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Buongiorno a tutti dalla Zona Rossa!
Di nuovo chiusi in casa, siamo pieni di tempo libero da utilizzare in maniera proficua. Quindi, dopo aver impastato la prima pizza del secondo lockdown, tornate qua a leggere i miei suggerimenti per questo Novembre 2020. Cose da fare, vedere, leggere, ascoltare comodamente dal proprio abusato divano.

Il web pullula di siti, profili, pagine che trattano di libri. Perché consigliarvene uno invece di un altro? Perché a quest'uno collaboro anch'io (in maniera molto sporadica, onestamente). Si tratta del collettivo dei Russi, nato – da un'idea di Enza Spinapolice – da facebook per poi approdare anche su un blog. Un gruppo di lettori forti e un po' pazzi, dai consigli di lettura mai scontati.
Potete trovare le recensioni dei Russi di "Parla della Russia" sul sito e anche tanto altro sulla loro (nostra) pagina Facebook. 
Seguiteci, leggeteci, leggete!

Qualcuno di voi conoce gli Slim Dogs? Io li conoscevo di fama ma non li avevo mai seguiti molto. Un gruppo di videomaker romani molto prolifici anche su youtube o, meglio, un gruppo di youtuber che sono stati ingrado di farne una professione anche al di fuori della rete. Ultimamente sono diventata dipendente dalla loro rubrica "Come ca**o hanno fatto?" dove spiegano tutti i segreti dietro la realizzazione delle scene più interessanti e assurde del cinema. Ormai ho deciso: se rinasco voglio fare l'esperta di effetti speciali, effetti visivi e pure scenografa di colossal. Ecco.

In piena pandemia tendiamo a scordarci gli altri problemi di questo pianeta. Male, molto male. La state facendo ancora la differenziata, nevvero?
Comunque, vi consiglio un modo per divertirvi e rinfrescarvi la memoria. 
Michela Leonardi – donna di scienza, in gambissima e amica mia – si è inventata un gioco tutto nuovo che si chiama Climate Change. Potete scaricare il file e stamparvi a casa board game, carte e segnalini, oppure giocarci direttamente online. Gratis.

Infine, per gli appassionati di scrittura ho due consigli: The catcher, il magazine della Scuola Holden che trovate su Medium; e, ovviamente, il mio Laboratorio Condiviso di Scrittura con un esercizio tutto nuovo.

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Pensavate che i consigli fossero finiti qui? In realtà lo pensavo anch'io ma un minuto prima della pubblicazione mi sono imbattuta in questo video ADORABILE! Quindi, ora, con l'ultimo regalo al volo per questo mese vi saluto. Ridete, state sereni ma, soprattutto, state attenti.

Un abbraccio, molto virtuale, a tutti!

Vi è piaciuto questo post? Codividetelo!


Da quando ho inziato quest'avventura del Laboratorio Condiviso di Scrittura (ufficialmente lo scorso gennaio ma nella mia testa poco prima di Natale) ho preso a raccogliere idee per gli esercizi in una nota sul cellulare. Esercizi classici, cose lette in giro, cose inventate di sana pianta, ispirazioni estemporanee. E, a proposito di ispirazioni estemporanee, parecchi mesi fa ho sentito una parola, credo durante uno spettacolo d'improvvisazioen teatrale, l'ho sentita ed ho pensato: questa sarebbe perfetta per il Laboratorio!

Consideratela un titolo, la protagonista o una semplice remota ispirazione, fatene un po' ciò che volete, sentitevi liberi come l'aria, io ve la lascio qui, ve l'appoggio qua sul blog, la parola è CartoAmante. Non deve neanche essere presente nel vostro testo ma, leggendolo, io devo pensare "eccola là, CartoAmante!" 

Scrivete un racconto, una poesia, un monologo, un dialogo, ciò che più vi aggrada. Stupitemi come solo voi sapete!

Tipo di testo: racconto, poesia, monologo, dialogo, quello che vi pare... 
Lunghezza testo: dagli 800 agli 8000 caratteri. 
Email: janecole@live.it. 
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura. 
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno. Scadenza per far pervenire il testo: domenica 15 novembre 2020, ore 12.

Volete leggere tutti i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.
Per questo esercizio, in uno sfoggio di esuberante generosità ho regalato ai partecipanti al Laboratorio Condiviso di Scrittura diversi personaggi. Nello specifico: il bambino prodigio, il musicista disoccupato, la ragazza madre, la trapezista, il contadino col fucile, la nonna anaffettiva e l'astronauta. Sette personaggi tra cui sceglierne almeno tre da inserire nelle vicende narrate.

