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Ogni anno vado al Salone Internazionale del Libro di Torino. Ogni anno mi diverto un poco di meno. Ogni anno sento puzza di minestra riscaldata.
E i libri? Ogni anno prendo fregature epiche!

Quest'anno no!
O meglio, il divertimento è stato in calo e la minestra tristemente tiepida ma...
Ma? Ma!
Ma essermi fermata a fare un saluto a Ilaria Urbinati ha svoltato il mio Salone.
Prima di tutto: chi è Ilaria Urbinati?
Ignoranti! E' una blogger.
Ma soprattutto è una bravissima illustratrice. Ma brava assai, eh!
E, anche, un'ottima maestra. Colei che ha tenuto i laboratori di disegno che ho seguito lo scorso autunno.
Lei è un'ottima maestra. Io una pessima allieva. Ma questa è un'altra storia!

Dicevo, sono passata a fare un saluto a Ilaria, che era ospite presso lo stand di Compagine.
Cos'è Compagine?
Una piccola, giovane, e fiorente casa editrice. Figlia di Emma Cavigliasso e Andrea Gualano.
E chi è Emma Cavigliasso? Una blogger pure lei!
E chi è Andrea...

Ok, mi fermo, inizia a girarmi la testa!

Vi siete persi?
Pure io!
Per farla breve: sono andata a salutare Ilaria ed Emma.
Ho dato una sbirciata ai titoli proposti dal catalogo di Compagine.
Sono stata subito attratta da "Piglia un uovo che ti sbatto" di Dario Benedetto. Un libro di cui avevo già sentito parlare spesso.

Benedetto è un attore, che porta in giro il proprio spettacolo in ogni dove. Ma proprio ogni dove, eh! Tipo caffè, pub, cinema, salotti, soggiorni, cucinini, stadi, palestre, caselli autostradali e, persino, teatri!
Emma ha assistito a una sua esibizione, è rimasta folgorata, e gli ha proposto di trasformare lo show in un libro. E così è stato!

Un libro di divertimento e poesia.
Che coinvolge e si fa leggere di corsa, pagina dopo pagina, immagine dopo immagine.
Una seduta di psicanalisi pubblica, dove l'autore racconta tic, ossessioni, sogni e deliri.
L'infanzia, le donne, e pure i gatti.
Il tutto accompagnato da una virtuale colonna sonora.

Una volta finito il libro è impossibile non desiderare di andare a vedere anche l'artista dal vivo.
Intanto, vi consiglio caldamente di fare come me: leggete "Piglia un uovo che ti sbatto" di Dario Benedetto, edito da Compagine. Poi andremo a vederlo assieme, ok?

Non vi ho ancora convinto? Ci penserà questo piccolo estratto:

Travis, Flowers in the Windows

Questa canzone la metto nelle giornate in cui posso permettermi il lusso della pigrizia.

Rimango nel letto anche dopo aver spento la sveglia per dodici volte, ogni volta con il sorriso.
Perché già la sensazione di sentirla e poterla annientare con un semplice tasto dà felicità.
Una manciata di dolcissimi secondi prima di alzarmi arrivo a questa conclusione:
«L'immaginazione non è una via di fuga, ma il luogo che vorrei raggiungere».

Ci sono delle donne hawaiane che danzano vicino al letto. Cori anni Sessanta che cantano a ritmo su terzine allegre. Aerei che passano così radenti alla casa che le hostess mi dicono di non alzarmi dal letto, per evitare incidenti. I miei vicini di casa sono i Beatles, che stanno decidendo come concludere Strawberry Fields.
Busso dal muro, sussurrando: «Forever».

In giardino c'è Dio, che invece di camminare sulle acque fa surf nella mia piscina d'appartamento. Mi sorride e mi dice che la caffettiera aspetta solo di essere accesa.
Le tende sono musicali e, a seconda di come le apri, suonano una melodia diversa.
Dall'altra parte del muro, i Beatles protestano:
«Silenzio! Qui c'è gente che lavora!»

Sento che il mio appartamento appartato appartenuto a Partenope comincia a vibrare.
Nel frattempo Dio fa emergere dalle acque della piscina i Beach Boys. Avvicina a loro le donne hawaiane e le terzine allegre a confermare che le vibrations sono davvero good.

Citofona Yoko Ono e tutti fanno finta di non sentirla, tranne John. Ma gli altri lo hanno imbavagliato.
La hostess dell'aereo che passa vicino a casa la prende per gli spessi capelli giapponesi.
La fa precipitare da ottomila metri in casa dei Rolling Stones. Keith Richards aggiunge una stropicciatura al suo viso per la sorpresa.
«Sciogli loro, adesso!», urla la hostess, mentre Yoko compone, con le sue grida di aiuto, una strampalata canzone disarmonica.

Immagino che il lusso della pigrizia sia questo: arriva il tempo che bussa alla tua fronte.
Tic tac.
E tu rispondi:
«Ancora un minutino».
Tolga la canzone, Dottore, o mi assopisco.

Ora vi ho convinto, vero?
Del '94 ricordo Sacchi,...

Buuuuuuuuuuuu! Basta! Non se ne può più!

...ehi cos'è questo rumoreggiare in sala? Cosa c'è che non va?
Aspettate un attimo, non agitatevi, mollate quegli ortaggi, lasciatemi spiegare.
  
