Radio cole
  • Home
  • Laboratorio di Scrittura via Newsletter
  • Adelina
  • Il Mio Progetto
Il giorno dopo il funerale, appena sveglia, mamma mia mi disse: “Ormai te si fatta grande, è ora che te metti a faticà e che la smetti de startene sempre in giro. Che se te becco ancora a fare la vagabonda te ne do tante ma cuscì tante, che nun te siedi pe na settimana!”
La buonanima di nonna Ada le aveva insegnato a ricamare quando era solo una bambina. Lei aveva fatto lo stesso con Lucia. Ed ora era venuto anche il turno mio.

“Nun so capace”, frignavo col collo storto su una tovaglia.
“Abbiamo imparato tutte, lo farai pure tu.”
“Nun è roba pe me”, insistevo con i diti che mi facevano male e l’umore nero.
“Nun dire fesserie: tu ce l’hai nellu sangue. Tutte le femmine della famiglia mia so ricamatrici.”
“Vor dire che io ho preso dalla famiglia dellu babbo, allora”, ribattevo litigando col filo che mi si attorcigliava tutto e mi faceva uscire pazza.
“Zitta, lavora e nun me fare arrabbià!”
Mai come in quei primi giorni sognai di essere nata maschio con un bel uccello tra le gambe che mi permettesse di farmi i fattacci miei in giro e di lavorare all’aperto. Avrei preferito di gran lunga la fatica dei campi alla tortura del lino, ma purtroppo tra le gambe non avevo un bel niente ed anzi mi stava pure cominciando a crescere il petto.

Io non ci avevo proprio pensato che la vita mia, dopo la morte del babbo, sarebbe cambiata così tanto. Credevo solo che senza di lui saremmo state tutte più serene, mica che mi sarei ritrovata chiusa in casa col sedere incollato alla sedia e gli occhi alla stoffa. Una vita così mi sembrava pure peggio delle botte e, dopo quasi due mesi, mentre mia madre stava fuori a dare da mangiare alle galline e Lucia era al lavatoio con le lenzuola, io feci il giro da dietro la stalla e quatta quatta me ne scappai via. Mica pensavo di non tornare più e di andarmene chissà dove. In realtà non pensavo proprio niente, non m’ero fatta dei progetti o cose così. C’avevo avuto l’occasione, m’avevano lasciato la porta della gabbia mezza aperta ed io ero corsa via. Come la solita bestia che ero.

Ci misi mezza giornata per trovare gli amici miei: al frutteto grande non ci stava nessuno, la casa di Ines era stata tutta sbarrata, e nel bosco rosso c’erano solo i Casotti a caccia di lepri.
Ormai stavo quasi per perdere la speranza quando trovai Teo e Giovanni dietro alla cappella del camposanto. Quei due angioli, tutti corna e zoccoli, stavano cacciando le lucertole. Le pigliavano per la coda, gli davano una bella sassata sulla capoccetta verde, le aprivano in due e poi le svuotavano come dei pescetti.
“Ma che schifezze fate?”
“Guarda nu poco chi ce sta: la sartina nostra”, disse Teo.
“Sartina ce sarà sorella tua.”
“Ma nun eri a faticà?”, mi chiese Giovanni.
“Me so presa na vacanza. Dove so li altri?”
“Li altri chi? Ormai nun ce sta più nisciunu. Semo rimasti solo li mejo”, mi rispose Teo tutto soddisfatto.
“E Maso?”
“Babbo suo se l’è preso a bottega, cuscì l’ha finita de darsi tante arie quellu scemo. E pure Bastiano sta pe i campi a faticà come nu mulo.”
“E Pino?”
“Coglie frutta co lu zio.”
“De già? Ma lui è ancora piccoletto.”
“Nun c’ha più lu babbo e mo deve pensarce lui alla famiglia sua.”
“Gli è morto lu babbo pure a lui?”
“No, nun è morto, se lo so’ portato via.”
“Chi?”
“E che ne so.”
“Ma perché?”
“Quante domande fai Adelì! Perché era nu cojone che nun sapeva starse zitto, cuscì m’ha detto lu babbo mio.”
A quei tempi di queste cose non ci capivo niente ma a pensare che qualcuno s’era portato via il Signor Mariotti, che con me era gentile e a Pino gli diceva sempre “Ad Adelì la devi trattare bene che è na signorina”, mi sentì pungere gli occhi, così girai i tacchi e lasciai quei due alle torture loro.
“Do vai Adelì? Tu ce poi stare co noi, mica s’imbranata come quello scemo de Gino”, cercò di fermarmi Giovanni.
“Lasciala stare a quella. Noi nun c’abbiamo bisogno de nisciunu. De nisciunu! Le femminucce c’hanno lo stomaco troppo delicato”, mi urlò dietro Teo e scoppiò nella sua brutta risata, che era uguale uguale al verso di un porco.

Quei due avrebbero passato tutta la vita assieme. Il gatto e la volpe. Il braccio e la capoccia. Lo scemo e il cattivo. Se ne andarono via dal paese negli anni ‘60, prima un poco di tempo nell’alta Italia e poi in Germania.
Teo è morto vecchio e grasso, con più soldi che capelli, una casa grande quanto una chiesa e una macchinona che manco quelli del cinematografo. Giovanni, invece, è andato al Creatore a quarant’anni senza uno spicciolo in saccoccia ma con un bel buco tra gli occhi vuoti.

Con lo stomaco ancora tutto girato andai a cercare Gino al forno di famiglia e lo trovai che giocava per strada con i fratelli suoi più piccoletti.
“Ce ne andiamo a farce nu giro?”, gli chiesi.
“Certo”, mi rispose tutto contento.
“Vieni in casa Gino”, si mise di mezzo la mamma sua. Un donnone col petto enorme e il carattere da generalessa.
“Ma stavo pe famme nu giretto co Adelina.”
“Vieni in casa, ho detto, nun me lo fare ripetere. Co l’amica tua ce ne devo parlà io.”
Lui mi guardò e sollevò le spalle: “Me spiace, ce vediamo n’altra volta”, e strascicò i piedi fino al cancello di casa.