Non si può dire, certamente, che questa volta io abbia badato a spese ma, con grande gioia, devo ammettere che la mia munificenza è stata ampiamente ricompensata dal lavoro dei partecipanti al Lab.


La bruma autunnale ricopriva il campo del signor Giovanni, quella domenica mattina. I primi raggi di sole facevano balenare la nebbiolina a pochi centimetri dal terreno, facendola assomigliare ad una soffice coperta. L’aria era ancora fresca dalla notte appena passata ed il signor Giovanni camminava soddisfatto lungo il bordo del suo campo, il fucile ben assestato sulla spalla destra, il cappello floscio calcato sulla testa. Aveva appena finito di piantare le verdure autunnali – radicchio, broccoli e coste – ed era molto orgoglioso del lavoro appena concluso. Tutti i filari erano ben ordinati, le parti aeree delle sue verdure sfilavano a perdita d’occhio in righe perfettamente parallele. 

Non avrebbe consentito ai conigli, alle lepri ed ai cervi di rovinare il suo splendido lavoro ma amava troppo gli animali per ucciderli. Spaventarli, però, poteva farlo; caricare alcune cartucce con grani di sale grosso aveva risolto la situazione lo scorso ottobre, e così Giovanni si ritrovò a pattugliare il suo campo anche quest’anno. Ricordò come le lepri correvano a perdifiato quando il fucile Beretta faceva sentire la sua voce e una risata uscì spontanea, avvolgendogli il volto col vapore del suo fiato. 

Era ancora perso nei suoi pensieri quando la sua vista, ancora acuta nonostante l’età, colse un movimento all’angolo opposto del campo. Pensando ad un erbivoro intento a sgranocchiare le sue piante, si avvicinò con circospezione e rimase stupito davanti alla scena che gli si presentò davanti. 

Una donna era in piedi di fianco ad un bambino, il quale stava dipingendo su una tela appoggiata ad un cavalletto; la sua espressione era molto concentrata e la sua manina sinistra reggeva un pennello con molta sicurezza e maestria. Il sorriso orgoglioso della donna che doveva essere sua madre si vedeva a venti metri di distanza. Giovanni si avvicinò. 

“Buongiorno, è strano veder dipingere da queste parti”. 
“Buongiorno a lei, a mio figlio piacciono molto questi paesaggi e così l’ho accompagnato per ritrarre questo splendido campo. Spero di non disturbare nessuno”. 
“No, non si preoccupi, siete al bordo del mio campo e non rovinate niente.” Giovanni si avvicinò alla tela e guardò meglio il dipinto. Rimase stupefatto da quello che vide. “Ma è meraviglioso! Sembra una fotografia! Questo bambino è incredibile!”. 

La madre sussultò d’orgoglio e rispose: “Mio figlio, Leonardo, cominciò a dipingere ancora prima di imparare a scrivere. Dapprima con delle semplici matite, adesso è passato ai dipinti a olio e domani chissà!”. La donna fece una risatina e prese un foglietto piegato dalla tasca del vestito “questo l’ha disegnato quando aveva tre anni, il giorno in cui il mio compagno venne ricoverato. Lo fece seduto nella sala d’aspetto. Fu l’ultima cosa che il mio compagno vide prima di…”. Il volto della donna si rabbuiò per un momento poi proseguì: “Da quel momento in poi non ha fatto altro che disegnare e dipingere ad ogni occasione”. 

Giovanni prese il foglio e lo guardò. Ritraeva un cavallo disegnato in modo assolutamente perfetto. I dettagli, i muscoli del collo, la criniera. Sembrava una fotografia. Giovanni era assolutamente esterrefatto dalla bravura di questo bambino che non poteva avere più di sei anni. Quando aveva la sua età, suo figlio era solamente in grado di allacciarsi le scarpe da solo, ed infatti era cresciuto buono a nulla. 

Stava ancora meditando su queste cose, quando un’ombra passò rapidamente sul suo campo visivo. Una scia di fumo tagliò in due il cielo ed un oggetto si schiantò esattamente al centro del suo campo, lasciando un solco profondo ed un piccolo cratere dove l’oggetto si era schiantato. Il suo cervello ci mise qualche secondo per riprendersi dallo shock, ma poi realizzò il disastro appena compiuto. Cominciò a correre verso il cratere, insieme alla donna. Una volta arrivati, videro che l’oggetto era conico, con una base convessa ed una bandiera americana sul fianco, insieme alla scritta NASA. Subito dopo essere arrivati, un grosso paracadute si afflosciò sull’altro lato, staccandosi poco dopo e raschiando il terreno mentre veniva trasportato via dal vento. 

