Questo post è stato un parto.
Sarebbe dovuto uscire lunedì o, al massimo, martedì, ma sono stata travolta dalle cose da fare, ho dovuto (o mi hanno fatto) scegliere le priorità e, quindi, questa splendida raccolta di storie vede la luce solo oggi, venerdì. Era ora!
Noi partecipanti al Laboratorio Condiviso di Scrittura ci siamo ispirati a una foto di William Eggleston (questa qua) e ne abbiamo tirato fuori racconti e poesie.
Il Laboratorio è ormai agli sgoccioli, a pensarci mi viene un po' di tristezza e tanta tanta riconoscenza nei confronti di coloro che hanno partecipato, ci hanno creduto, e hanno avuto la generosità di regalare le loro bellissime storie. Ma è ancora presto per gli addii. Per ora, buona lettura!
sigaretta e dialogo,
attendendo il momento
per voltarsi
Il momento giusto
per mostrare
i falsi diamanti
tra i capelli
Ma di certo
il tutto stonava
con l'ambiente:
perle e fast food
Perché sono qui,
ella pensava
mentre egli beveva
il suo caffé
Almeno qui,
non come al Ritz,
si può fumare
senza dar scandalo.
Beppe Carta
“Allora, che te ne pare, ragazzo mio?”
Mi fissava, fumando la pipa. Noi due non andavamo molto d’accordo, a quei tempi. Mio padre era molto preoccupato per le mie velleità artistiche, temeva che interrompessi definitivamente gli studi. Ci avevo provato già un paio di volte, era sempre riuscito a convincermi. Quel regalo era un altro tentativo di rabbonirmi. “Scatta i tuoi rullini in spiaggia il sabato pomeriggio e finisci l’università” Era il messaggio implicito di quel regalo inatteso.
“Bella, p. Grazie davvero”.
Solo che a me non interessavano le ragazze in bikini. E neppure i paesaggi al tramonto, con i riflessi del sole sull’acqua increspata. Disprezzavo quella roba. Amavo i dettagli. Bidoni della spazzatura rovesciati sul marciapiede, gatti randagi che annusavano lische di pesce, un uomo fermo al semaforo che alzava le braccia al cielo, la bocca spalancata. Le pieghe smeraldo della gonna della bibliotecaria. I colori attorno a me, ovunque, saturavano lo spazio, pulsavano nell’aria, vibravano nelle mie ossa. Volevo questo, dalla vita, catturare la carne del tempo.
Ovviamente, avevo lasciato il college. Mia madre aveva pianto una notte intera, mio padre si era chiuso nel suo dolore e non mi rivolgeva più la parola. Mia sorella Lizzi si era affacciata alla porta della mia camera:
“L’hai fatta grossa, stavolta, eh? Papà non te la farà passare liscia.”
“Non preoccuparti, domani levo le tende”
La bolla rosa di chewing gum le era esplosa in faccia.
“Fai schifo” le avevo detto.
“Mai quanto te. Dici che mi permetteranno di trasferirmi in camera tua?”
Sentivo il corpo della Leica premere sulle mie gambe. Nella notte, i fari dell’autobus accecavano di bianco le case della pianura, accese da piccole finestre gialle, in cui probabilmente famiglie come la mia si stavano preparando per la cena.
“Vuoi bere, ragazzo?"
Il mio vicino era un uomo gigantesco, con un ingombrante cappello da cowboy di feltro rosso. La bottiglia che stringeva in mano si stava svuotando con una certa rapidità.
“No grazie, signore, non bevo”.
L’ uomo aveva riso di gusto:
“Per il momento”
“Come, signore?”
“Per il momento non bevi, ragazzo, ma hai un’aria talmente stranita e preoccupata che un goccetto ti farà bene, dammi retta. E non preoccuparti per questa” indicando la bottiglia “ne ho un’altra bella piena nella mia sacca”.
Fu una notte memorabile, la prima vera sbronza della mia vita. La mia esistenza galleggiava davanti ai miei occhi, e mi sembrava tutto così importante, bello, pregno di senso. Stavo spiegando al cowboy i miei progetti:
“Perché vedi, quello che mi interessa davvero è fare il fotografo. I colori, anche se a nessuno piacciono perché dicono che non sono così importanti. Ebbene, per dio, per William il sottoscritto, lo sono.
William vuole catturare la carne del tempo. O della vita? Ora non ricordo bene… accidenti, amico mio, tu mi capisci perfettamente”
Le tenebre si stavano dileguando, le stelle nel cielo si spegnavano una ad una, l’azzurro intenso dell’alba mi dava la vertigine, fatto sta che mi sentivo davvero dio all’inizio della creazione, un uomo grande, che poteva cavalcare il suo futuro.