“Vie qua ragazzè”, mi fece segno la signora Fiorucci, con le mani sui fianchi e le ascelle puzzolenti in bella vista.
Io, che già lo sapevo di non starle simpatica proprio per niente, mi avvicinai con la faccia scura e una gran voglia di litigare.
“Perché dai fastidio a lu figliolo mio?”
“Nun glie do mica fastidio.”
“E nun me rispondere, sa!”
“Ma se nun devo rispondere che me lo chiede a fa’?”
“Gino mio è nu bravo figliolo e nun se deve rovinare a girare co una come a te! Staglie lontano, capito?”
Una come me?
C’avevo solo dieci anni, ero più candida di un lenzuolo di bucato e quella stronza mi chiamava “una come a te”?
Con la faccia rossa di rabbia e gli occhi che buttavano fuoco gli urlai con tutta l’aria che c’avevo nel petto: “Ma chi lo vole allu figlio suo? Se lo pò tenere stretto alle tettone quel piscialletto de Gino. E poi lo sanno tutti che li Fiorucci c’hanno l’uccello piccolo e nun li vole nisciunu!” e scappai via di corsa.
Come si permetteva quella di trattarmi così? Quanto volte avevo salvato il sedere a quell’imbranato del figliolo suo? Non lo sapeva lei? Non sapeva che ero io che avevo preso a sassate il vecchio della vigna, quando questo aveva trovato Gino a fregarsi l’uva e l’aveva rincorso con un fucile? Non sapeva che ero io a fargli da scaletta quando quel culo pesante non riusciva a salire sugli alberi? Non sapeva che ero io che mi fermavo ad aspettarlo quando nelle corse rimaneva dietro a tutti, si teneva la mano sul fianco e manco ce la faceva a respirare?
Quella non sapeva niente ma dava lo stesso aria ai brutti denti marci suoi.

Avevo avuto proprio una bella idea a prendermi quel giorno di vacanza: a casa mi aspettava mamma con le mani che le bruciavano dalla voglia di farmi nera di schiaffi e io avevo passato comunque una giornata talmente schifosa che quasi quasi mi mancava il ricamo. 


S’era ormai fatto buio ed io me ne stavo ferma davanti a casa di Ines, a fissare la macchia scura di sangue dove c’era rimasto secco babbo mio, quando l’aria fredda che scendeva dalle montagne portò un puzzo che non sentivo da due mesi. Prima sentì l’odore acido e poi il respiro pesante dietro di me. Il sangue mi si fermò nelle vene ed il cuore mi salì fino al collo.

A voglia a non crederci agli spiriti, “E’ tornato lu babbo a prenderme pe portarme dalli diavuli”, pensai.

Continua...

 Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6-7- 8

La vita è un domino.
Una serie di coincidenze che ti fanno andare da un posto all'altro, da un incontro all'altro.
A te viene chiesto solo di continuare a muoverti, dire molti "Sì", e pochi ponderati "No".

Ad esempio, se lo scorso autunno... anzi no, è necessario che io parta ancora prima.
Ad esempio, se nel 2000 non fossi andata a festeggiare quel Capodanno in quel posto e con quella gente, quasi 14 anni dopo non avrei riconosciuto quel nome tra i protagonisti di uno spettacolo. E non sarei andata a vedere tale spettacolo.

Se lo scorso ottobre non fossi andata a quella serata, non avrei scoperto nuovi incroci e casi incredibili. Inoltre, la settimana seguente, non sarei andata a vedere un altro show. Show che, in realtà, non ebbe luogo poiché c'era più gente sul palco che in platea.
Ma, del resto, se quello spettacolo si fosse fatto probabilmente non sarei andata a bere quella birra, non avrei accresciuto il mio numero di contatti su facebook e, mesi dopo, non avrei visto il trailer di facce da palco sulla mia bacheca.
Di conseguenza, non avrei scritto "Tu, per caso, conosci qualcuno dell'organizzazione?"
E, dopo 10 secondi, non mi sarei trovata in chat con Nathalie Bernardi, madre, presentatrice, folle ispiratrice di tutto l'ambaradan.
Quindi, il giovedì seguente, non ci saremmo viste. E io, sicuramente, non sarei diventata la blogger ufficiale del talent.

Se tutto ciò non fosse accaduto io non avrei incontrato tutta la bella gente che ho incontrato e sabato scorso, molto probabilmente, non mi sarei trovata alla prima di "Non di sola parola". 
Uno spettacolo fatto di danza, musica, poesia, immagini, luci, ombre, e parola. Ma non di sola parola, appunto.
Teatro danza arricchito dai versi di Alda Merini. Ispirato al suo talento e alla sua sofferenza. 

Foto di Sergio Sasso

Quattro donne, con il corpo e le voci, ci hanno raccontato parte della sua storia.
Una storia di dolore, sensibilità, e maternità.
Un dolore femminile e vivo.
Una femminilità sensuale, fatta di naturalezza e gioco, mai squallido calcolo. 

Le parole e la vita di Alda Merini sono un ricco patrimonio.
La compagnia teatrale delle paperelle scampate (Nathalie Bernardi, Sabrina Fraternali, Deborah Gallo),  con la partecipazione di Francesca Puopolo, la supervisione di Marilisa Bruno, le musiche di Emanuele Francesconi e Valentina Faith Guida, i video di Simone Tizzi, e le luci di Lorenzo Privitera, riesce in uno studio che è un omaggio. Una trasposizione che si fa dolorosa carne.