“Una capsula spaziale!” esclamò la donna. 

Giovanni si avvicinò con prudenza alla capsula che ancora scottava. Aprì con delicatezza lo sportello e dall’interno si udì una voce che parlava una lingua a lui sconosciuta, ma si capiva bene che era sofferente. La donna si avvicinò ed evidentemente lei parlava quella lingua, perché cominciarono a scambiarsi delle frasi. La donna si voltò verso di lui: “È un astronauta americano della missione Starweed, la caduta deve avergli procurato delle ferite gravi perché non è in grado di muoversi. Io non sono un medico, non so cosa fare” 

Anche Giovanni non lo sapeva; da poco erano stati immessi in commercio dei dispositivi che ti consentivano di telefonare anche in mezzo al niente, e con uno di quegli affari avrebbe potuto chiamare i soccorsi; ma erano ancora troppo pochi e troppo cari e Giovanni non sapeva cosa farsene.

All’improvviso, la capsula fu circondata da un numero impressionante di fuoristrada verde oliva con delle targhe strane, seguiti a breve distanza da un camion con argano. Tutti intorno alla capsula, tutti sul suo campo. Dalle auto scesero un numero impressionante di militari equipaggiati di tutto punto, seguiti da qualche medico in camice bianco. Aiutarono l’uomo ad uscire dalla capsula che guardandoli riuscì solamente a mormorare un “Thank you so much!”, lo caricarono su un fuoristrada dopo averlo visitato velocemente, il camion sollevò e caricò la capsula, insieme al paracadute. Nel giro di quindici minuti tutti i fuoristrada ed il camion erano spariti, lasciando un campo devastato ed un signor Giovanni in lacrime. La donna si avvicinò a lui e disse: “Mi hanno detto di darle questo”. 

La donna gli porse un biglietto che riportava questa frase: “Grazie per la sua collaborazione. Provvederemo a rifondere i danni subìti dalla sua proprietà. Per favore, contatti l’amministrazione locale delle forze armate statunitensi e gli dia questo cartoncino, provvederanno a tutto loro” 

Le lacrime fecero spazio ad un largo sorriso. Il suo campo era salvo, almeno a partire dall’anno prossimo. Si voltò verso la donna e la invitò a pranzo insieme a suo figlio. I due accettarono di buon grado e così si incamminarono verso la cascina. Avrebbero avuto molto di cui parlare.