In lontananza, tra gli intrecci delle rotaie delle ferrovie, oltre l’orizzonte, i capannoni e i primi quartieri assonnati, mi apparve il ronzante profilo della mia vita nuova, il mio cuore pulsante: New York City.
“Mi ha sempre colpito questa foto della nuca della donna. Mi potrebbe dire come ha deciso di fare il fotografo?"
Questa domanda me la fanno sempre, ogni volta che mi intervistano. Cerco sempre di cambiare discorso.
“È stato un caso, come avviene quasi sempre per gli scatti migliori, come lei mi insegna. Mi trovavo in un ristorante di lusso, probabilmente era Broadway, mi trovavo lì per una cena con un vecchio amico, non stavo lavorando, quando improvvisamente la vidi, mi colpì immediatamente, non saprei spiegarle il motivo”
L’intervistatore cela uno sbadiglio, fingendo di grattarsi il naso. I racconti del vecchio William, che ha un piede già nella fossa, devono essere una grande scocciatura. Ogni tanto scruta il suo aggeggino multicolorato, in attesa, chissà, di qualche messaggio più interessante dei miei racconti del passato, quando c’erano ancora le pellicole.
“Come mai un’inquadratura così insolita, per quei tempi?”
Il ragazzo sembra molto orgoglioso di questa sua affermazione, mi sta dimostrando di conoscere la storia della fotografia, anzi, la preistoria.
“Non saprei. Mi ha colpito la sua acconciatura, la delicata simmetria, la grazia e lo splendore che emanava il retro di questa creatura deliziosa. Tutto qui.”
“E la donna, come l’ha presa?”
“Che io l’abbia fotografata di spalle? Oh, lei non lo ha mai saputo. Era una perfetta sconosciuta”.
Leslie spinge lentamente la mia sedia a rotelle, con cura, per evitarmi dolorosi sobbalzi.
“Allora, com’è andata la tua intervista?”
Anche se inizia a fare freddo, ci siamo concessi una passeggiata in giardino. L’inverno è alle porte. Leslie si inginocchia, mi copre con dolcezza i piedi gonfi con un plaid, leggo la preoccupazione negli occhi, fingo di non accorgermene. Mi soffermo piuttosto sulla sua nuca. Oramai i suoi capelli sono tutti bianchi, e meno folti. Continua a farsi quelle acconciature incrociate, dal basso verso l’alto, e usa dei fermagli per fissarli in geometrie complicatissime, inverosimili. La prima volta che l’ho vista, di spalle, è stato un colpo di fulmine. A lei non l’ho mai confessato, ma mi sono invaghito prima del suo didietro. Non credo la prenderebbe bene.
Perché, quando l’ho vista di spalle, ho immediatamente pensato: ecco, questa è la carne del mondo. O era la carne del tempo? Accidenti, mi confondo sempre.
Barbara Fiore
Certo tu penserai che ho cominciato anche io!
Chi lo avrebbe mai detto?
I gesti ripetuti e i vizi comuni,
non sono mai stati il mio forte.
Forse saresti soddisfatto.
Ma no! Che dico!?
Saresti compiaciuto.
Fuori tempo massimo
sono diventata come volevi...
La decisione sofferta
di lasciare che i capelli si facessero argento,
l'ho fatta con te.
Tutto sembrava procedere nella direzione segnata.
Niente dava l'idea del tracollo.
Solo qualche subdola sensazione sotto le unghie.
Apparentemente, in un istante,
hai fatto la tua dichiarazione plateale,
con un pubblico ristretto.
E non sei più tornato in scena.
Forse non sei mai neanche uscito dal tuo camerino,
dove potevi giocare a cambiarti le maschere,
raccontandola a te stesso.
Oggi ho fatto spazio al collo,
come si addice ad una ballerina tardiva.
L'ho fatto per le perle, che terrò per me,
perché i porci volanti non sanno cosa farsene.
Indosso come promemoria tre cristalli nello chignon.
Tre medaglie che brillano per fare luce
su questi miei nuovi primi passi.
Chi sta davanti a me, sostiene il suo gesto
con la mano del cuore.
Ed io gli faccio da specchio,
giocando con timore.
Sirena Aliena
Voce fuori campo femminile
Ehy, voi!
Ma cosa guardate? Me? Vi vedo, che mi fissate!
Lo so che siete curiosi di saperne di più. Chi sono? Cosa sto facendo?
Volete vedermi in faccia? Provate. Girate, girate intorno al vostro schermo, al vostro telefono, al vostro computer. Cosa vedete?
(breve pausa di silenzio)
Niente.
(scoppio di risa – risata di pancia)
Geniale, il mio amico William (Eggleston n.d.r), ho sempre apprezzato il suo umorismo.