"Non di sola parola" è un'ora che incanta, scava e, allo stesso tempo, vola via.
Io non lo so se i genitori miei siano mai stati innamorati o se il babbo c’abbia mai almeno provato a fare il buon marito ed il buon padre. Anche se è successo mamma non me ne ha mai parlato ed io, comunque, non me lo ricordo.
Quello che ricordo è un uomo grosso ma una persona piccola piccola che quando morì non fu pianto da nessuno. Né da sua moglie né dalle sue figlie.

Noi eravamo una famiglia di disgraziati e il babbo era il più disgraziato di tutti. Era arrivato in paese con un bel sorriso sul muso e quattro spiccioli in saccoccia. Il nonno, lo sa solo il Signore perché, l’aveva subito preso in gran simpatia e se l’era messo a lavorare assieme. “Osvaldo farà cose grandi”, diceva.
Il babbo aveva ricambiato la cortesia e la fiducia portandosi per fratte l’unica figlia del nonno e, per fare le cose per benino, l’aveva pure ingravidata. 
I genitori miei si sposarono di corsa, non per amore, non per dovere, ma solo perché una femmina disonorata e uno spiantato sono destinati ad essere una coppia perfetta. Una coppia perfetta d’infelici.
Quella prima creatura gli occhi non li aprì mai, ma la mamma s’inguaiò comunque per tutta la vita e al nonno, dal dolore e la delusione, si spaccò il cuore in due e in poco tempo volò pure lui tra gli angioli.

Il babbo di voglia di faticare non ne ha mai avuta molta e, appena si ritrovò ad essere l’unico uomo di casa, non gli parve vero di poter mettersi a fare tutti i porci comodi suoi. I primi anni si bevve i soldi lasciati dalla buonanima del nonno e poi col tempo iniziò a bersi pure le bestie. Un ovetto per un quartino. Una gallina per un fiasco di quello buono. Ed un giorno d’estate, che doveva averci proprio una grande arsura, si svendette tutti i conigli. Cinque bestiole grasse, con il pelo morbido e le cosce sode. Quando mamma trovò la gabbia vuota uscì pazza: iniziò ad urlare, bestemmiare e darsi dei gran pugni sulla capoccia. A quei tempi Lucia ed io eravamo proprio piccolette e ci infilammo di corsa sotto al lettone per restarci un’ora buona, sporche di merda e piscio dallo spavento.


Al funerale in chiesa non ci stava quasi nessuno.
Al primo banco c’eravamo solo noi tre, con gli abiti neri e le facce serie che, con tutte le botte che c’eravamo prese due giorni prima, non facevamo una gran fatica a fare lo sguardo sofferente. Anzi, ci veniva proprio naturale.
Subito dietro si erano sistemate le vecchie della parrocchia, un gruppo di vedove stagionate che non si perdeva manco una messa e stava culo e camicia con Don Felicino, un poco per devozione e un poco perché il prete, bello, alto e con lo sguardo malandrino, faceva venire loro le fregole. Che a vedere quelle quattro stregacce fare peggio delle ragazzine alla loro prima botta era una cosa da far rigirare lo stomaco.
Quel 13 marzo del 1933, per l’occasione, arrivarono anche le pettegole della piazza. Non che a loro fregasse qualcosa della famiglia mia, ma vennero solo per vedere quanto fosse brutta la bara. Una cassa di assi di legno grezzo che il Comune pagava per quelli che, come noi, non c’avevano neanche gli occhi per piangere.
“Quel legno nun è bono manco pe cocere le caldarroste”, dicevano.
“Pare fatta de carta.”
“Che vergogna.” 
“Gliel’avranno messe le scarpe?”
“E lu vestito?”
“Ma certo. Che lo mettono in terra nudo come nu pupo?”
“Perché no? Cuscì li vestiti se li vendono tutti.”
“E dove lu trovano uno che se compra quelle quattro pezze puzzolenti?”
“Povere ragazze, come faranno mo senza lu babbo loro?”
“Come farà lei a crescere du figlie da sola?”
“La piccola è già mezza persa, ma magari la grande c’ha la capoccia sulle spalle.”
“Ma hai visto quant’è bella? Una cuscì c’ha già lu destino segnato.”
“Che famiglia disgraziata.”
“Che gran pena.”

Ci stanno persone che godono della miseria degli altri, soprattutto quelli che a malapena mettono assieme il pranzo con la cena ma che, a vedere chi sta peggio, si sentono meno morti di fame.
Ci stanno persone che godono delle tragedie degli altri e se con una mano pregano per te, con l’altra ti tengono la testa sott’acqua fino a quando non torni a galla tutto blu e con gli occhi rivoltati all’indietro.
Ma le peggiori sono quelle che non c’hanno neanche la buona creanza di dire cattiverie a voce bassa durante un funerale. Queste c’hanno proprio il cuore grande come l’osso d’una cerasa e l’anima nera come il carbone della stufa.

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6-7
Una collaborazione simile era già stata realizzata alla fine dello scorso anno.
Ve ne ricordate? Eccola qua!

Questa volta cambia il tipo di racconto e la disegnatrice, ma non lo spirito di divertimento e sperimentazione. Io ci ho messo la storia. Gli altri tutto il resto.
E grazie agli altri, che sono troppi da nominare ma i cui nomi potrete leggere nei titoli di coda, Luca e Giovannina hanno preso vita, forma e voce.

Io, in questi momenti, mi sento come J.K.Rowling alla prima di Harry Potter. Una J.K. povera, sconosciuta, ma tanto gnocca che vede i propri personaggi diventare indipendenti. Un po' come dei figli che lasciano casa. Da una parte li vorresti rincorrere con la maglia di lana, dall'altra sei orgogliosa dei loro nuovi percorsi.

Ora basta con le chiacchiere e spazio alle immagini.
Buona visione!



