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Ieri abbiamo dedicato la giornata a una boulangerie, un mercatino delle pulci e il centre de Pompidou. 

La prima per fare una colazione dolce al volo, alla faccia dei ristoranti vietnamiti. 

Il secondo, quello di Saint-Ouen per la precisione, perché Marito potesse sfogare la sua passione per i vinili. Abbiamo passato le ore tra antiquariato, arte contemporanea, modernariato, un cacciatore di autografi, un collezionista di puffi, poster di moda, tappeti e poi mille milioni di rivenditori dischi. 
Mentre Marito ampliava orgoglioso la sua collezione, io gironzolavo tra i mobili con Edith Piaf di sottofondo e i proprietari che mi salutavano "Bonjour Madame" "Au revoir Madame". Che c'è poco da fare, il "Madame" francese ti fa sentire subito Catherine Denueve, mentre il nostro "Signora" fa millenaria a cui cedono il posto in autobus. 

Il Centre de Pompidou è stata la nostra meta pomeridiana. 
Marito e io, durante i diversi viaggi, abbiamo sviluppato una collezione di musei di arte moderna e contemporanea che abbiamo molto amato, alcuni scoperti per caso altri con cognizione di causa. Come il Berardo a Lisbona e il Mass Moca in Massachusetts, per dirne due. Quindi non ci siamo potuti esimere da una visita al Pompidou per poi svaligiarne lo shop. Perché io non lo so se esistono le anime gemelle o cose così, ma trovare qualcuno con cui condividere le stesse passioni e scegliere senza difficoltà le stesse mete in vacanza è di certo una gran cosa.

Ieri abbiamo iniziato la giornata con una colazione francese... In un ristorante vietnamita. 
Il cappuccino faceva schifo e il conto era una rapina a mano armata, ma chi l'avrebbe mai detto! 

In compenso il pain au Chocolat era buono. Quello è sempre buono. Amo i francesi e la loro relazione passionale col burro. 

Ieri era domenica e pure il primo maggio, musei e molte attrazioni erano chiuse, e così noi ci siamo lanciati in una passeggiata lungo la Senna. 
Km dichiarati dalla guida: 16. 
Km percepiti da noi: all'anima chitemmuort! 

Dopo tutta la scarpinata che, comunque, per la cronaca, è stata molto bella, Marito e io abbiamo deciso di tornare in camera un paio d'ore per riprenderci. 
"Tu riposi e io lavoro" gli ho detto con fastidiosa sicumera. 
Un minuto dopo stavo russando come uno scaricatore di porto alcolizzato. 

Abbiamo chiuso la serata con un giro tra le viuzze del quartiere latino fino all'imponente Notre Dame, ancora parecchio acciaccata ma sempre affascinante. E di sera ancora di più! 

Poi, con questi 30 000 passi in saccoccia siamo nuovamente svenuti in camera. 
"Non sopravviveremo" ha detto Marito, un secondo prima di perdere i sensi. 
"Forse ma moriremo con dei glutei di marmo!" gli ho risposto io.

Sono tornata a Parigi dopo 20 anni dalla mia prima visita. 
All'epoca faceva freddo e feci il viaggio di ritorno con la febbre a 40 e le placche in gola, resa completamente inabile dagli spietati germi francesi. 

Questa volta fa caldo ma lungo i tunnel della metro si creano delle gallerie del vento, che levati proprio. Inoltre, è ancora in corso una pandemia mondiale quindi... chissà se questa volta tornerò! Ma voglio essere ottimista: Parigi è bella come sempre ed è ora di godersela.

E d'imparare a farsi i selfie come si deve.

Addio Fantasmi. 
Nadia Terranova. 
Edizioni Einaudi.

Una storia di perdita, lutto e immobilità. 
Una donna che torna a Messina, nella casa dei suoi genitori, per ritrovare il passato e, appunto, cercare di dare l’addio ai propri fantasmi. 

“Conosco” Nadia tramite blog e social da almeno 10 anni, ne ho seguito le evoluzioni, la crescita lavorativa ma, in effetti, non avevo mai letto un suo libro. Mancanza a cui ho rimediato ascoltando l’audiolibro di Addio Fantasmi. 

Nadia Terranova ha un tipo di scrittura sofisticato e mai banale, racconta la sua terra e il passato in maniera coinvolgente. Nadia ha un tipo di scrittura non così facile e neanche essenziale, come io, personalmente, prediligerei. 

Non mi ha sorpresa, quindi, che la mia immersione nelle vicende narrate in Addio Fantasmi sia stata lenta. A un certo punto, però, complice anche la voce di Elena Radonicich, è stata inevitabile. E, inevitabilmente, questo viaggio narrativo nella Messina di adesso e di 10, 15, 20 anni fa ha risvegliato in me ricordi. 

A Torino appartengo a una vastissima tribù, quella dei nati al nord da genitori del sud. I miei arrivano dalla provincia di Palermo. Quelli di Mary, la mia migliore amica, dalla provincia di Messina. 