Sì, lo so che l'Italia è stata eliminata.
Lo so che a molti di voi, adesso, non frega nulla del Mondiale.
E a molti, probabilmente, fregava poco anche prima.
Ma io di  questi post ora che ne faccio?
Non vorrete mica che li butti?
Sappiate che non ci riesco. Sono tutti lì, tra le bozze, in ordine. Mi fanno tenerezza, non posso cliccare su "elimina". Non ne ho la forza!

Facciamo così, troviamo un compromesso, io li pubblico e voi, se proprio ciò vi fa stare meglio, li ignorate.
Contenti voi.
Contenta io.
Contenti tutti.
Siamo d'accordo?
Allora proseguo, eh?
Grazie.

Del '94 ricordo Sacchi, che odiavo con raro trasporto. Fastidioso, spocchioso, presuntuoso, e un'altra decina di caratteristiche negative che terminano in "oso". Mettete voi quelle che preferite.
L'intera squadra, in realtà, non risvegliava la mia simpatia. Tanto che vidi l'infelice finale facendo i compiti delle vacanze. Può esistere una dimostrazione di disinteresse maggiore di questa?
E per fortuna ero disinteressata perché, altrimenti, non mi sarei mai ripresa da quel rigore!

Partimmo da Malpensa.
All'aeroporto eravamo in tre: io, LAmicoFab, e la sua influenza intestinale. Un virus che lo stava tormentando da più di una settimana, devastandolo nel fisico ma non nello spirito.
"Ma te la senti davvero di venire?" gli chiesi poche ore prima della partenza.
"Certo!" mi risposero lui, le sue occhiaie, e il suo colorito verde ramarro.

La Germania, in quell'occasione, mi regalò l'ennesimo miracolo.
LAmicoFab, appena toccato il suolo berlinese, cominciò a stare meglio. Così lui si poté godere le vacanze, e io smisi di preoccuparmi delle pratiche burocratiche eventuali e necessarie per far rientrare la salma in patria.

Atterrammo a sera tarda. 
Prendemmo l'autobus e poi la metro.
"Lo senti questo profumo?" gli chiesi scendendo verso i binari.
"Sta puzza vorrai dire? Ma che schifo è?"
"Questo è l'odore dell'U-bahn. L'aria densa fatta d'acciaio e fumo. Questa è la vera essenza della città" gli risposi con gli occhi che brillavano di lucida follia. Mentre i suoi cominciavano a brillare di opaco terrore.

Dopo la metro ci toccò fare anche un quarto d'ora a piedi. Due zombie forniti di trolley.
L'unica cosa che ci tenne svegli fu Derrick. Il vecchio teutonico ispettore nella versione parodiata di Tortora e Giusti.

"Harry, chi è meglio? Io o il tenente Colombo?"
"Lei ispettò"
"Si vede il tupè?"
"Mai ispettò"
"Bravo Harry"
Ripeteva senza soluzione di continuità LAmicoFab. Facendomi ridere ogni volta.

Avete capito di cosa sto parlando, no?
No? Agevolo il video.



Eravamo due zombie ridanciani che passeggiavano per le strade deserte di Wedding, "il fiorente quartiere di Wedding", come recitavano i siti più informati.
Questa fu la prima differenza che scoprii rispetto ai miei ricordi. Quello stesso quartiere ai tempi del mio Erasmus era considerato poco più di un dormitorio per sfigati. Ora, a quanto pare, era diventata la nuova frontiera dei giovani artisti alternativi che fuggivano da Prenzlauerberg e Mitte, ormai irrimediabilmente cari e fighetti.

Noi avevamo trovato alloggio tramite internet. In uno di quei siti con le offerte spettacolari.
Dell'infelice scelta mi ero occupata io.
Avevo prenotato una stanza da un privato.
Non molto vicina alla metro.
Quarto piano senza ascensore.
Un proprietario di casa che alle 2 di notte, quando arrivammo, ebbe solo una preoccupazione: mostrarci il prodigio tecnico per cui, appena si accendeva la luce del bagno, partiva anche la radio.
"Oooooooooohhhh che meraviglia!" feci io alla terza dimostrazione, per dargli soddisfazione, interrompere l'esibizione e riuscire, finalmente, ad andare a dormire.

Che volete che vi dica? Io sono ancora convinta che il prezzo fosse talmente buono da meritare qualche piccolo sacrificio. LAmicoFab non del tutto.

Continua...
Augusto tornò a trovarci l’indomani, il giorno dopo ed il giorno dopo ancora. Insomma: ce l’avevamo sempre tra i piedi.

Mamma mia, appena poteva, lo invitava a fermarsi pure per cena, e spesso mi spediva perfino a comprare un poco di carne da aggiungere alla zuppa. Io non ci capivo più niente: noi ci ammazzavamo di fatica per un tozzo di pane e ora buttavamo i soldi per far contento quello lì?
“Augusto è abituato a magnare come se deve”, mi spiegava mamma.
“E nun pò starsene a magnà alla casa sua? Da noi deve venire?”
“Nun me fare incazzà, Adelì, ricordate che lo dobbiamo trattare come nu principe.”

Negli ultimi quattro anni eravamo sempre state solo noi tre intorno allo stesso tavolo. E alla maniera nostra eravamo state felici. Non avevamo avuto bisogno di nessuno, soprattutto non di un altro uomo in casa che si mettesse a fare il padrone. Ora però ci stava questo estraneo, seduto capotavola, a succhiare il brodo dal cucchiaio del babbo.