Quella casa, dimenticata dal Signore ed ignorata da tutti da quasi un anno, era il posto perfetto per noi. Metà degli scalini erano marci, i vetri alle finestre rotti e, dentro i pochi mobili rimasti, si potevano trovare tante bestie diverse: ragni grossi come pagnotte, qualche lepre di passaggio e parecchi sorci.
A noi un posto così pareva meglio del paradiso.
Ci passavamo le giornate cacciando gli animali e sfidandoci per vedere chi fosse il più coraggioso e chi il più fifone. Gino, ovviamente, perdeva sempre e gli toccava continuamente pagare pegno. Tra nocchini dietro gli orecchi, scappellotti, pizzicotti e schiaffoni, quel poveraccio era sempre tutto un livido ma non si arrendeva mai, perché era pure capoccione oltre che piscialletto.
Una volta lo chiudemmo da solo là dentro e ci mettemmo a fare i versi degli animali, e chiamarlo con certe vocette maligne che avrebbero fatto cacare addosso anche un uomo fatto e finito. Lui si fiondò fuori pochi minuti dopo, bianco come un morto e con i capelli dritti in testa.
“L’ho vista! L’ho vista!”, urlava con la faccia da pazzo.
“Che hai visto?”
“Ines!”
“Chi?”
“Lo giuro: era appesa co li occhi aperti e la lingua de fora.”
“Tu si tutto scemo, quella sta sotto terra da mo. Che fa? Vene fora giusto per vedere lo brutto muso tuo?”
“Allora era nu spirito. Ma io l’ho vista, so sicuro!”
“E che faceva?”
“Me guardava fisso.”
“E nun te diceva gnente?”
“Gnente.”
“Nun t’ha detto manco: ma guarda che sfortuna, ho lassatu lu dimonio pe incontrare lu piscialletto?” lo prese in giro quella carogna di Teo. E noi, più carogne ancora, tutti giù a rotolarci in terra dal ridere.

Gino, oltre a prendersi uno spavento che quasi ci rimaneva secco, dovette anche pagare pegno: un calcione nel di dietro da parte di tutti. Tutti tranne me.
“Adelì, tocca a te”, mi chiamò Maso ed io mi sforzai di mettere su la migliore faccetta d’angiolo, “No, pe sto giro passo. S’è già preso tanta paura che nun c’ho voglia de farci pure male, poveretto a lui.”
Gli altri mi guardarono sorpresi ma non dissero nulla. I maschi si credono tanto furbi ma in fondo sono anime semplici, e non sono capaci di capire quando ad una femmina gira qualche idea particolare per la capoccia.

Era da un po’ che volevo togliermi una curiosità. Quindi, ritornando a casa, aspettai di restare sola con l’amico mio e nel bosco gli dissi: “Oggi nun t’ho tirato nu calcio anche se t’avrebbe fatto bene.”
“Grazie, Adelì.”
“Ma grazie de che? Nun me basta mica nu grazie.”
“No? E che voi? Mica c’ho gnente io.”
“Qualcosa veramente ce l’hai.”
“Cosa?”
“Prima me devi promette che nun dici gnente a li altri.”
“Te lo prometto.”
“Se, mica me fido cuscì. Me lo devi giurare croce su lu core.”
“Te lo giuro croce su lu core. Nun dico gnente a nisciunu manco se me schiacceno li diti o m’attaccheno pe li orecchi.”
“E se te mannano dietro lu cane rognoso della Pazza o te affogano nellu fiume?”
“Cacchio, Adelì, nun lo so mica se te la posso promette na cosa cuscì.”
“Nun si obbligato, pensavo de poterme fidare, ma piscialletto si e piscialletto rimani.”
“E va bene. Te lo prometto, croce su lu core: nun parlo manco se mi schiacceno li diti, mi attaccheno pe li orecchi, me mannano dietro lu cane rognoso o m’affogano nellu fiume. Mo me lo dici che voi?”
“Sì, famme vedere l’uccellu.”
“Ma che si matta?”
“Me l’hai promesso.”
“Col cavolo! T’ho promesso che nun dico gnente mica che te faccio vedere l’uccellu.”
“O l’uccellu o nu calcio.”
“E che c’entra?”
“Nun t’ho fatto pagà pegno pe vedere l’uccellu tuo, ma se fai tanto lu prezioso allora almeno lu calcione te lo devi pigliare. Queste so le regole, è tanto semplice.”
Io ero minuta, ma scalciavo peggio di un mulo e così Gino ci pensò un attimo e poi si abbassò i pantaloncini.
“Tu c’hai la capoccia tutta stramba. Ecco. Guarda.”
Fu una vera delusione.
“Tutto qua?”
“E che t’aspettavi?”
“E’ piccolo.”
“Ma che ne sai tu? E’ giusto pe l’età mia.”
“Si sicuro? A me me pare proprio piccoletto.”
“Tu de uccelli nun ce capisci gnente! Carlo dice che noi Fiorucci ce l’abbiamo tutti grosso e pure lu mio diventerà bello grande.”
“Fratello tuo diceva pure che lui faceva all’ammore co Annarella, ma lei nun se lo filava proprio. Quello ne dice tante de fesserie.”
“E che c’entra questo mo? E poi facevano pe davvero all’ammore, ma Annarella nun lo voleva far sapere alli genitori sua.”
“Comunque è brutto.”
“Carlo nun è brutto.”
“Ma che me frega de Carlo. E’ l’uccellu tuo che è brutto!”
“Ma che dici? E’ n’uccellu. Li uccelli c’hanno tutti sta faccia qua.”
Erano mesi che avevo questa curiosità. Abitavo in campagna ed avevo visto quello degli animali ma pensavo che quello degli uomini fosse diverso. Un poco speciale. Ed invece non era speciale proprio per niente.
Mi sembrava impossibile che un coso così potesse fare tanta differenza e che a babbo mio bastasse quel dito mollo per comportarsi da padrone. Certo che, nel caso suo, anche due mani grosse come badili lo aiutavano parecchio.
“Ora che t’ho fatto vedere lu mio, tu devi farme vedere la tua.”
“La mia che?”
“Lo sai. Quella cosa là.”
“Te si scemo! Nun ce penso proprio!”
“Però nun è giusto, tu lu mio l’hai visto.”
“E capirai che bello spettacolo!”
“E dai, solo nu secondo. Che te costa?”
Eravamo così presi dalle chiacchiere nostre che non lo sentimmo manco arrivare. Non facemmo caso né ai passi pesanti né al puzzo. Spuntò alle spalle mie e Gino scappò via coi calzoncini ancora calati e l’uccello accartocciato dalla paura.

