uno mio, uno di Beppe e uno di Marianna, partecipanti appassionati di questa avventura, che ringrazio con tutto il cuore. Tre testi diversi accomunati dallo stesso titolo L'amico immaginario.

Buona lettura!


Iniziò tutto all’età di quattro anni. Me ne stavo solo nella mia cameretta e facevo lunghi discorsi col mio amico Gianni. Il mio amico speciale, che solo io potevo sentire e vedere. I miei genitori mi lasciavano fare perché secondo loro era indice di intelligenza, io facevo il possibile per evitare di parlare con Gianni in loro presenza.

Crescendo, Gianni cresceva con me. Mi consigliava cosa fare, quali persone evitare per non mettermi nei guai, mi suggeriva le risposte alle interrogazioni, mi teneva compagnia nei momenti in cui ero da solo, ed erano tanti. Non sono mai stato un ragazzino troppo socievole, ma avevo ottimi voti a scuola ed i miei genitori non si preoccupavano, l’importante per loro era che io fossi educato, studioso e sereno.

Vennero i tempi delle scuole superiori, e Gianni era ancora con me. I miei compagni di scuola mi consideravano un tipo un po’ strano e mi lasciavano in pace. Anche gli immancabili bulli non provavano interesse per me, perché li avevo corrotti suggerendo le risposte durante i compiti in classe ed aiutandoli nello studio. Ero come in una bolla, il cui accesso era precluso per tutti tranne che per Gianni.

Gli anni scorrevano tranquilli, tra ottimi voti, vacanze noiose in compagnia dei miei genitori e lunghe chiacchierate con Gianni. L’università non cambiò di molto il mio stile di vita. Gianni era sempre con me, e grazie alle sue geniali intuizioni ottenevo ottimi voti. L’ultimo anno di università lo passai praticamente chiuso in casa, scrivendo la tesi che Gianni correggeva, suggerendomi modifiche o aggiunte che avrebbero reso più brillante e scorrevole la mia presentazione.

Uscii dall’università con il massimo dei voti, i miei genitori erano davvero orgogliosi di un figlio tanto brillante e colto, i miei compagni di corso mi videro sfilare via dalle loro vite immediatamente dopo la tesi, per non farvi più ritorno.

I mal di testa iniziarono circa due anni dopo, quando ormai ero inserito nel mondo del lavoro, con delle mansioni tecnico-scientifiche che mi consentivano di lavorare da casa, senza contatti con colleghi o capi.

Erano delle fitte lancinanti, posizionate proprio dietro gli occhi. Talvolta erano così violente che la vista si appannava, costringendomi a sdraiarmi al buio. Gianni però era sempre lì e mi sussurrava parole di conforto, che mi portavano a lunghi sonni ristoratori.

Una mattina avvenne: stavo facendo una doccia, quando il mondo divenne buio. Mi risvegliai in un letto di ospedale, con mia madre in lacrime che mi teneva la mano ed un dottore che parlava a mio padre, il quale ascoltava con un’espressione che non gli avevo mai visto. I medici individuarono una massa scura all’interno del mio cervello. Fortunatamente la massa era facilmente raggiungibile, e decisero che la chirurgia era l’opzione migliore.

Quando mi svegliai avevo una sete terribile ed ero molto debole e spossato, ma i mal di testa erano svaniti, insieme a Gianni. Provai a sussurrare il suo nome per diversi giorni ma non ottenni risposta. L’amico di una vita era svanito insieme alla massa tumorale nel mio cervello. Quando mi resi davvero conto della portata di tale evento, piansi come non avevo mai fatto. Adesso ero davvero solo.

Questo mi portò a reagire. Adesso, a distanza di dieci anni, ricordo a malapena la sua voce. Mia moglie dorme accanto a me, un bicchiere di latte potrebbe aiutarmi a fare lo stesso. Mi avvicino alla camera di mio figlio, lo sento parlare. Nascosto vicino all’uscio, sento che parla da solo, come se ci fosse qualcuno in camera con lui. Lo chiama Gianni.