Ma la cosa che mi faceva venire davvero il nervoso era che più conoscevo Augusto e meno riuscivo a farmelo stare  antipatico. Gliel’avevo giurata da quando mi aveva fatto venire la chiappa viola, ma ora che ero costretta a passarci un poco di tempo assieme dovevo ammettere che non era poi così male. Certo, mangiava quanto noi tre messe assieme, accidenti a lui. Ma era sempre gentile e non si dava manco la metà delle arie che si davano gli altri parenti suoi. E poi aveva un bel modo di guardare Lucia. Il suo era proprio il modo giusto. Non quello furbo di Emilio o quello zozzo degli altri porci del paese, ma quello pulito e sincero che ogni uomo dovrebbe dedicare alla donna sua e che io non avevo visto mai, da nessuna parte, figurarsi a casa nostra.

Sorella mia ricamava e lui la guardava come se stesse facendo un dipinto, sorella mia gli cuoceva la zuppa e lui la tirava su con un risucchio soddisfatto manco fosse un piatto da re, sorella mia gli sorrideva e a lui s’intorcinava la lingua e non riusciva più a parlare come si deve per cinque minuti buoni. Insomma, s’era preso proprio una gran botta, una di quelle serie, una di quelle che delle volte ti fanno far la figura del fesso ma che ti riempiono il cuore.

Ma mentre Augusto guardava Lucia e vedeva una principessa, tutti i parenti suoi vedevano solo un bel faccino con le mani vuote. La sorella mia non teneva neanche un soldo di dote ed ai Parise non poteva portare né uno sputacchio di terra né una gallina zoppa. Ma il corredo sì. Quello lo dovevano portare tutte, pure le pezzenti come noi.
Ora queste cose non si usano più, ma una volta il corredo era un affare serio e le famiglie iniziavano a prepararlo per le figlie femmine quando queste si facevano ancora la pipì addosso. La biancheria doveva essere bella e durare tutta la vita. Le cose non si buttavano mica via al primo buchetto come si fa adesso.

Un corredo completo era una spesa enorme se lo si comprava o un lavoro da pazzi se, come nel caso nostro, lo si preparava a mano. Per risparmiare soldi e fatica mamma passò a Lucia le lenzuola più belle che conservava dai tempi delle nozze sue, ma che non aveva usato mai. Le aveva preparate assieme a nonna Ada, molti anni prima di conoscere il babbo, quand’era una bimbetta e sognava un marito per bene e tanti figlioletti. C’erano ricamati angeli e rose ed erano tanto raffinate che il posto loro non sembrava mica il letto di due contadini in un paesello, ma quello del re e della regina che stavano a Roma.
Tutte noi tre assieme ci occupammo del resto. Lavorammo come dannate per quasi sei mesi. Metà del tempo lo dedicavamo ai mestieri che ci dava la Barbagallo e l’altra metà al corredo della sorella mia. I giorni non erano mai abbastanza lunghi, gli occhi ci si facevano piccoli piccoli dalla fatica e gli stomaci talmente vuoti che dentro ci si sentiva l’eco.
Dopo quattro mesi di quest’inferno un giorno, mentre stavo a dare da mangiare alle galline, vidi arrivare la Pazza.
“Ciao Adelì, perché nun te fai più vedè? Si arrabbiata co me? T’ho fatto qualcosa? Nun sei più amica mia?”, mi chiese senza prendere aria.
“Nun m’hai fatto gnente, ma nun tengo lu tempo manco pe respirà altro che venirte a fare nu saluto.”
“E perché?”
“Perché devo faticà.”
“E perché?”
“Se nun se fatica nun se magna.”
“Nun è vero! Io magno sempre la zuppa della Signora ma nun fatico mica.”
“Beata a te!”
“Voi che ce chiedo alla Signora se te fa la zuppa pure a te?”
“Grazie Annamarì ma nun è na bona idea.”
“Perché?”
“Perché no.”
“E perché no?”
“Perché nun sono na pezzente.”
“E che è na pezzente?”
“Marò Annamarì, nun c’ho tempo pe dare retta alle fesserie tue! E cresci nu poco!”, e la mollai in mezzo al cortile con gli occhioni che già le si allagavano tutti.