“C’ho la figlia mignotta!” urlò babbo mio, caricandomi sulle spalle come un sacco di patate.
Mi trascinò fino allo stradone, gridando e sbatacchiandomi di qua e di là come un capretto, tanto che io finì pure per vomitargli sulle scarpe.
In mezzo alla gente che ci guardava schifata lui continuava a sputare veleno, “baldracca come tutte le femmine”, “chi t’ha imparato certi giochetti? Quella madonnina infilzata de sorella tua?”, “ce penso io a raddrizzarte!” diceva, riempiendomi di vergogna e mortificazione.

Arrivati a casa si scatenò il finimondo e, tra insulti e cinghiate, quella fu la serata peggiore della vita mia.
Babbo tirava colpi alla cieca: “Volevi fare nu servizietto all’amico tuo?”
Mamma si metteva in mezzo, “Lasciala stare che cuscì me l’ammazzi”, e ne prendeva pure lei.
Lucia cercava di tirarmi via, “Basta! Basta!”, e rimediava spinte e ceffoni.
Io mi coprivo la capoccia con le mano e aspettavo solo che tutto finisse, “Nun ho fatto gnente! Nun ho fatto gnente! Lo giuro!”, gridavo.
Ma più rispondevo e più lui s’incazzava: “Anche lu coraggio de parlare c’hai?”
Dopo un tempo infinito di quel manicomio il babbo mi buttò nella stalla, “Tra le vacche devi dormire, é quello lu posto tuo!”, e se ne tornò a bere con gli amichetti suoi, pacifico come se non fosse successo niente.

Passai quella notte sulla paglia, stretta tra la mamma che bestemmiava dalla rabbia e Lucia che piangeva per lo spavento. Tutte e tre rannicchiate sotto una coperta sola a cercare il caldo delle bestie come il bambinello nella capanna.

All’alba arrivò il maresciallo.
Il babbo e quegli ubriaconi degli amici suoi non avevano trovato niente di meglio che andare a far danni nella casa di Ines.
Mentre lui pisciava contro il muro, una pietra si era staccata dall’alto e gli era finita dritta sulla capoccia. Gli altri avevano urlato e chiesto aiuto, il farmacista era sceso di corsa ma non aveva potuto far niente.

Osvaldo Carretta era morto di colpo, senza un lamento, con le brache calate, le scarpe sporche di piscio e vomito, e la testa aperta come un cocomero.

Ad Ines il babbo non era mai piaciuto.

Continua...

Prologo - 1 - 2 -3-4-5-6
L'ultima serata.
L'ultimo parcheggio da cercare.
L'ultimo momento imbarazzante sul palco.
Gli ultimi abbracci.
Le ultime emozioni.

Facce da Palco è un'avventura che ho iniziato per caso, in uno dei periodi più assurdi e schizofrenici della mia vita.
Facce da Palco è stata la salvezza, l'appuntamento irrinunciabile, il divertimento, la scoperta.
Facce da Palco è finito. E ora vi racconto come.

Trucco, parrucco, parcheggio. Tutta questa roba la sapete già!
Arrivo al Cafè des Arts. Abbraccio e limono chicchessia. Bevo un mojito. Razzio i salatini del buffet. Prendo posto in prima fila.
Sono pronta.

Per la serata finale il cuore, la mente, la voce, la faccia, ogni parte dell'organizzazione di questo talent sale sul palco. Lo sketch iniziale prevede, infatti, i provini per i presentatori del prossimo anno. Gli aspiranti al titolo sono nuovamente Dragosh, Lothar e Natalia. Nel ruolo di giudici: Francesca, storica capogiuria, ed Elena, la regina del dietro le quinte e della scaletta calcolata al milionesimo di secondo.
Tutti sul palco per giocare, fare festa, salutare il pubblico.
Alla fine Natalia, grazie al grande talento e una pingue bustarella, viene confermata nel ruolo.
Il pubblico ride ed applaude!

L'applauso continua anche per accogliere Christian La Rosa, vincitore della scorsa edizione. L'attore, in onore di questo suo ritorno alle origini, ripropone Incommunicabilifamily, il pezzo che lo portò al successo l'anno scorso.
Parole e musica pe raccontare la famiglia e, soprattutto, la condizione di figlio con tutte le sue sfaccettature oscure e tragicomiche.
Christian è un artista dal grande carisma. Il suo è uno spettacolo complesso e intenso.
Io lo vedo per la prima volta. Mi piace molto. Non mi sorprende che l'anno scorso si sia meritato la vittoria.

E ora?
E ora tocca ai finalisti.
Inizia Cecilia D'Amico.
Oltre agli esilaranti personaggi femminili, questa volta si presenta anche in versione maschile. Porta sul palco Filippo da Desenzano del Garda. Un ingenuo che va in Cina per ritrovare se stesso e finisce col diventare inconsapevole e gioioso schiavo di un coltivatore di riso.
Cecilia è brava ma, se mi posso permettere di darle un consiglio, deve ancora lavorare molto su questo personaggio. Con le due donne si ride fino alle lacrime, con il ragazzino si sorride e basta. Certo, è inevitabile che uno spettacolo non mantenga sempre lo stesso livello, ma con la presenza scenica e l'abilità di scrittura di Cecilia i margini di miglioramento ci sono e devono essere colmati.