Beppe Carta





Era la tipica domenica d'ottobre 
Il cielo era grigio e l'unica cosa che intendevo fare era prepararmi il caffè per poi tornare a letto a leggere 
Nella mia testa pregustavo già il momento. 
I cuscini sistemati a dovere, la coperta morbida e calda e "il mondo di Sophie", un libro che avevo iniziato a leggere almeno 3 volte ma che non riuscivo a farmi piacere a sufficienza per finirlo, quando all'improvviso degli spari mi fecero sussultare 
Era il mio vicino di casa, un contadino vecchio stampo e un po' ottuso che tutti gli anni, all' inizio della stagione di caccia, imbracciava il fucile e sparava a qualsiasi cosa si muovesse 
Lo odiavo!!! 
Così, visto che concentrarmi sulla lettura era pressoché impossibile, decisi di fare ciò che mi proponevo da tempo, andare a Volterra a visitare il museo etrusco 
Era da quando avevo letto il libro di uno dei miei autori preferiti, Valerio Massimo Manfredi, che desideravo andare a vedere una cosa in particolare, ovvero la piccola statua chiamata "l'ombra della sera" 
Oggi è il giorno perfetto mi dissi e Volterra dista poche decine di km da casa mia 
Così mi preparai, prima di uscire misi i croccantini a Macchia e Yoghi che altrimenti al mio rientro, permalosi come sono, mi avrebbero miagolato per 2 ore indispettiti. 
Salii in macchina e feci partire il solito cd 
"anche oggi mi sono scordata di prenderne un'altro a casa " dissi a voce alta come per giustificare la mia sbadattaggine 
"I migliori anni della nostra vita, stringimi forte che nessuna notte è infinita... " cantare e guidare mi dava un senso di pace, sopratutto quando lo facevo col volume altissimo e a squarciagola 
Arrivai al parcheggio poi, seguendo le indicazioni, mi incamminai verso il museo quando delle note struggenti mi fecero fare una deviazione 
Seduto su un piccolo sgabello c'era un uomo sulla cinquantina, aveva un bel vestito anche se un po' logoro, era alto, magro con dei bellissimi riccioli neri, gli occhi profondi e malinconici 
Col suo violoncello intratteneva due o tre passanti anche loro, come me si erano fermati per ascoltare quella musica suonata meravigliosamente 
Davanti a lui la custodia aperta del suo strumento musicale e un cartello: 
"Mi chiamo Carlo, sono un musicista, ho suonato in quasi tutti i maggiori teatri del mondo, ero felice e appagato 
Il destino mi ha tolto tutto 
Non ho più niente, solo il mio violoncello 
Spero di rendervi felici con la mia musica" 
All'improvviso mi sentii molto triste e cercando di non dare troppo nell'occhio misi 2 pezzi da 20 nella custodia e andai via 
Le note mi accompagnarono fino all'ingresso del museo 
Pagai il biglietto ed entrai 
Ogni volta è come se venissi trasportata magicamente in un luogo senza tempo 
Mi piace andar per musei, leggere tutte le descrizioni, le date e cercare di immagazzinare più nozioni possibili 
Presa dalle mie considerazioni non mi resi subito conto della voce stridula che arrivava dalla sala accanto 
"basta per piacere, non puoi guardare e stare zitto!" 
Era una signora anziana a parlare, accanto a lei un bimbo che avrà avuto sì e no 6 anni 
Rimango impressionata dal suo vocabolario forbito, sembra di sentir parlare un professore universitario
"vedi nonna, questa statua denominata 'ombra della sera' risale al terzo secolo a.C. le fattezze potrebbero farla sembrare di un artista contemporaneo visto le proporzioni" 
Il piccolino continuava a parlare sciorinando una cultura impressionante da vero e proprio bambino prodigio 
La nonna accortasi di me e del mio sguardo incredulo mi fece un mezzo sorriso e quasi giustificandosi mi disse : 
"è mio nipote, la madre è fuori per lavoro e mi tocca tenerlo per una settimana 
Tutti dicono che è un genio, secondo me è solo un mostriciattolo pedante" 
Il bimbo continuava a parlare incurante del commento, come fosse isolato nel suo mondo fatto di nozioni e storia 
Quella nonna antipatica e anaffettiva mi mise di malumore così decisi di uscire 
"forse nemmeno oggi è la giornata giusta per dedicarmi ai musei" pensai! 
Appena fuori mi diressi verso l'angolo dove c'era il musicista disoccupato 
"Carlo, se mi suoni qualcosa di allegro ti porto a pranzo fuori " gli dissi tutto d'un fiato 
Andammo in una trattoria lì vicino e tra un bicchiere di Chianti e una ficattola con la finocchiona mi raccontò di come da professionista appagato si ritrovò a suonare per le vie della sua città 
Vedi, mi disse, ero molto spesso fuori per lavoro e quando tornavo mi dedicavo alla famiglia e al mio hobby, la moto 
Appena avevo un po di tempo mi chiudevo in garage per smontarla, ripararla e pulirla 
Mio figlio più grande aveva la mia stessa passione così a volte, anche contro il parere di mia moglie, uscivamo insieme e ce ne andavamo noi due soli a scoprire la campagna qui intorno 
Angela aveva sempre paura potesse capitare qualcosa e quella mattina era più ansiosa del solito ma ormai avevamo programmato le tappe e Giacomo non me lo avrebbe perdonato se fossi andato senza di lui 
Era una bellissima domenica autunnale proprio come oggi 
Il motore cantava allegramente mentre noi parlavamo della scuola e della ragazza del terzo banco, quella carina chi gli faceva gli occhi dolci 
Il tono della sua voce cambiò all'improvviso 
"Accadde tutto in un attimo" proseguì 
"una macchina velocissima sbucò dalla curva, aveva perso il controllo e ci prese in pieno 
Non ricordo nulla, solo che mi svegliai all'ospedale da solo 
Per rimettermi in piedi ci vollero due mesi 
Da allora cambiò tutto 
Mio moglie mi addossò tutta la colpa e non la biasimo per questo, se le avessi dato retta nostro figlio sarebbe ancora vivo"
Abbassò lo sguardo e rimanemmo in silenzio per pochi interminabili minuti 
Riprese a parlare con un filo di voce 
"Andai via di casa, trovai un piccolo appartamento in affitto ma non mi rassegnavo a quello che era successo, così iniziai a bere per stordirmi e non pensare 
Non andavo alle prove o arrivavo in ritardo e ubriaco così mi cacciarono dall'orchestra 
Questo è tutto, ora sono senza un lavoro e senza una famiglia, sopravvivo grazie alla generosità delle persone 
Ho solo pochi attimi di felicità 
Quando suono e quando vado davanti alla scuola di Matteo, mio figlio più piccolo, per vederlo uscire prima che salga in macchina dove lo aspetta mia moglie per portarlo a casa" 