Due giorni dopo, al ritorno da una commissione in paese, passai davanti a casa sua e quell’anima buona mi venne incontro urlando: “Adelì, che bello che si venuta!”
“Veramente sto solo a passare, devo tornare subito alla casa, se no chi la sente mamma mia.”
“Dai viene nu minuto dentro.”
“Nun posso Annamarì”, le risposi sbuffando.
“Vieni, veloce veloce, c’ho avuto n’idea pe no farte faticà più”, mi disse a voce bassa, mettendosi una mano davanti la bocca come fanno le creature quando raccontano un segreto.
“E va bene, ma nu minuto solo” e la seguì in casa.
Lei andò subito a prendere una scatola di latta: “Questi so li tesori mia. So cose importanti. La Signora dice sempre che so meglio dell’oro e che me li devo tenere stretti stretti.”
“E a me che me frega delli tesori tua?” 
“Ho pensato che te ne regalo uno, cuscì tu ce fai li soldi e nun c’hai più bisogno de faticà.”
Aprii la scatola solo per farla contenta e poter tornarmene subito a lavorare. Dentro ci stavano tre bottoni, una matassa di filo, un nastro di raso giallo, qualche dente marcio, una treccia di capelli e il ritratto di un uomo con gli occhi da ranocchio: “E questo chi è?”
“Lu babbo mio.”
“C’hai nu babbo?”
“Eccerto. Me l’ha spiegato la Signora: nun è vero che li bambini nascono sotto nu cavolo. Ce vole nu babbo e na mamma che se vogliono bene. Nun lo sapevi?”
Ma io manco l’ascoltavo più perché m’ero accorta che al fondo della scatola, sotto tutte quelle schifezze inutili, ci stava un anello. Un pataccone con un granato grande quanto un cecio.
“E questo?”
“Era de mamma mia ma a me nun me piace quel sasso scuro scuro. A me me piace lu nastro giallo. Hai visto che bello che è? E’ lu preferito mio, ma se lo voi te lo poi prendere.”
Quell’anima candida, con gli occhi da bambina e il muso pieno di rughe, mi sorrideva innocente mentre io, che innocente forse non c’ero stata mai, sentivo le mani che prudevano e mi mancava l’aria dalla voglia che c’avevo di prendermi quel gioiello. La Pazza non ce ne aveva di bisogno, a lei bastava la Signora che la serviva e riveriva meglio di una regina. Mentre noi Carretta c’ammazzavamo di lavoro per far contenti i Parise che, ad averci in famiglia una come Lucia, avrebbero dovuto ringraziare il Signore, altro che pretendere che noi ci facessimo sceme ed orbe dietro a ricami e merletti.
“Me prendo questo”, dissi stringendo forte il pugno.
“Va bene”, mi sorrise Annamaria, “cuscì te poi riposare nu poco e faticare de meno. Si contenta?”
“Sì, grazie, so proprio fortunata ad averce n’amica come a te.”
E me ne corsi via col cuore che mi batteva forte e le mani che mi sudavano. Corsi col vestito rattoppato e le scarpe rotte. Corsi a casa con la testa che mi scoppiava e lo spirito pesante.

“Era ora!”, disse mamma mia quando sentì aprire la porta, ma poi appena mi guardò in faccia: “Che c’hai? Che hai visto? Stai male?”
“Nun ve preoccupate, mo me passa”, dissi sedendomi in un angolo.
“Che tieni là?”, mi chiese Lucia facendosi vicina.
“Gnente.”
“Fammi vedere.”
“No.”
“Come no? Che nascondi?”
“Nun nascondo gnente. Guarda se ce tieni tanto. Guarda”, e le piantai la mano aperta davanti al muso.
“Nu bottone? E che ce fai co sto bottone?”
“Gnente, l’ho trovato pe strada.”

Mi mancò il coraggio o forse il cuore di prendere quell’anello. Ma quel bottone ancora lo conservo insieme alla catenina di nonna Ada e alla fede d’Augusto. Lo conservo per ricordarmi che la fame ed il bisogno ti possono far diventare peggio d’una bestia. Ma che io bestia non ci sono diventata mai.

Continua...

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Ieri ho ricevuto delle strane telefonate.
Brevi squilli sul cellulare.
Prefisso del numero chiamante? 004930.
Alla maggiorparte di voi non dirà nulla. A me tutto.
004930 è il prefisso di Berlino.

"Ooooooooooooooooooh" esclama il pubblico in sala.

Calma! Non fatevi inutili film! Sarà stato un errore. Non conosco più nessuno nel mio amato uovo al tegamino. Ma che impressione vedere quel numero! Rivederlo dopo una vita.
E' stato come se l'astronave madre mi chiamasse. Un'ondata di nostalgia mi ha travolta. "Mi telefona casa" ho pensato.

Poi, stamattina, mi sono svegliata ringhiando e sbavando. Senza nessun motivo. Così. Avete presente quei giorni in cui tutti riescono a dirvi qualcosa di sbagliato? Proprio tutti, anche quelli che non dicono niente? Soprattutto quelli che non dicono niente? Ecco, oggi era un giorno così.

Ho continuato con quest'atteggiamento positivo e bendisposto verso l'universo tutto fino a quando non ho ripensato a quelle telefonate. A Berlino. E al post che non ho ancora scritto e che dovrei scrivere sul mio ritorno in die Stadt. Ritorno che, dopo anni e anni di assenza, si realizzò nel maggio dello scorso anno.

Ho ripensato a tutto questo e mi è tornato il sorriso.

Dovrei proprio raccontare quel viaggio.
Dovrei proprio scrivere quel post.
Dovrei.
Devo.
Voglio.
Lo faccio.

Quel viaggio fu una scelta mistica-filosofica. Escusateseèpoco.
Avevo appena cambiato tutto nella mia vita. Preso decisioni fondamentali. Ribaltato punti di vista. E perso pure quasi 10 kg. Insomma, ne avevo fatta parecchia di roba.
Tutto ciò meritava di culminare nel ritorno alla mia amata Berlino, amata che non vedevo da più di 10 anni. Un'infinità di tempo per una città come Berlino. Un'infinità di tempo per una come me.

Il mio compagno d'avventura sarebbe stato un amico. Non uno a caso.
Colui che non era mai stato a Berlino.
Colui che adorava "Pancrazia in Berlin".
Colui che era stato testimone, non silenzioso, delle mie scelte e delle mie rivoluzioni.
Colui che d'ora in avanti, con sfoggio di fantasia e creatività, chiamerò LAmicoFab.

Fu lui a chiedermelo.
"Andiamo a Berlino?"
"Sì", gli risposi.

E Berlino fu.