Infine, tocca a Caterina e Luca della compagnia A_tratti_brevissimi.
E' la terza volta che vedo il loro estratto da "Dialogo di una prostituta con il suo cliente". Più lo vedo e più ne apprezzo le diverse sfumature. Più lo vedo e più desidero assistere all'intera rappresentazione.
Sono stregata dall'intensità di Caterina, che passa attraverso il corpo e la voce. E dalle diverse facce del personaggio di Luca: fragile, arrogante, infantile, egoista.
Anche questa volta l'esibizione finisce tra gli applausi convinti del pubblico. E l'adorazione ormai sfacciata della blogger.


La scelta non sarà facile. I finalisti portano generi completamente diversi. L'unica cosa che li accomuna è l'innegabile talento. Patrimonio di tutti e tre.

Il pubblico vota.
La giuria anche.

Tutti assieme un'ultima volta.
Natalia annuncia: "Facce da Palco 2014 è vinto da Cecilia D'Amico!"
La comica romana si aggiudica così due serate nella prossima stagione della rassegna Off Stage.
L'amore tra Cecilia e Torino è destinato a continuare appassionatamente!

Parte la festa: baci, abbracci, fiori, risate e la malinconia per una bella avventura ormai giunta al termine.
Potrei lanciarmi in lacrimosi ringraziamenti, ma decido di darmi un contegno. Chi deve sapere già sa!

Ci si rivedrà il prossimo anno?
Credo proprio di sì!

E ora? Ora vado a recuperare la macchina parcheggiata, come al solito, a millemila chilometri!

La brutta esperienza dai Parise fece stringere le chiappe a tutti gli amici miei.
Il babbo mio aveva le mani particolarmente calde, ma non è che quelli degli altri scherzassero.
A quei tempi i figli si crescevano a pane e bastone e non era mica come adesso che, se un bambino combina qualche fesseria, i genitori lo credono sempre un angiolo pure se sulla capoccia porta le corna ed attaccata al sedere c’ha la coda. Una volta le prendevi metà dal maestro e l’altra metà a casa, metà dal parroco e l’altra metà a casa, metà dal vicino e l’altra metà a casa. E spesso, pure se non avevi fatto niente, le prendevi comunque. Giusto per star sereni.
Se i genitori di Augusto si fossero presentati a casa di qualcuno di noi per chiedere soddisfazione, non ci sarebbero bastate le lacrime per tutte le mazzate che avremmo preso.

Per un poco smettemmo di fregare la frutta e fare i prepotenti in giro, e ci dedicammo solo alla casa abbandonata dietro al mulino: il posto perfetto per starcene per i fatti nostri, non metterci nei guai ed essere lasciati in pace dai grandi.
I paesani erano tutti cacasotto superstiziosi e si credevano che quelle quattro mura fossero segnate dal demonio. La maggior parte di loro faceva di tutto per non passarci neanche davanti e, se proprio era costretta a prendere quella strada, si faceva il segno della croce e poi sputava a terra.
Ma a me quel posto non faceva paura, anzi. Lo ricordavo ancora quand’era pieno di vita e soprattutto mi ricordavo la padrona: la levatrice che ci aveva fatto nascere tutti quanti, pure me e Lucia.

Ines era allegra e sorridente, e m’era sempre piaciuta tanto. Perché era amica della mamma, anche se a noi tutto il paese ci guardava con lo schifo negli occhi, perché non si faceva problemi a prendere a male parole il babbo, “che lu diavolo te se pigli!” gli diceva, e pure perché una volta, trovandomi a rubarle le noci, invece di urlare o arrabbiarsi, mi aveva fatto entrare in casa e mi aveva offerto il latte con il miele. Che io una cosa buona come quel latte lì non l’ho più assaggiata. Da quel giorno, se la passavo a trovare, lei mi dava qualche frutto per riempirmi la pancia e poi raccontava a me ed ai bambini suoi delle storie bellissime. Ci faceva sedere tutti e tre a terra, andava ad aprire la cassapanca dove teneva il corredo e da lì tirava fuori un libro con la copertina dura, se lo metteva sui ginocchi con attenzione, manco fosse un tesoro, e cominciava a leggere. Il più piccolo dei figli suoi di solito cadeva subito addormentato. Quello più grandicello, invece, si stufava in fretta e dopo poco andava fuori a giocare col fango. Solo io rimanevo immobile con la schiena dritta e la bocca aperta a bermi tutte quelle parole, pure quelle difficili che non capivo ma che mi piacevano tanto. A quell’epoca avevo sempre la terra che mi bruciava sotto i piedi, ma Ines con le storie sue mi toglieva la voglia di scappare e m’imbambolava come una magia.
La favola che mi piaceva di più era quella di una fornaia “nera come un tizzone e brutta più del peccato mortale”, ma col cuore allegro e la risata sempre in tasca, “Tizzoncino fa l’uovo - dicevan le vicine”. Lei faceva innamorare persino quell’antipatico del Reuccio che all’inizio le sputava addosso ma poi si prendeva una gran botta e cominciava a chiamarla “Reginotta dell’anima mia!”. Quella storia lì me la sarò fatta leggere almeno dieci volte e l’ho imparata così bene che negli anni l’ho raccontata precisa precisa a tutti: Annamaria prima, e figli e nipoti poi.
Altro che principessine frignone o rimbambite, Tizzoncino era capace di mettersele tutte sotto i piedi ste signorine delicate. “Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!” e Tizzoncino regina ci diventava veramente.