"sai, lui è una specie di bambino prodigio" aggiunge 
Legge da quando aveva 3 anni ma non cose da bambini 
È affascinato da tutte le materie umanistiche ma sopratutto dalla storia antica 
La sua passione sono gli Etruschi" 
Lo fermo! 
"Credo di averlo incontrato oggi", gli dico 
"Era al museo con la nonna" 
Accenna un sorriso 
"È Giovanna la megera, io chiamo così la mia ex suocera, a dirla tutta la chiamavo così anche prima" mi dice ridendo poi aggiunge, 
"è una donna strana, anaffettiva 
Mia moglie mi raccontava che non le aveva mai dato un bacio, nemmeno da piccola"
 
"Credo di averti annoiato" 
"Assolutamente no", rispondo prontamente, "starei ad ascoltarti per ore ma temo che il ristorante stia chiudendo" dissi guardando i camerieri che sparecchiavano e spazzavano il pavimento 
Eravamo rimasti solo noi 
Uscimmo e ci salutammo con un abbraccio come fossimo due vecchi amici 
"torna ti prego, non parlo mai con nessuno e tu sei così carina ad ascoltarmi" 
Poi, sussurrandomi in un orecchio mi disse : "la prossima volta ti racconterò di quando da ragazzino vivevo al circo con i miei genitori, mio padre era un trapezista!" 

Antonella Carta





La tradizione in India era che i trapezisti iniziassero i loro allenamenti all’alba, prima che il grande calore rendesse fiacche le membra e insicure le loro menti. 
Solvig aveva finito da qualche mese le riprese del film che l’aveva resa famosa, una specie di fiaba in bianco e nero in cui un angelo cadeva dal cielo, diventava uomo, girovagava per la città, si innamorava di una trapezista, declamando riflessioni profonde sul senso della vita. 
Il film era stato un successo di critica e pubblico, ma Solveig si era stancata presto di tutto quel chiasso mediatico ed era fuggita in oriente. Non avrebbe mai potuto permetterselo, con quello che guadagnava nei circhi di seconda categoria. 

Da quando era in india, Wim, Il regista, la chiamava spesso. Voleva girare il sequel dell’angelo: “pensavo a un titolo facile, per esempio: il cielo sopra Torino. Hanno già fatto una canzone, ho immaginato che il gruppo che l’ha incisa potrebbe essere presente nella sequenza iniziale, e poi comparire ogni tanto” 
“Wim, non so neppure dove sia Torino” 
“te lo mostro su Google" 
ma Solveig aveva altro per la testa, doveva concentrarsi sul triplo salto mortale, e rinforzare i polpacci. La vita mondana l’aveva un po’ rammollita. 
“Scusa, ho pochissima batteria e sono in un villaggetto disperso nel nulla, devo riattaccare” 
Volteggiava tra gli alberi della foresta, tra foglie grandi come un ombrello e uccelli multicolori che smettevano di cantare quando lei gli saettava accanto, sudata e felice. Si era costruita un complicato meccanismo con carrucole e corde di liane intrecciate per raggiungere le vette del cielo, viveva in una casupola di pochi metri quadri e si faceva la doccia sul retro del cortile con una scodella di acqua piovana. 
Aveva affittato l’abitazione di cartone e lamiera da una vecchia molto taccagna, che le aveva chiesto un affitto esorbitante. 
“ma non c’è neppure il bagno” aveva protestato Solveig 
“il campo, c’è il campo” aveva risposto la donna. Sorrideva con le gengive, agitando le braccia rinsecchite luccicanti di braccialetti. 
“Non lo chiedo per me, ma per i miei cinque nipotini, la mia unica figlia è fuggita con un brasiliano e me li ha lasciati sul groppone” 
Solveig però non vedeva bambini in giro: erano forse a scuola? 
“No” aveva risposto la nonna “sono al lavoro nella fabbrica di tappeti” 
Al lavoro? MA quanti anni avevano? 
“il più grande ha 12 anni e il più piccolo 4, vivono nella fabbrica del signor Gupta, che li nutre e li protegge, così non corrono pericoli, povere creature” aveva risposto orgogliosa la nonna. 
Solvieg scrutava il volto della vecchia, cercando una direzione che le permettesse di non cadere nella dimensione giudicante occidentale. 
Sentiva intorno a lei il canto vibrante degli uccelli nella foresta, l’armonia del cosmo le penetrava nel sangue, raggiungendo le sue membra muscolose. 
“questa vecchia deve schiattare” aveva pensato. 