Continua...
“Prego, accomodateve”, disse mamma mia, liberando le sedie dalle pezze e i rocchetti, “porta sta roba de là, Adelì, e restace”.
“Ma mamma...”
“Sciò, veloce, nun te lo fare dire du volte.”

Scacciata, peggio di una mosca fetente, strascicai i piedi fino in camera e poi cercai una posizione buona per stare a sentire i fatti da grandi. Ero una ragazzetta ma mica una scema e ce lo sapevo che quella visita doveva essere una faccenda importante. A noi non ci veniva mai a trovare nessuno, figurarsi i Parise.

Da dove stavo messa, col muso infilato tra lo stipite e la porta, riuscivo a vedere solo metà della cucina e pure i discorsi m’arrivavano a smozzichi.
“Avrei preferito na scelta diversa,” cominciò Ottavio Parise, “ma c’ho nu figlio co la capoccia tosta.”
Il babbo d’Augusto se ne stava seduto stravaccato, con le gambe distese in avanti, i pollici infilati nelle bretelle e lo stomaco tutto all’infuori. Per fortuna mamma l’aveva fatto mettere sulla vecchia sedia del babbo che era bella rinforzata e, se aveva retto quel ciccione per tanti anni, poteva reggere pure questo per qualche minuto.
“Augusto è sempre stato lu preferito della bonanima de mamma sua e quindi lo voglio fare felice per rispetto a lei.”
La bella signora Parise era morta due anni prima e da quel momento il marito era diventato cliente fisso de “le due Carlone”. Mamma e figlia che vivevano in una baracca lungo il fiume e tenevano l’azienda a conduzione famigliare con grande soddisfazione dei ragazzetti curiosi, i vecchi porci, e gli uomini più devoti di tutti i paesi vicini.
Il signor Ottavio continuava a portare il lutto stretto ma pure a dire: “lu core se l’è portato in cielo l’amore mio, ma lu resto me l’ha lasciato qua e faccio peccato mortale se nun lo uso”.
Se non fosse stato che a noi Carretta ci ha sempre trattate come le peggio pezzenti, a me babbo Parise sarebbe stato proprio parecchio simpatico. Perché uno sfacciato così o lo prendi a bastonate sulla capoccia o ti ci fai una gran risata assieme, una di quelle che ti devi tenere le gambe strette per non fartela addosso.

“Io c’ho intenzioni serie”, dichiarò Augusto, che quella sera era riuscito perfino ad essere più brutto del solito. E non era mica una cosa facile. Per l’occasione s’era messo il vestito buono, ma i pantaloni gli andavano corti e dall’orlo tagliato male gli spuntavano le caviglie pelose: quella normale e anche l’altra, quella secca secca, che mi faceva tanta impressione.
“Se me sposo me tocca nu pochetto de terra”, aggiunse, mentre cercava con gli occhi Lucia, che si guardava fissa  la punta delle scarpe.

“Che ne pensi figlia mia?” chiese mamma, che ci provava a fare la signora ma si capiva benissimo che non si teneva più da quant’era contenta.
“Dovete decidere voi. Io faccio quello che mi dite voi.”
“Avete sentito com’è educata Lucia mia? Nun è solo bella ma tanto pe bene e rispettosa” aggiunse, come manco un vaccaro alla fiera delle bestie.

Soldi, terra, galline, ova e corredo. I due vecchi andarono avanti a parlare per un’ora buona. I due giovani invece non fecero più un fiato. Ed io mi morivo di noia e preoccupazione con il sedere ghiacciato e i ginocchi incriccati. Lucia mia c’aveva sto viziaccio di fare sempre la santa e ci dovevo pensare io a difenderla, a salvarla da quel mostro, a convincere mamma nostra a cambiare idea. Manco per un secondo mi passò per la capoccia che la sorella mia potesse essere contenta di sposarsi. Non l’avevo sentita lamentarsi, sbattere i piedi ed urlare ma lei certe cose non le faceva mica. Certe cose le facevo io e quindi era compito mio quello di salvarla dallo storpio.

Appena quei due se ne andarono per tornare alla casa loro, corsi in cucina. Lucia, sentendomi arrivare, si voltò verso di me, “Adelì, Adelì, me sposo!”, disse con gli occhi che le brillavano. Ma mica di lacrime. Di felicità.
Lei rideva e io stavo lì, con la bocca spalancata dalla sorpresa.
“Me sposo, te rendi conto?”
E la bocca mi restava aperta come a una fessa.
“Hai capito?” e mi prese le mani per girare in tondo come non facevamo neanche da piccine.

Mamma camminava avanti e indietro, “Che soddisfazione”, ripeteva, “la bimba mia. Che soddisfazione. Se c’era nonna Ada chissà quanto era felice mo. Che soddisfazione. Soldi ce ne stanno pochi, ma nun dobbiamo farce ridere dietro da nisciuno. Basterà fare qualche sacrificio de più. Sarai bellissima, figlia mia, moriranno tutte d’invidia. Che soddisfazione.”

A me sembrava di essere finita dentro un brutto sogno, uno di quelli che ti ci vuole un pizzico bello forte per svegliarti. Mamma e Lucia stavano tra lo zucchero ed io in mezzo alla merda di vacca. Proprio non riuscivo a capire che c’era da essere tanto contente. I Parise c’avevano la puzza sotto il naso, Augusto era zoppo, e babbo suo era un gran puttaniere. Che festeggiavamo a fare?