Io sono quel tipo di persona che viene insultata dai piemontesi che, pensando di farmi un complimento, dicono: “Non sembri per niente del sud”. E questo è molto insultante. E da quelli del Sud che ci tengo a farmi notare critici che “Non sembri per niente del Sud”. L’Italia si unisce in questa necessità di dare opinioni non richieste, ancor più se sono opinioni spiacevoli. Che meraviglia. 

Comunque Mary era la donna del sud per eccellenza: pelle scura, fianchi generosi (il suo più grande cruccio, ogni estate, nei camerini dei negozi del centro), tutta la famiglia ancora a Gioiosa Marea. Famiglia che visitava rigorosamente almeno una volta l’anno. Io, invece, la mia l’ho sempre avuta tutta al nord e in Sicilia ci sono stata una manciata di volte, nel paese dei miei solo una. 

Mary ed io ci siamo conosciute al liceo. Vicine di banco per caso. Riconosciute nelle somiglianze, unite nelle differenze. Nord, Sud, pragmatismo, spiritualità, un misto di esperienze comuni, anni trascorsi, racconti reciproci. 

Addio Fantasmi parla di quella parte di Sicilia che per me appartiene a Mary e alla sua famiglia. Addio Fantasmi parla di perdite e lutti. E Mary io l’ho persa, e con me gli altri, ormai 8 anni fa. E così in piedi in cucina, con le cuffie e il libro nelle orecchie, mi sono sentita a casa, riconosciuta nel dolore e nella mancanza. Ospite in un luogo sconosciuto ma caro. Persa tra quella nostalgia e quella speranza, che non risparmiano nessuno neanche quelli come me. Quelli che non credono ma sperano delle volte di sbagliarsi per avere un giorno la possibilità di un ultimo caffè, un’ultima condivisione.


“Per il mio bene”
. 
Raccontare la propria vita senza filtri. 

Ema Stokholma, per chi non la conoscesse, è una dj e un personaggio televisivo italo francese. Una ragazza altissima, piena di tatuaggi e dall’accento a dir poco inconfondibile. 
Fino a poco tempo fa, per me, era più che altro un’ex concorrente di Pechino Express per cui, onestamente, non provavo nessuna particolare simpatia. Poi, per caso, complice l’ultimo Salone del Libro di Torino, ho scoperto brandelli della sua storia e qualche giorno fa ho ascoltato il suo libro. 

So già cosa starà pensando qualcuno di voi: “Ecco, a questa raccomandata le hanno pubblicato un libro solo perché è già famosa”. Sicuramente l’essere una faccia nota avrà aiutato l’impresa, non ne dubito. Ma Ema Stokholma aveva una storia importante da raccontare e non si può dire altrettanto di molti autori, regolarmente pubblicati e unanimemente riconosciuti. 

Ema ha avuto un’infanzia da incubo, cresciuta da una madre violenta e instabile. Picchiata e umiliata regolarmente. Con un padre italiano che l’ha abbandonata ancora prima che nascesse. E un fratello vittima quanto lei, impegnato quindi, quanto lei, a sopravvivere un giorno dopo l’altro. 

Ema, che in realtà si chiama Morwenn, a 15 anni è scappata, ci aveva già provato più volte da bambina, ma finalmente da adolescente è riuscita nell’impresa. È scappata da colei che, nel libro, mai definisce madre ma sempre Mostro. Un paio di All Star, la fedele musica nelle orecchie e un treno per ricominciare. 

È arrivata in Italia, a Roma, è stata qualche giorno da Antonio, l’inutile padre, per poi iniziare una vita indipendente e senza freni. 
È stata per anni una ragazza in giro per l’Europa tra lavoretti, furti, rave e droga. 
Ha vissuto a lungo una vita confusa, drammatica, appassionata, instabile ma anche piena di legami e amici, destinati a diventare quella famiglia che non aveva avuto prima. 

Ora Ema sta meglio, è cresciuta, ha chiuso con le droghe, ha seppellito sua madre e ha ritrovato suo fratello. Una storia così però è destinata a lasciare dei segni e lei così continua il suo percorso, nel tentativo di guarire da tutte le ferite accumulate negli anni, trovare finalmente lo psicanalista giusto e, come le dice la sua amica Andrea (Andrea Delogu, credo), smettere di accontentarsi di essere una sopravvissuta. 

Ema ha scritto questo libro per raccontare la sua storia e quella di tutti i bambini maltrattati nell’indifferenza altrui. “Non fatevi i fatti vostri” chiede. E così leggere il suo libro o ascoltarlo, come nel mio caso, è quasi un dovere. 
Un dovere doloroso. All’inizio ho fatto fatica, le descrizioni delle violenze subite sono esplicite e fanno male allo stomaco. Ma se ce l’ha fatta una bimba di 7 anni a subirle e a sopravvivere, ce la possiamo fare pure noi ad ascoltarle. Perché se non si è fatto nulla per le vittime nel momento in cui erano tali, il minimo che si possa fare, in quanto essere umano degno di questo nome, è ascoltare con attenzione e rispetto il racconto dei loro dolori, per prenderne consapevolezza e, quando e se capiterà, non farci i fatti nostri. 

Lo stile è asciutto, la storia genuina e affilata. Il libro consigliatissimo. 

ps: l'audiolibro è letto dalla stessa Ema. Per me è un valore aggiunto.