Vedeva spesso il contadino con il fucile girovagare nei paraggi. Forse era interessato all’arte circense, oppure era attratto dalle sue cosce nude. Quella mattina cadeva una pioggia sottile, le liane erano scivolose e Soleveig si sentiva vagamente depressa. 
La vecchia non si era ancora vista, probabilmente dormiva ancora, mentre i suoi nipotini si erano svegliati alle quattro per iniziare la loro giornata di lavoro di sedici ore. 
“Salve” aveva detto il contadino. 
“Salve” aveva risposto Solveig, notando per la prima volta che il ragazzo aveva al massimo vent’anni e non era male, portamento elegante, denti bianchissimi e carnagione color torta di cioccolato ben cotta.
Era scesa per fare quattro chiacchere: 
“come mai vai sempre in giro con quel fucile? “ 
“Difendo la zona da animali feroci, lo faccio per hobby, quando non ho niente da fare nei campi. Nei tempi morti” 
“Che tipo di animali feroci ci sarebbero, da queste parti? “ 
“Oh di tutto, serpenti, tigri” 
Il ragazzo fissava le sue gambe tornite, sorridente, con le perle immacolate al posto dei denti. 
“il punto è” aveva detto Solveig “che io non sopporto l’idea di quei bambini rinchiusi nel capannone dei tappeti” 
“lo trovi strano, capisco. Per voi è inconcepibile, ma qui è normale” 
Aveva l’aria pacifica, con il suo fucile a tracolla e il sorriso più dolce del mondo, ma a Solveig ricordava Lo stesso il primo della classe che ti spiega una lezione a te che ti sei distratto, perché sei un coglione e pensi solo al divertimento. Si era sentita fieramente occidentale: 
“ragazzo, guardami bene: tutto questo misticismo di merda, le pagode, le bandierine, Ganesh e compagnia bella, non servono a niente se si imprigionano i bambini, e li si fa lavorare come schiavi.” 
E se ne era andata nella casupola, sbattendo la porta di lamiera così forte che a momenti veniva giù il tetto di paglia. Quasi quasi faceva le valige, chiamava Wim, e gli dava appuntamento a Torino o come cazzo si chiamava quel posto sperduto. 

Ma non era partita. Si era messa di impegno, in fondo era anche un’attrice, oltre che trapezista. 
Nel giro di una settimana si era data da fare e aveva attivato una tresca con il contadino, rendendolo suo alleato. Lo aveva introdotto ai diritti umanitari, e alla protezione dei minori, con lezioni sempre più intense e raffinate. Alla fine, lo aveva convinto a passare all’azione. In una notte di luna nera, si era arrampicata sul tetto del capannone, aveva rotto un vetro del lucernaio, ed era scesa nelle viscere della fabbrica. 
Mentre il contadino con il fucile faceva la guardia sul retro, armato de suo fucile, lei aveva individuato i cinque fagotti che dormivano rannicchiati, tra la sporcizia e lo squallore. 
Per non spaventare i bambini, si era vestita come se dovesse andare in scena: body azzurro, paillette sparpagliate tutto il corpo e ali di velo che le penzolavano dalla schiena, una torcia rivestita di alluminio per alimenti per simulare una bacchetta magica. 
I bambini la fissavano sbalorditi, e lei, approfittando del loro stato di stupore sonnolento, li aveva convinti a farsi legare come salami. Il contadino, dall’esterno, manovrava con destrezza le corde e le carrucole, travestito da corsaro nero. 

E la nonna? Solveig l’aveva affrontata la mattina seguente, spiegandole che i bambini erano liberi e al sicuro, nella casa del contadino, che si era scoperto essere maritato con una giovane moglie di sedici anni incinta del primogenito. 
Solveig non aveva avuto problemi a convincerli per l’adozione, corrompendo contemporaneamente il capo del villaggio, un poliziotto, il proprietario della fabbrica. 
Praticamente aveva speso quasi tutto il suo compenso del cielo sopra Berlino. 
“non mi importa di quei marmocchi” aveva detto la nonna, mostrando indifferenza “i soldi che avevo guadagnato con la loro vendita me li sono già persi i tutti al poker”. 
Solveig l’avrebbe stesa volentieri con un pugno, ma si era detta che non ne valeva la pena. In fondo, si trovavano pur sempre nella patria di Gandhi. 