Dopo che questa serata da pazzi finì e ci trovammo finalmente sdraiate nel lettone, io mi feci  coraggio e sputai fuori la domanda che mi tenevo dentro: “Ma perché Lucia deve sposare quellu storpio schifoso?”
Non l’avessi mai detto. Non ebbi neanche il tempo di vederlo arrivare ma sentì solo l’aria che si spostava. Mamma mia mi mollò uno schiaffone che, a ripensarci adesso, ancora mi brucia mezza faccia.
“Guai a te se lu dici n’altra volta. Tu si solo na ragazzina, che ne voi sapè? Sto matrimonio è na benedizione. Devi sempre farme arrabbiare, vero? Te ce diverti?” disse e poi mi voltò le spalle sbuffando e mugugnando, “Ma che ho fatto de male? Mai na soddisfazione. Figlia de babbo suo. Nata pe farme stare male”.

Io piansi in silenzio, al buio, per il dolore e l’umiliazione.
La sorella mia mi abbracciò stretta stretta e mi sussurrò all’orecchio: “Nun te devi preoccupare pe me: Augusto è nu bravo ragazzo.”
“Quello è cattivo come lu demonio! Te lo ricordi che m’ha fatto?”
“Sì e me ricordo pure quello che te hai fatto a lui.”
“E allora?”
“Quel sedere viola te lo sei proprio meritato e lo sai benissimo.”
“È brutto come lu peccato e con quel piede sembra arrivato dritto dallo inferno.”
“Nun è cuscì male. E poi nun è mica colpa sua se è stato malato.”
“Te ne puoi avere cento meglio de lui.”
“Io so senza dote: è na vera fortuna che c’è almeno Augusto che me vole.”
“Tu si bella come na regina: è normale che quellu sgorbio te vole.”
“Proprio nun voi capire? Nun sarà bello ma è n’omo serio ed è questa la cosa più importante. Lui me vole sposare pe davvero ed io n’occasione cuscì nun la voglio perdere”, e mi voltò le spalle pure Lucia mia.
“Ma che bisogno c’hai de sposarte?”
“Voglio na famiglia.”
“Io e mamma simo la famiglia tua.”
“Voglio dei figli.”
A questo non avevo proprio niente di buono da rispondere e così continuai a piangere, in silenzio, da sola, tra due schiene dritte.

Continua...

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I Mondiali del '90 sono una pietra miliare nella mia vita.
Rappresentano la gioia e il dolore.
Soprattutto il dolore.

Ricordo la "favola" di Schillaci e l'orgoglio siculo di mia madre. Ricordo "Ciao", la più brutta mascotte che mente umana abbia mai concepito. E ricordo pure "Notti magiche", quell'inno che a tutti ha sempre fatto schifo, ma che tutti conosciamo a memoria.

Ma non dimentico, soprattutto, quella maledetta semifinale, quella contro l'Argentina, quella che spezzò i nostri sogni di gloria.
Alla fine mi ritrovai piangente e arrabbiata davanti alla tv. Giovane adolescente, con gli ormoni in subbuglio, che versava copiose lacrime e minacciava di morte Maradona. No, non sto esagerando, lo volevo proprio uccidere. Non tutta la squadra sudamericana, solo lui. Avevo anche elaborato un complesso piano: sarei andata a Napoli in treno e l'avrei fatto fuori con un coltello da cucina. Uno di quelli seghettati, che gli altri non tagliano.

E pensare che anni dopo, molti anni dopo, avrei avuto quale miglior amico un uomo che espone le foto di Diego come santini. Il destino delle volte è proprio curioso.

Ma, bando alle ciance, è giunto il momento. Non fate i timidi. Siate spudoratamente nazional popolari!
Vi vergognate? Va bene, comincio io:

" Forse non sarà una canzone a cambiare le regole del gioco, ma voglio viverla cosi quest'avventura senza frontiere e con il cuore in gola..."

Cinquant’anni prima Parise Angelo era emigrato in America e da lì aveva preso a spedire soldi alla moglie. Lui, dall’altra parte del mondo, lavorava e andava a femmine mentre lei, rimasta in paese, comprava terra e cresceva da sola cinque bambini: Caterina, Rita, Ottavio, Giuliano e Federico.
Di denaro dall’America ne arrivava parecchio e la signora Agnese con i conti e gli affari era meglio d’un uomo, e così la famiglia divenne padrona di mezza collina. Purtroppo il talento coi soldi e la voglia di faticare non sempre passano nel sangue ed i figli, a forza di scialacquare e fare la vita da signori, in pochi anni si mangiarono metà del patrimonio. Ma i Parise tutti continuarono comunque a darsi delle grandi arie, perché una buona reputazione e tanta puzza sotto il naso possono far sembrare una sciccheria anche le toppe al sedere.
 
Ottavio, il padre di Augusto, aveva sposato una femmina bella come ce ne stavano poche e con lei, durante i lunghi anni di matrimonio, si era tanto amato. Talmente tanto che la famiglia era cresciuta come la pasta del pane: dodici figli avevano avuto, undici maschi ed una femmina sola.
Augusto, ormai adulto, si ritrovò quindi con poco terra da dividere tra un esercito di fratelli ed una gamba secca e storta che, di sicuro, non lo faceva tanto bello. In quelle condizioni trovare la moglie giusta non era mica cosa facile.