Ines era bruttarella, con le braccia grosse e pelose come quelle di un uomo e un bel nasone a patata, ma non se ne dispiaceva: “Nun sarò bella ma ad Alfredo mio piaccio eccome: cinque anni che simo sposati e nun riesce ancora a tenerse li mano allu posto sua”, diceva e poi rideva, rideva forte. La sua risata era come una caciotta fresca: il benvenuto perfetto per i bambini appena venuti al mondo.
Io le volevo bene e da grande sognavo di diventare come lei, con una bella famiglia, un marito gentile ed una lingua tagliente e sfacciata per dire sempre tutto quello che mi passava per la testa.

Ma purtroppo le cose brutte capitano spesso anche alle persone buone ed Ines, nel giro di un anno, perse tutto, pure la risata e la voglia di vivere. Per colpa di una caduta da cavallo e del morbillo, le morirono prima il marito e poi i due figli. La poveretta, dopo aver seppellito anche il secondo dei bambini suoi, smise di occuparsi di se stessa e della propria casa. Venivano giù capelli e mattoni, si formavano crepe ai muri e rughe profonde intorno agli occhi suoi.

Dieci mesi dopo l’ultimo lutto i vicini, preoccupati per il puzzo ed il silenzio, andarono a bussarle. Batterono e chiamarono a lungo ma lei non rispose. Allora si fece avanti il più grande dei fratelli Casotti, quello che chiamavano “lu mulo”, e lui, a spallate e capocciate, buttò giù la porta.
Ines se ne stava lì, triste e sola, appesa al soffitto.

Quel cuore secco di Don Felicino non volle farle il funerale in chiesa e la fece seppellire in un angolino buio del campo santo, lontana dalla famiglia sua e nascosta come una delinquente. Ma, alla faccia del parroco, i fiori su quella lapide senza nome non sono mancati mai. Glieli hanno sempre portati e glieli portano ancora tutte le mamme del paese. E’ diventata una tradizione, un omaggio ed anche una scaramanzia per allontanare la malasorte, che se stai preoccupata per i figli tuoi ci pensa Ines a buttarci un occhio.
Lei non può essere finita all’inferno, come dicevano le quattro vecchiacce della Chiesa, io non ci credo. L’amica mia c’aveva il cuore troppo buono. Secondo me è volata dritta in cielo e la Vergine, appena l’ha vista, l’è andata incontro e le ha baciato prima una guancia e poi pure l’altra. E da quel momento Ines se ne sta là a raccontare favole ai bimbi che devono ancora nascere o a quelli che se ne sono già tornati indietro. La sera poi va dalla famiglia sua, Alfredo se l’abbraccia stretta e le dice in un orecchio “Reginotta, reginotta dell’anima mia” e lei ride, ride forte.
Può venire pure il vescovo in persona a dirmi che non è possibile, che quello che ha fatto Ines è un peccato troppo grave per essere perdonato, ma a me questa idea non me la toglie nessuno dalla capoccia. Lei non solo se ne sta bella bella in paradiso, ma occupa pure un posto importante. Perché almeno dall’altra parte un poco di giustizia ci deve stare.

Continua...

N.d.A. la storia di Tizzoncino, il cui titolo originale è “Spera di sole”, fu scritta da Luigi Capuana(1839-1915) ed è contenuta nella raccolta “Si conta e si racconta”(Muglia Editore, 1913; Pellicanolibri, 1985)

Prologo - 1 - 2 -3-4-5 
"Della pagina dedicata a Torino dovresti occupartene tu"
"Ok. Ma la parte scritta dovresti curarla tu"

E' nata così, un po' per scherzo e un po' sul serio, l'idea di realizzare Humans Torino. Un progetto che, sulla falsa riga di Humans of New York, vuole essere la mappatura dell'umanità che vive, visita, attraversa il capoluogo piemontese.

Che io stia vivendo una fase d'innamoramento nei confronti della mia città credo che sia evidente ai più, e quale miglior omaggio a questa se non la celebrazione dei volti e delle storie che la rendono tanto speciale?

Foto, frasi, dialoghi, e istantanee fatte solo di parole. Tutto questo grazie al lavoro congiunto del talentuoso fotografo Sergio Sasso e della volenterosa blogger Jane Pancrazia Cole.

https://www.facebook.com/humansturin?fref=ts

Visitateci, piaceteci e condivideteci.
Questa nuova avventura ha bisogno di tutto il vostro supporto e del vostro sfacciato affetto. Da parte nostra, noi ci metteremo buona volontà, molestie ai passanti e tanta voglia di raccontare.

Post più recenti Post più vecchi Home page

Il mio Laboratorio di Scrittura via Newsletter

Il mio Laboratorio di Scrittura via Newsletter

IL MIO SITO

IL MIO SITO

La mia vetrina Amazon

La mia vetrina Amazon
Dai un'occhiata ai miei consigli di lettura e scrittura...

Social

POPULAR POSTS

  • Capitolo due: "I ragazzi"
  • Voi sapete chi è la Szymborska?
  • #twitscript n°1

Categories

IlMioProgetto chiacchiere libri Racconti viaggi cinema Torino RadioCole attualità musica televisione società DiarioRacconti sport Nella Rete blogosfera Laboratorio Condiviso teatro citazioni microracconti FacceDaPalco arte Un marito per caso e per disgrazia scrittura creativa Erasmus HumansTorino Peanuts cabaret lavoro Rugby meme ImprovvisazioneTeatrale PrincipeV poesia OffStage articolo sponsorizzato Pancrazia Consiglia pubblicità twitter PancraziaChi? TronoDiSpade articolo Adelina Harry Potter Podcast premi tennis graficamente PancraziaInBerlin laboratorio scrittura materiale di scarto DaFacebookAlBlog Pancrazia and the City Roma True Colors DonnePensanti EnglishVersion favole sogni CucinaCole IlRitorno chiavi di ricerca dasegnalare help 2.0 video Le piccole cose belle Mafalda Rossana R. cucina dixit kotiomkin live blog candy branding copywriting da segnalare metropolitana personal branding satira viaggio dell'eroe
Powered by Blogger.