Solveig stava per atterrare in quel posto assurdo, Torino. La cittadina non sembrava poi così male, aveva un fiume azzurrino a serpentina, vie squadrate, qualche macchia di verde qua e là. 
Wim l’aspettava all’hotel, l’avrebbe presentata alla troupe, poi breve giro per la città, e per finire la cena con il gruppo musicale del cielo sopra Torino: 
“Vedrai, ti porterò a vedere una bella piazza, una delle più grandi d’Europa, e durante le riprese abiterai in una bella casa sulle pendici delle colline”. 
L’importante, per quello che la riguardava, è che nei paraggi ci fosse un circo dotato di trapezio.

Barbara Fiore



Lucida, lucida, lucida Gianni. Lucida che deve brillare, metti altro Sidol e ricomincia Gianni, lucida, lucida, lucida, anche se ti fa male il gomito, anche se ti tira il tendine. 
Lucida, lucida, lucida, che è il lavoro delle femmine, e se lo fanno loro lo puoi fare anche tu. 
Lucida e sta giù con la testa proprio come diceva la nonna Maria: sei buono solo a fare andare le mani, proprio come tua madre! La nonna Maria la sapeva lunga, lei sì che sapeva le cose, le sapeva tutte. 
Lei la vita l’aveva capita tutta, non come me e la povera mamma. 
Le pentole di rame le lucidavo tutte io, tutte le sere davanti al camino. Questo stupido camino che mangia legna come se fosse senza fondo. Avessi fatto il boscaiolo non l’avrei avuto no il problema del legno, proprio no. Ma solo il campo c’avevamo, che dovevo fare con le mie manacce inutili? 
Lucida, lucida Gianni prima che si spenga l’ultima brace, e poi farà troppo freddo anche per te, anche se c’hai la pellaccia, anche se dicono che i contadini ce l’hanno dura a morire. Non è vero niente, che di freddo si può morire e lo sai bene. 
Questa stupida casa, questa stupida vita, ma solo questa potevo fare. Le mani da contadino c’avevo, aveva ragione la nonna Maria, braccia forti e niente cervello come quello lì che se n’è andato e mi ha lasciato con la mamma. 
Non era colpa della mamma no, ma la nonna c’aveva ragione, che stupida è stata a farsi incastrare da uno così sparito in meno di un autunno lasciandole un figlio bastardo, che ero io il bastardo, sì io lo so, non c’ho mica vergogna. Io son il figlio bastardo e la nonna c’aveva ragione. Lei sì la sapeva lunga, la sapeva la vita, a lei non sarebbe successo. 
Però la mamma era buona non c’aveva la colpa, le era successo, lei si fidava troppo. E io che dovevo fare, io facevo quello che faccio adesso. 
Faccio quello che mi dice la nonna, lucido, lucido, lucido, col Sidol che è ancora l’ultimo barattolo che m’aveva comprato la mamma. Ma devo smettere di accalcarmi sti pensieri che poi non lucido bene, che mi bruciano gli occhi e non vedo, che l’acqua col sale non fa bene al metallo e non la posso mischiare col Sidol. Che se mi si bagnano gli occhi non vanno le mani, e le mani sono l’unica cosa che so fare andare. 
Stupido Gianni che non c’hai il controllo né della tua testa né del tuo corpo, lucida, lucida, lucida, che c’hai grandi cose da fare domani mattina e devi finire prima che l’ultima brace si spenga. 
Che poi non c’hai colpa Gianni se le cimici cinesi ti hanno distrutto il mais, e se le vespe samurai non ce l’hanno mica fatta, e tu da tordo c’hai speso gli ultimi soldi che c’avevi. È che c’hai l’anatema del figlio bastardo, a te non ti può andare bene niente, e le mani forse non son buone nemmeno pei campi, forse giusto lucidare puoi. 
Come quando c’avevo sette anni che il Maestro Roberto c’aveva detto alla mamma che io alla lezione di musica ero tipo quel tedesco pazzo, quello dei libri con le righe sottili, quel Mozart, perché il maestro Roberto c’aveva pensato che queste manacce da contadino ci potevano suonare al pianoforte. 
La mamma era stata contenta, Giannino vuoi suonare il pianoforte? Ma la nonna c’aveva avuto ragione lei, che non c’aveva senso che non era vero che ero buono e che comunque c’avevo il campo da fare andare ora che il nonno era morto, e la mamma non aveva saputo tenersi un uomo. 
Che poi non è vero che mi piaceva suonare, il maestro Roberto era bravo con me ma i bambini mi ci chiamavano bastardo sottovoce una volta che avevo finito il pezzo, e io che c’ho l’orgoglio di esserlo non mi importava niente, ma comunque non mi piaceva suonare, non così tanto. 
Io c’ho le mani per far le cose rudi non per far le cose da signorina, e infatti la dimostrazione è quanto splende questo pezzo di metallo che c’ho tra le mani, che finalmente l’ho lucidato fino a finire la bottiglia di Sidol della mia cara mamma. 
Che ora manca solo da caricarlo, che c’ho speso gli ultimi spicci che c’avevo perché domani è il giorno in cui vado a fare il botto con questo. 
Col fucile del nonno ci vado alla banca, e alla mamma non ci piacerebbe e piangerebbe tanto, ma ormai ho capito che c’aveva ragione la nonna, ci dobbiamo prendere tutto quello che possiamo, perché nessuno ci da più niente. 
E io domani vado lì e non glieli chiedo io i soldi, cara mamma, glieli chiede il fucile del nonno, che ora luccica come i tuoi occhi, ma profuma di Sidol proprio come la nonna. 