Beppe Carta




Mio fratello aveva un amico immaginario che si chiamava Caccoloni.
Caccoloni era un’ombra, che vestiva sempre dei completi scuri con camicia bianca. Quando appariva, la cravatta era immancabile ed aveva lo stesso colore cangiante del completo: entrambi assumevano infatti tutte le possibili tonalità di nero/grigio, così che Caccoloni poteva mimetizzarsi nell’oscurità e mostrare solo la luminosa chiara camicia ed i bianchi occhi scintillanti.
Mio fratello se ne vergognava un po’. Avrebbe preferito di gran lunga che il suo amico immaginario sparisse per sempre ed ogni volta che si accorgeva di lui nascosto tra le onde delle sue scarpe preferite provava sempre a calciarlo via.
Mio fratello se ne vergognava soprattutto quando si incontrava con me e con nostra cugina, cioè quando anche i nostri amici immaginari si incontravano.
La mia amica immaginaria si chiamava Avventura ed era una vecchiettina canuta e permanentata, dagli occhi curiosi e sperduti, con uno zaino da viaggio coloratissimo sempre in spalla. Lo zaino era una composizione di totem, incastrati in maniera magistrale – un gufo, un cervo, un lupo, un piccolo orso - ritrovamenti speciali durante i suoi innumerevoli viaggi in ogni continente. Era l’essenza, in definitiva, della mia anima un po’ svampita e della mia voglia di viaggiare.
L’amica immaginaria di mia cugina, invece, si chiamava Luna. Le sarebbe stato senza dubbio meglio il nome Spavento, perché era una bambina tremante, così simile alle immagini della Piccola Fiammiferaia, la ragazzina di strada della rivoluzione industriale, sola, con una pezza stretta sulla testa, il grembiule, la lampada a cherosene. Ed ogni volta che le veniva rivolta parola saltava in aria dalla paura o si nascondeva dietro qualcosa.
In particolare aveva una paura matta di Caccoloni, così scuro e tetro. Quando ci incontravamo, lei non si faceva vedere. Si fingeva un nuovo totem dell’enorme zaino di Avventura od addirittura ci si nascondeva dentro. Caccoloni si sentiva così respinto ed in colpa... per essere sé stesso.
La paura di Luna, era indice – non so come – del bullismo di mia cugina nei confronti di mio fratello. 
Piccole cose, chewingum sui vestiti, sgambetti, brutti nomignoli, prese in giro.
Caccoloni, all’ennesimo chewingum ed all’ennesima richiesta da parte di mio fratello di sparire dalla sua vita, decise di cambiare. Era tutta colpa sua.
Una settimana aveva cercato di tingersi la nuca color arcobaleno. La settimana successiva aveva dismesso l’abito nero per sostituirlo con i pantaloni colorati comprati sui banchetti al mercato sudamericani etnici, insieme al flauto di Pan in offerta. La settimana successiva si era messo le lenti colorate.
Luna continuava però a nascondersi ed a nascondersi, in luoghi sempre più particolari. Oramai l’etichetta di brutto, tetro, sporco e Mostro, a Caccoloni, non gliel’avrebbe tolta più nessuno. Nonostante l’animo dolce, combattivo, docile e l’amore per mio fratello.
Che continuava a cercare di calciarlo via.

Adesso sono tutti spariti. La mia Avventura urlandomi in faccia che era stufa di stare in casa con i miei genitori. Luna ha finito il cherosene e non si è vista più.
Eppure, io mi ricordo, mio fratello aveva un vero amico – immaginario - che si chiamava Caccoloni.

“Ci aveva tormentato a lungo il dubbio su chi era un mostro e chi non lo era, ma da un pezzo poteva dirsi risolto: non-mostri siamo tutti noi che ci siamo e mostri invece sono tutti quelli che potevano esserci e invece non ci sono, perché la successione delle cause e degli effetti ha favorito chiaramente noi, i non-mostri, anziché loro.”

Marianna Palmerini



Sono accanto a Jimmy da quando era piccino. Era ancora nella culla quando facevo tintinnare nelle sue orecchie campanule fatate. Stava seduto sul prato avvolto stretto nelle fasce, quando gli raccontavo di mosche che navigavano nello stagno su grandi foglie ed erano costrette a scappare da terribili rospi. Poi, quando cominciò a camminare gli parlai a lungo di quei tre fratelli che avevo conosciuto molte vite orsono e della mia passione per i bottoni. Infine, era già più grandicello, più o meno 5 o 6 anni di quelli che contate voi, quando credetti che fosse giunto per lui il momento di provare a prendere il volo saltando dalla finestra. L'esperimento non riuscì, Jimmy si ruppe un braccio e, arrabbiatissimo, smise di parlarmi.

Furono anni noiosissimi, io continuai a bisbigliarli all'orecchio ma lui non volle più rispondermi. E così feci di tutto per attirare la sua attenzione. Le campanule divennero prima campanelli e poi graziose fatine dai caratteri dispettosi. Le mosche crebbero fino a diventar grandi quanto pirati, le foglie galeoni e i rospi coccodrilli. Persino i bottoni cambiarono e si fecero baci. Le provai di tutte ma Jimmy si mostrò persino più caparbio di me.