Blog Archive

  • ▼  2023 (31)
    • ▼  settembre (4)
      • Laboratorio d'Autore
      • On line
      • Diretta Instagram
      • A ognuno il suo racconto
    • ►  agosto (2)
    • ►  luglio (4)
    • ►  giugno (1)
    • ►  maggio (3)
    • ►  aprile (5)
    • ►  marzo (4)
    • ►  febbraio (6)
    • ►  gennaio (2)
  • ►  2022 (57)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (10)
    • ►  settembre (5)
    • ►  agosto (3)
    • ►  luglio (6)
    • ►  giugno (6)
    • ►  maggio (9)
    • ►  aprile (3)
    • ►  marzo (1)
    • ►  febbraio (3)
    • ►  gennaio (3)
  • ►  2021 (20)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  novembre (1)
    • ►  settembre (1)
    • ►  agosto (6)
    • ►  aprile (2)
    • ►  marzo (2)
    • ►  febbraio (2)
    • ►  gennaio (3)
  • ►  2020 (84)
    • ►  dicembre (6)
    • ►  novembre (6)
    • ►  ottobre (6)
    • ►  settembre (6)
    • ►  agosto (6)
    • ►  luglio (10)
    • ►  giugno (9)
    • ►  maggio (11)
    • ►  aprile (8)
    • ►  marzo (8)
    • ►  febbraio (4)
    • ►  gennaio (4)
  • ►  2019 (6)
    • ►  dicembre (1)
    • ►  agosto (1)
    • ►  luglio (2)
    • ►  febbraio (1)
    • ►  gennaio (1)
  • ►  2018 (37)
    • ►  dicembre (1)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (3)
    • ►  settembre (7)
    • ►  agosto (3)
    • ►  luglio (2)
    • ►  maggio (1)
    • ►  aprile (7)
    • ►  marzo (8)
  • ►  2017 (23)
    • ►  settembre (2)
    • ►  maggio (2)
    • ►  aprile (4)
    • ►  marzo (8)
    • ►  febbraio (6)
    • ►  gennaio (1)
  • ►  2016 (20)
    • ►  settembre (2)
    • ►  giugno (2)
    • ►  maggio (1)
    • ►  aprile (7)
    • ►  marzo (2)
    • ►  febbraio (1)
    • ►  gennaio (5)
  • ►  2015 (78)
    • ►  dicembre (1)
    • ►  ottobre (4)
    • ►  settembre (4)
    • ►  agosto (8)
    • ►  luglio (6)
    • ►  giugno (7)
    • ►  maggio (6)
    • ►  aprile (6)
    • ►  marzo (11)
    • ►  febbraio (11)
    • ►  gennaio (14)
  • ►  2014 (242)
    • ►  dicembre (17)
    • ►  novembre (8)
    • ►  ottobre (8)
    • ►  settembre (10)
    • ►  agosto (7)
    • ►  luglio (18)
    • ►  giugno (18)
    • ►  maggio (19)
    • ►  aprile (23)
    • ►  marzo (40)
    • ►  febbraio (38)
    • ►  gennaio (36)
  • ►  2013 (353)
    • ►  dicembre (40)
    • ►  novembre (37)
    • ►  ottobre (48)
    • ►  settembre (33)
    • ►  agosto (35)
    • ►  luglio (39)
    • ►  giugno (35)
    • ►  maggio (40)
    • ►  aprile (23)
    • ►  marzo (8)
    • ►  febbraio (10)
    • ►  gennaio (5)
  • ►  2012 (126)
    • ►  dicembre (10)
    • ►  novembre (9)
    • ►  ottobre (12)
    • ►  settembre (13)
    • ►  agosto (19)
    • ►  luglio (10)
    • ►  giugno (10)
    • ►  maggio (7)
    • ►  aprile (6)
    • ►  marzo (10)
    • ►  febbraio (10)
    • ►  gennaio (10)
  • ►  2011 (95)
    • ►  dicembre (18)
    • ►  novembre (6)
    • ►  ottobre (4)
    • ►  settembre (9)
    • ►  agosto (5)
    • ►  luglio (10)
    • ►  giugno (12)
    • ►  maggio (4)
    • ►  aprile (7)
    • ►  marzo (9)
    • ►  febbraio (4)
    • ►  gennaio (7)
  • ►  2010 (97)
    • ►  dicembre (9)
    • ►  novembre (6)
    • ►  ottobre (2)
    • ►  settembre (7)
    • ►  agosto (7)
    • ►  luglio (16)
    • ►  giugno (10)
    • ►  maggio (8)
    • ►  aprile (9)
    • ►  marzo (9)
    • ►  febbraio (6)
    • ►  gennaio (8)
  • ►  2009 (61)
    • ►  dicembre (4)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (10)
    • ►  settembre (8)
    • ►  agosto (3)
    • ►  luglio (5)
    • ►  giugno (2)
    • ►  maggio (4)
    • ►  aprile (6)
    • ►  marzo (5)
    • ►  febbraio (4)
    • ►  gennaio (5)
  • ►  2008 (76)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (8)
    • ►  settembre (5)
    • ►  agosto (5)
    • ►  luglio (6)
    • ►  giugno (6)
    • ►  maggio (11)
    • ►  aprile (12)
    • ►  marzo (8)
    • ►  febbraio (5)
    • ►  gennaio (2)
  • ►  2007 (132)
    • ►  dicembre (2)
    • ►  settembre (18)
    • ►  agosto (11)
    • ►  luglio (33)
    • ►  giugno (13)
    • ►  maggio (13)
    • ►  aprile (16)
    • ►  marzo (26)

Copyright © Radio cole. Designed & Developed by OddThemes