Il padre voleva che sposasse proprio quella vipera della cugina Angela, la compagnuccia mia di scuola, ma lui da quell’orecchio non ci sentiva: perché lei c’aveva il culo grosso come una credenza, quand’erano piccoli lo menava forte, e poi sotto il naso portava certi baffi che manco un generale.
Ad Augusto, chissà perché, faceva sangue la mezzana delle Barbagallo, che gli sorrideva sempre e lo guardava con certi occhi che pareva volesse mangiarselo. Ma tutti sapevano che la madre di quella sfacciata andava dietro al soldo e lui di certo non aveva le tasche abbastanza piene. Mica come quelle di Greco Antonio che, infatti, portò la svergognata all’altare pochi anni dopo, ricavandoci un esaurimento nervoso, due infarti, e più corna di una cesta di lumache. Pover’uomo.
E poi c’era Lucia. Augusto non ci poteva credere che uno splendore così non se lo litigassero tutti. “E’ troppo povera. Na femmina te deve portare della terra, altrimenti che te la pigli a fare?”, gli dicevano i fratelli suoi, ma lui la pensava diversamente. Lucia aveva la reputazione di essere una gran lavoratrice e questa, a parer suo, era proprio una bella dote. Una donna che non si fa spaventare dalla fatica è una sposa perfetta, altro che terra e bestie.

Augusto decise quindi che la sorella mia sarebbe stata la scelta più giusta per lui e, contro l’opinione di tutti i Parise, iniziò una corte che in paese ancora se la ricordano.

All’inizio si piazzò vicino a casa nostra. Ogni due o tre giorni ce lo ritrovavamo oltre il cancello a fare avanti e indietro e fischiettare come uno scemo. Mamma e Lucia lo ignoravano ma io non mi davo pace: ero convinta che quello, dopo tanti anni, fosse venuto a vendicarsi. Che mi volesse dare fastidio come io e gli amichetti miei avevamo dato fastidio a lui.
“Che stai a fà Adelì?”, mi chiese un giorno la sorella mia trovandomi in cortile a trafficare con dei rametti.
“Gnente”, dissi nascondendo le mani dietro alla schiena.
“Nun si troppo grande pe ste cose? Ancora stai a giocà?”
“Nun sto a giocà.”
“E che ci fai allora co na fionda?”
“Me difendo.”
“E da chi?”
“Dallo storpio.”
“Ma che t’ha fatto quel poveraccio? Nun è possibile che ce l’hai ancora co lui. Dimenticatelo!”
“Nun so io che ce l’ho co lui e lui che ce l’ha co me. Che ce viene a fare sennò davanti a casa nostra?”
“Ma che ne so. Magari c’ha appuntamento co qualche filarino suo.”
“Ma figurati! E co chi? Chi se lo piglia nu sgorbio cuscì? C’ho pensato bene bene, che pure se nun c’ho scola nun sono mica stupida io. C’è so solo du motivi pe venire qua: o vole vendicarse de me o c’ha na botta pe te.”
“Figurati, quellu è nu Parise: a una come me nun me se fila proprio.”
“Lo vedi che c’ho ragione io allora? Quellu se sta studiando qualcosa. Nun me fido.”
“Ma ormai è n’omo, te pare che pensa ancora a te?”
“Certo! Nun l’hai visto che faccia cattiva c’ha?”
“Ce rinuncio. C’hai la capoccia più dura de nu sasso. Ma torna dentro mò, che c’abbiamo da faticà!”

Dopo solo una settimana Augusto smise di farsi vedere dalle parti nostre.
“Hai visto che nun ce l’aveva co te? Se sarà lasciato co lu filarino suo e mo se ne va a passeggià da n’altra parte.”
“E già, c’avevi ragione tu”, risposi a Lucia mia. Evitando di spiegarle che due giorni prima m’ero fatta prestare Puzzo e che Augusto era dovuto scappare di corsa, con quella bestia che gli abbaiava dietro, i pantaloni strappati ed io che mi rotolavo a terra dal ridere.   
“Perché corre cuscì strano?”, m’aveva chiesto la Pazza.
“E’ zoppo.”
“Che vordì?”
“C’ha na gamba malata.”
“M’hai detto che era cattivo e te dava fastidio mica che era malato. Nun penzo che fare li dispetti alli malati è na cosa proprio da signorine pe bene.”
“Nun è mica malato, è cuscì perché è figlio delli diavuli.”
“Davvero?”
“Sicuro, che pensi che te dico na bugia?”
“No, tu si amica mia e bugie nun me le dici.”
“Giusto.”
“Allora abbiamo fatto bene a faglie piglià paura?”
“Eccerto, Annamarì.”
“Ma Adelì...”
“Che c’è?”
“Nun è che mo li diavuli me vengono a cercà?”
“Ma no, sta tranquilla, te c’hai Puzzo che te defende. Li diavuli c’hanno paura delli cani.”
“Davvero?”
“Eccerto, che nun lo sapevi? E’ pe questo che la Signora te dice de tenerlo legato davanti alla casa de notte.”
“Pe li diavuli? Mica lo sapevo, la Signora nun me l’ha detto mai.”
“Nun te l’ha detto pe nun farte spaventà.”
“E te come fai? Te nun ce l’hai nu cane.”
“Io nun c’ho paura de gnente e me defenno da sola.”
“Come si coraggiosa.”
“Che ce voi fa? Ce sono nata cuscì.”