Finalmente però venne il tempo dell'Accademia e per lui fu tale la solitudine nei primi giorni che, pur di aver di nuovo un amico, alla fine decise di perdonarmi.
"Ce ne hai messo di tempo" gli dissi seduto al fondo del suo letto.
"Peter, mi sono quasi ammazzato per te!"
"Quante storie, sono passati anni e tu sei ancora vivo e vegeto. Forse, quella volta, non abbiamo usato abbastanza polvere di fata, la prossima andrà meglio"
"Hai la testa piena di storie e, per colpa tua, ora ce l'ho piena pure io. Papà dice che non mi serviranno a niente nella vita!"
"I papà sono noios..." mi interruppi quando vidi la luce del corridoio accendersi e il custode spuntare sulla porta. "Ehi tu, James Matthew Barrie" disse indicando il mio amico "torna a dormire!"

Jane Pancrazia Cole

Come vi avevo già annunciato, sabato pomeriggio ho partecipato a una diretta Facebook dedicata al cinema degli anni '80.

Eravamo in 5. Chi quel decennio l'ha vissuto da bimbo e chi da ragazzo.  Ognuno di noi ha "portato" due film dell'epoca a cui è particolarmente legato. E una pellicola che, per ragioni diverse e sicuramente opinabili, detesta. 

Quindi no, non è stata una tavola rotonda dedicata ai più grandi capolavori cinematografici di quel periodo e neanche un compendio esaustivo dell'argomento, ma una chiacchierata tra amici che hanno ricordato sensazioni e sentimenti degli ormai lontanissimi anni '80. 

Se vi va di recuperare l'evento – perché la mia presenza in una diretta Facebook può considerarsi tale – andate a questo link e buona visione!


Per questioni anagrafiche e culturali sono un'esperta di cinema anni '80. E sciorinerò tutta la mia conoscenza domani, sabato 30 maggio, alle ore 17 in una diretta su facebook.

L'appuntamento è con il format C'era una volta il Cinema che potrete seguire sul mio profilo o sul profilo di Morandazzo. Una tavola rotonda semiseria – molto semi e poco seria – che vedrà partecipare gente bella bella che, molto probabilmente, finirà con l'accapigliarsi parlando di Dirty Dancing!

Preparate glitter e rossetti rosa shocking gli anni '80 stanno tornando!

La 127 verde prato arrancava su per la collina. Giovanni era andato al Sant’Anna a prendere Lucia e il loro piccolino appena nato.

La strada era scivolosa a causa della neve caduta pochi giorni prima, spifferi di aria gelida entravano nell'abitacolo, mentre le ombre si allungavano e il sole si preparava a tramontare.

Lucia, stretto il piccolo in una copertina, tremava per il freddo ma anche per la paura, "Sarà una brutta notte" disse fissando il tetto della villa che s'intravedeva più su lungo la strada ...

Continua...

La splendida foto è di Alessandro Bonvini, CC BY 2.0.
E il mio racconto continua sulle pagine di TorinOggi.

Siamo già arrivati al decimo esercizio, DECIMO. Accipicchia, vola il tempo quando ci si diverte! Il Laboratorio Condiviso è nato a gennaio e in questi mesi vi ho proposto incipit, finali, facce, nomi, illustrazioni e persino oggetti. Tutti spunti che voi avete usato per raccontare splendide storie.

Ma, in mezzo a tutto questo cucuzzaro di roba, manca una cosa, ovvia, che non abbiamo ancora usato, parte stessa di ogni racconto o poesia che si rispetti: il titolo. Evocativo o meno è la presentazione di un testo, lo identifica, ci permette d'intravederne il contenuto come sbirciando da una porta socchiusa.

Questa settimana ne ho scelto uno, uguale  per tutti voi. L'amico immaginario sarà il titolo dei vostri componimenti, racconti, poesie, monologhi, che siano.

Lasciatevi ispirare dai ricordi d'infanzia, dai libri che avete letto, i film che avete visto, le storie che vi hanno raccontato, gli sguardi che vi osservano da sopra le mascherine. Le possibilità sono infinite, sfruttatele!

Prima di augurarvi buon lavoro, come sempre, vi ricordo che, per dubbi o perplessità, sono a vostra disposizione, sul blog, via email e sui social. Sono Jane Pancrazia Cole, anche detta SempreConnessa.

Buona scrittura a tutti, spero di leggervi presto!

Tipo di testo: qualsiasi (racconto, poesia, flusso di coscienza, etc…).
Lunghezza testo: dai 100 ai 3600 caratteri, spazi inclusi.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 31 maggio 2020, ore 12.

Volete leggere i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.
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