Dopo "Big Magic" di Elizabeth Gilbert (https://bit.ly/3nVlsbc) continuo il mio percorso tra i libri dedicati alla creatività, alla vita creativa, al lavoro creativo, con "I veri artisti non fanno la fame" di Jeff Goins. 

Autore, blogger, imprenditore, praticamente la mia fonte d'ispirazione suprema in questo momento della vita. In tutta onestà, però, non ho trovato questo libro irresistibile. Utile, interessante ma, a tratti, un po' fiacco. Ad attirare davvero l'attenzione solo le parti che riguardano gli aneddoti degli artisti. Da Michelangelo fino ai musicisti di nicchia, Jeff Goins porta ad esempio una varietà di creativi, di successo o meno. 

La scrittura, lo ripeto, non è travolgente ma gli argomenti trattati sono fonte di grande ispirazione per chi, come me, vive, lavora, guadagna di creatività. 

In definitiva, consigliato ma non troppo.

I veri artisti non fanno la fame. 
Strategie senza tempo per prosperare nella nuova era creativa.
Autore Jeff Goins.
Antipodi Edizioni.
Negli ultimi mesi mi è sbocciata un'inspiegabile passione per le lingue. 

Io di base parlerei italiano, inglese (discretamente) e tedesco (strarrugginito!). Per farvi capire, non ho difficoltà a guardare film o serie in inglese, ma ho provato a guardare Dark in tedesco e mi volevo sparare.

Comunque, da qualche mese a questa parte, sto ripassando l'inglese e rispolverando il tedesco ma anche riprendendo da capo il francese, di cui avevo fatto solo un inutile corso regionale anni fa, e affrontando per la prima volta pure lo spagnolo. Già che ci sono. 

Ho tempo di fare tutto ciò? No. 
Lo faccio comunque? Certo! 
Volete mettere il piacere di scoprire che in spagnolo "il topo" si dice "el raton". Cioè "el raton", vi rendete conto? Io, nei momenti di sconforto, ci penso e rido tantissimo.

"Ragazzi, mi dispiace ma sono positivo". 
Sono iniziati così, con questo messaggio in un gruppo whatsapp, 16 giorni indimenticabili. 

Niente di originale, ci sono passati in molti durante le feste. Ma Marito ed io abbiamo vinto il bonus di trascorrere i suddetti 16 giorni nella nostra tanto desiderata casa nuova, talmente nuova da essere ancora senza cucina, senza porte e con il citofono fuori uso. 

Dal 29 dicembre al 14 gennaio. 
Isolamento preventivo da contatto con positivo, diversi test rapidi negativi, "Va tutto bene", due giorni di febbre, "Sarà solo una banale influenza", improvviso mal di gola bastardo, "Staremo isolati qui per sempre e non riusciremo mai a finire la casa, il mondo ci odia!”. 
Due test molecolari (1 a testa) fatti in mezzo al nulla nebbioso e malaugurante di Orbassano. Positivi. "Te l'ho detto che il mondo ci odia!". 
Di conseguenza,10 giorni di isolamento obbligatorio. Intanto passa tutto, per fortuna, mai stati così in forma, mai stati così annoiati. 
Ordiniamo la spesa online, non funziona il citofono, non si apre il portone, "La lasci lì, arrivoooo" urla Marito bardato come in CSI. Non c'è il frigorifero, "Tutto sul balcone". Mangiamo pane formaggio e prosciutto oppure pane prosciutto e formaggio. 
Il mio compleanno agli arresti domiciliari, "Tanti Auguri!". Ci vuole qualcosa di caldo, mamma Cole cucina, papà Cole (ultraottantenne) consegna, non funziona il citofono, non si apre il portone, "Lascia tutto lì, non ti avvicinare, per l'amor di Dio!" intimo da dietro la FPP2, che mi rende innocua ma in cambio mi manda in cancrena le orecchie. 
Passati 10 giorni dal molecolare, ci mettiamo in coda davanti alla farmacia. Entro dopo Marito, "Le ha pagato lui il tampone" fa ammiccante il farmacista. Sono definitivamente passati i tempi in cui gli uomini mi offrivano da bere. Quanta amarezza. 
Test fatti, attendiamo i risultati, "Ci vorrà un'oretta". Arriva un'email molto prima, "Non si apre, cellulare maledetto!", un'ansia che neanche ai tempi dell'università. Negativi! "Siamo liberi! Vai a prendere il cane! Non rientrerò mai più a casa, metti in moto e giriamo per la città, guarda com'è bella Torino, c'è anche il sole, la vita è meravigliosa!" 

È passato un mese abbondante, ora abbiamo la cucina, un citofono funzionante e persino le porte. Ma che esperienza indimenticabile è stata. 

Questo testo è dedicato a cuggi, l'untore inconsapevole divorato dai sensi di colpa, e a Elena, costretta in pochi metri quadri a un passo dall'esaurimento nervoso. 

(*) Il cane ha approfittato del nostro isolamento per soggiornare dalla nonna. 
(**) Sì, i virgolettati più isterici sono tutti miei.
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