Ad Augusto le fregole non gli passarono neanche col morso di Puzzo. E per i due mesi dopo si mise a guardare Lucia per strada, cercando di attirare l’attenzione con sorrisi e occhiate da attore del cinematografo. Una roba da far rigirare lo stomaco.
“Ma che c’avrà da fissare quellu?”, chiedevo io.
“Nun so e nun m’enteressa. Te nun lu guardare”, mi rispondeva Lucia.
“Quello sfacciato fa lu cascamorto co te!”
“Nun glie dare corda e cammina.”
“Te guarda e te squaglia.”
“Cammina, ho detto!”
“Ma chi se crede d’essere quellu zoppo? Per chi t’ha presa?”
“Ignoralo Adelì!”

Vedendo che anche così di progressi non ne faceva e che, invece di guadagnarsi l’attenzione di Lucia, riusciva solo ad attirarsi le occhiatacce mie, Augusto provò perfino ad attaccar bottone: “Bongiorno signorine Carretta”, “E’ proprio na bella giornata oggi, vero?”, “Come state signorina Lucia?”
Ogni volta noi, mute come pescetti, abbassavamo gli occhi e ci allontanavamo veloci veloci. Più lui insisteva, più le labbra nostre s’incollavano e le gambe pedalavano. Mentre gli altri, che assistevano alla scena, sfottevano lui e pure noi, “Lascia perdere Augù che nun è cosa pe te”, “Le Carretta ce l’hanno d’oro, nun la mollano!”, “Quella è de ghiaccio, attento che te se freddano le mano se provi a toccarla”, “La madre gliele taglia le mano, altroché!”, e si tenevano la pancia dal ridere quei gran cornuti.
Ormai ogni commissione in paese era diventata un supplizio.
“Nun ce posso credere: ce sta pure quella merda de Teo in mezzo. Mo vado, glie tiro nu bello calcione tra le gambe e lo faccio frignà come nu pupo a quellu!”
“Tu nun vai proprio da nisciuna parte. Ce ridono già abbastanza de dietro cuscì.”
“Perché nun lo diciamo a mamma allora? Ce pensa lei a faglie passà la voglia de scherzare a quelli.”
“Mamma nun c’ha bisogno de altri pensieri e poi che le diciamo?”
“Che quei porci ce sfottono e che lu storpio ce da fastidio.”
“E a che serve? Vedrai che presto se stufano e trovano naltro modo pe passare la giornata”, diceva Lucia, che cercava di fare la superiore ma io lo vedevo che ci stava male.

Anche Augusto si era ormai scocciato di fare sempre la parte del fesso davanti a tutto il paese, e di dover sentire quelle brutte cose sulla futura sposa sua. Quindi smise di parlarci o salutarci ed aspettò l’occasione di trovare la sorella mia da sola. Gli ci volle quasi un mese. Quel giorno io ero rimasta a casa ad aiutare la mamma e Lucia era andata dalla Barbagallo per portare dei fazzoletti. Augusto la seguì e poi in un pezzo di strada tranquillo, dove non ci stava mai nessuno, la fermò e le disse con un fiato solo: “Signorina Carretta, ve chiedo lu permesso de farve la corte.”
Lucia, che aveva fatto tesoro della brutta esperienza con Emilio e delle parole della mamma, non lo prese sul serio manco per un secondo. Pensò fosse uno scherzo, una scommessa con gli amici o solo un modo cattivo per mortificarla, ma non gli volle dare soddisfazione e rispose con la faccia serena: “No, nun voglio essere corteggiata. Nun c’ho tempo da perdere io. Se avete davvero intenzioni serie passate stasera a chiedere la mano mia. Cuscì organizziamo nu bello sposalizio” e se ne andò lasciandolo senza parole. Che alle donne della famiglia mia sono sempre mancati i soldi ma  mai la risposta pronta.

Una volta tornata a casa, si rimise subito a ricamare, senza aprire bocca ma con il viso scuro e gli occhi rossi.
“Che t’è successo?” le chiese mamma.
“Gnente, nun ve preoccupate.”
“E perché c’hai quella faccia lì?”
“Quelli le danno fastidio e le dicono le cose dietro. Li dovete fare smettere!” intervenni io, che a vedere la sorella mia così mi sentivo scoppiare di rabbia.
“Sta zitta te! Si piccola, che ne voi sapere de ste cose?”
“Ma mamma...”
“Zitta e lavora! Lucia mia, nun te devi fare lu sangue cattivo: quelli scemi dellu paese nun se meritano gnente.”
“Ma perché nun me lasciano nu poco in pace?”
“Tu c’hai nu destino ingrato. Si troppo bella: li omini te vogliono e le femmine se rodono. Ma ricordate sempre che tu si migliore de tutti loro, delli giovani tanto pe bene e pure delle finte verginelle.”
Ci rimettemmo a lavorare in silenzio, ognuna con la capoccia ai pensieri suoi. Quello era un momento in cui quell’ubriacone del babbo ci avrebbe fatto tanto comodo: che ad essere povere, sole e donne era una lotta continua.

Mentre noi ricamavamo, Augusto tutto serio ed emozionato dichiarava le proprie intenzioni a babbo suo.
Non so quanto ci mise a convincerlo, quanto dovette urlare o insistere, fatto sta che quella sera sentimmo bussare e quando andai ad aprire me li trovai tutti e due di fronte.
Erano venuti a chiedere la mano di Lucia.

Mia sorella per poco non svenne dalla sorpresa. E mamma, da quel giorno, divenne devota di Santa Edvige: la protettrice delle spose, che le aveva fatto la grazia.

Continua...
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