Chi sono? Sono una persona NOR-MA-LE. Ho il mio lato luminoso, visibile. Ed il mio lato “altro” che non voglio svelare. No, no, non lo voglio proprio far vedere. Sia benedetto il mio William.
(breve pausa di silenzio)
(voce scocciata) Siete ancora tutti lì? Sempre a fissarmi?
(breve pausa di silenzio)
Lo so per certo che siete curiosi.
(si sente lo scatto di un accendino)
Buio.
(Voce fuori campo maschile) Il Lato luminoso.
(Sopra un telo al lato destro del palco viene proiettato un video. Una donna di schiena che cucina. Improvvisamente appare un uomo, che la bacia su una guancia e se ne va.)
(Voce fuori campo maschile) Il Lato oscuro.
(Sopra un telo al lato sinistro del palco viene proiettato un altro video. Si vede da dietro la capigliatura sciolta della donna, la testa leggermente piegata indietro ed appoggiata su un muro ribassato. Sul lato opposto uno specchio, chiaramente un bagno di un locale, in cui è riflesso un uomo, di schiena, accovacciato.)
Buio.
Luce sulla foto iniziale.
Voce fuori campo femminile
(Triste) Ebbene, vi è piaciuta la storia che vi ho raccontato?
Vi ho raccontato la verità, tutta la verità.
(breve pausa di silenzio)
Oppure no?
(scoppio di risa – risata di pancia -
si sente lo scatto di un accendino)
Buio.
Marianna Palmerini
- Giulia, ci sei?! Hai ascoltato tutto?! Vuoi aggiungere o cambiare qualcosa?!
- No caro, tutto corretto, risposi sorridendo.
Edoardo era una caro amico oltre che il mio notaio.
Era un bell'uomo.
Non ci avevo mai fatto caso prima,
probabilmente perché lo conoscevo da quando eravamo bambini o forse perché quella sarebbe stata l'ultima volta che lo avrei visto.
- Bene, allora se non hai ripensamenti lo mando in stampa. Oggi la segretaria ha preso il pomeriggio libero e devo controllare che non si inceppi nulla, dammi qualche minuto.
Tornai ai miei pensieri.
Il testamento era pronto, solo da firmare.
Avevo lasciato tutto a mia sorella e ai suoi tre figli.
Ad Anna la casa in città e a Manuela quella al mare.
A Francesco la piccola azienda tessile.
Lavorava con me già da qualche anno,si occupava dei fornitori, dei dipendenti e delle spedizioni coadiuvato dai vari capo reparto. Era sicuramente in grado di prendere le mie veci.
A mia sorella il conto bancario, i vari investimenti e i gioielli.
Avevo avuto una vita piena, nessun rimpianto, o almeno niente di importante.
Non mi ero mai sposata, non mi interessava farlo, né tantomeno avere figli.
Mi ero sempre permessa tutto quello che mi piaceva.
Viaggi, ristoranti di lusso, case, un'azienda che godeva di ottima salute, tanti amici con cui uscire o da invitare a cena.
Ma sopratutto mi ero dedicata alla mia passione.
Volare!
Da bambina passavo interi pomeriggi con la testa all'insù per scorgere il passaggio degli aeroplani, invidiando i piloti che si godevano la maestosità del cielo infilandosi tra le nuvole.
Ricordo come fosse ieri il mio primo volo da solista con il Cessna 172 e il mio istruttore che ogni volta mi diceva che ero troppo bassa nella discesa.
Poi d'un tratto mi intristii al pensiero di come il tempo scorra velocemente.
Non potevo permettermi ripensamenti.
Uscita dallo studio sarei andata in hangar, avrei tirato fuori il mio Stearman, controllato i livelli di olio e carburante, le tele delle ali e il movimento degli alettoni.
Tolto il copri pitot e salita a bordo.
Messo in moto al minimo per scaldare il motore.
Temperature ok.
Prova motore ok.
Prova magnete ok.
Rullaggio e partenza.
Prima di uscire di casa avevo controllato l'orario delle EFFE MERIDI per non lasciare niente al caso.
Avrei volato per un paio d'ore facendo qualche piccola acrobazia; looping, otto cubano, vite e poi mi sarei rilassata godendomi il tramonto sul mare.
Il carburante sarebbe finito poco prima che facesse buio e avrei planato dolcemente fino a inabissarmi.
Non potevo e non volevo permettere a uno stupido cancro di farmi lasciare questo mondo attaccata a un respiratore.
Dal momento che, secondo i medici, mi rimaneva solo qualche mese di vita, volevo anche decidere quando sarebbe stato il mio ultimo giorno.
In quel mentre rientrò Edoardo.
- Fatto, non ti rimane che firmare il testamento, disse ad alta voce quasi volesse scuotermi dai miei pensieri.
Mise il documento firmato in una cartelletta, spense il computer, sistemò la scrivania mentre io tiravo fuori dalla borsa il pacchetto di Chesterfield, ne sfilai una per metà, l' avvicinai a Edoardo e gli dissi:
- Ho un appuntamento inderogabile ma prima ci fumiamo insieme l'ultima sigaretta ?
Antonella Carta
da piangere piano o piangere forte,
ma mai da piangere in pubblico, sfacciata,
nasconditi in casa, chiudi tutte le porte
Di perle ne porto due giri, con orgoglio,
arrivata alla mia età non ne faccio mistero
le ho piante tutte anche senza un motivo vero
ed ora mi è rimasto solo il cordoglio.
Nel mio cuore porto il ricordo del mio compianto marito
e tra le mani accolgo ancora chi lo uccise,
la accosto alle labbra con il movimento di rito
Mi ricordo ancora la prima volta che me la accese
la sigaretta della stessa marca che poi lo vide seppellito
Un giro di perle lo piansi per lui,
e in fondo fu giusto, fu lui ad avermelo regalato
ma non lo amai mai,
perché mi costrinse a dedicarmi al suo colletto inamidato
Una vita costretta da passare in cucina,
una vita di ‘sì’ e ‘grazie’ da brava bambina
Una vita fatta di doveri e mai gioie
eterni silenzi e laceranti noie
Signore e signori io son la moglie perfetta,
il modello classico con la targhetta ancora intatta
La notte piangevo per tutto ciò che avrei potuto fare
di giorno sorridevo e contavo le ore
Ora sono libera, ma senza prospettiva
mi avveleno il cuore pensando a tutto ciò che mi serviva
alla carriera mai partita
alle risposte schiette
che ho ingoiato con la stessa disinvoltura con cui aspiro da queste sigarette
Perché se mi hanno insegnato bene ed istruito
su come essere moglie e a volte a farmi anche da marito
ho imparato che a farlo bene, a modo loro, veramente ad applicarsi
una donna, per soffrir meno, fa prima ad impiccarsi.
Marina Alice Cibin
Le servo il caffè tutti giorni da almeno un mese. Dove sia stata per tutti questi anni non ne ho idea. Probabilmente si è nascosta ed ora che è libera, che il viso invecchiato è la migliore delle maschere, ora può tornare ad andare in giro per le strade di questa Los Angeles che le ha dato tanto ma le ha tolto anche di più.
Ci ho messo un po' a riconoscerla, il viso è pieno di rughe, ma quegli occhi, quel sorriso sono sempre uguali. Inizialmente pensavo di avere le traveggole, colpa di mio padre e di tutti quei film che mi faceva vedere da piccina. Mia madre era gelosa ma come si fa ad essere gelose di una dea? Una dea la si ammira e basta.
Chissà come ha fatto a far credere una cosa e invece a scivolar via di nascosto quel 4 agosto del '62? L'avranno aiutata. Ma chi? Non ho il coraggio di chiederlo, ho paura che se sapesse che l'ho riconosciuta non si farebbe vedere mai più. E quindi la osservo, la servo e la coccolo come la più cara delle clienti.
"Sarà solo una che le somiglia" mi ha detto mio marito l'altra sera. Ma che ne sa lui? Lui non l'è stato accanto, non ha sentito il suo profumo che si mischiava a quello del caffé, non ha osservato la piega perfetta delle guance solo un po' appesantita dagli anni.
Lei si è lasciata invecchiare felice e contenta, non ha neanche un ritocchino ma ha conservato un po' di genuina vanità. Porta i capelli sempre acconciati con cura, le unghie laccate e al collo una collana di perle grosse come sassi.
Spesso con lei c'è anche un uomo che la guarda con occhi tanto innamorati da far tenerezza, lei gli dedica i suoi sorrisi più dolci ma niente di più. Gli uomini si innamoreranno sempre di lei, fino alla fine, non ci si può far niente.
"Si sono innamorati in tanti" mi dice, leggendo i miei pensieri mentre le rabbocco la tazza. "Ma mi ha amata davvero solo uno"
"Il giocatore di baseball?" mi lascio sfuggire incuriosita.
Per un attimo ci guardiamo negli occhi, entrambe sorprese, lei di esser stata riconosciuta, io di esser stata tanto sciocca da averglielo fatto capire.
Trattengo il fiato. Lei mi sorride.
Poi paga il conto e si alza per uscire.
"Tre rose ogni giorno" mi sussurra prima di andare via. "Chissà se meritavo tanto?"
"Sì" dico alle sue spalle curve "Sì, non ne dubiti mai. Le hanno dato tanto ma mai abbastanza".
Jane Pancrazia Cole