Marina Alice Cibin



Lo sapevo! 

Non smette di piovere da ieri sera ed in questo bosco cittadino così fitto si sente l’odore tipico della terra bagnata, più intenso quando trova un suolo di partenza più secco a causa della siccità, che adoro e mi fa ricordare quando con tutta la famiglia ci avventuravamo ogni anno per la prima volta a raccogliere castagne. 

Peccato che abbia il fango fino al ginocchio e che per muovermi di mezzo metro impieghi 5 minuti. 

Maledetti lavori socialmente utili! 

Noi supereroi non siamo tutelati dalla legge: salviamo le persone, facciamo buone azioni e poi... basta passare col rosso ad un semaforo aereo durante l’inseguimento di un criminale e zac… vieni punito. 

Non c’è più giustizia. Per di più c’è anche un testimone, il tecnico che stava osservando la migrazione programmata degli sciami di 10 specie protette dalla Comunità dei Pianeti Alleati. 

2692 mosche tzè tzè, 957 api blu, 562 cavallette del Mar del Nord, 103 zanzare sorridenti: questi sono i numeri di piccoli animaletti ed insetti che avrei ucciso, secondo il rapporto della polizia. 

Del tutto involontariamente! E non mi ha aiutato provare a spiegare a chiunque che stavo inseguendo un ragazzo che aveva buttato la plastica nel cassonetto dell’umido del palazzo dei vicini. Io sto sempre dalla parte dei più deboli. 

La conseguenza? Ogni 27 del mese per i prossimi 2 anni e 3 mesi, la Fata ufficiale della Questura mi toglie ogni potere. Non posso più volare, non ho più forze particolari, non vedo al buio. 

La stessa fata mi fa recapitare a casa qualche giorno prima un bigliettino con scritto sopra un luogo ed una persona: il primo mese, per esempio, il biglietto diceva “musicista disoccupato – Orient Express”. 

Al ristorante Orient Express del quartiere Sarpi ho trovato un ragazzetto giapponese piangente sul tetto del piccolo edificio, tremante e col suo sassofono in mano. 
“Hey tu!” – ho urlato. 
Nessuna risposta. 
“Scendi!” 
Nessuna risposta. Ma ho visto volare vicino a me il sassofono. 
Sono riuscito finalmente a salire sul tetto e, dopo alcune ore, a convincerlo a non buttarsi. 
Scendere le scale, la prima volta, e trovarsi di fronte la nonna di Al – cioè del ragazzetto – che avevo nel frattempo scoperto essere la causa principale della sua depressione, mi aveva lasciato un senso di meraviglia e di disperazione. 
La vecchietta compunta, con una lunga treccia bianca e degli occhialini tondi alla John Lennon, aveva uno sguardo triste ma allo stesso momento così pungente ed intenso, che io non riuscivo a sostenere. Eppure sembrava così indifesa. 
Indipendentemente dall’aspetto, Al mi aveva raccontato quanto lei fosse glaciale che non le avesse mai fatto un complimento, nemmeno quando lui era stato preso all’Accademia di Musica Interspaziale. Anzi, forse lei si era sentita abbandonata, a causa del conseguente trasferimento. 
Insomma, dopo un breve scambio di frasi con lei, in men che non si dica eravamo tornati entrambi sul tetto. Quella giornata è stata un duro e lungo salire e scendere, tra il tetto e la nonna. 

Questo mese, invece, è capitato “Boschetto di Rogoredo - trapezista”. 
Ma cosa sarà venuta a fare una trapezista in un bosco il 27 del mese? Raccogliere castagne? Fare esercizio col trapezio appeso ad un albero? Sperperare il suo stipendio in droghe? 

Mentre bestemmiavo contro il mondo e contro le mosche tzè tzè, ho sentito un urlo in lontananza alle mie spalle. Un “Banzai” così lungo che mi sono voluto girare per capire cosa stesse succedendo. 
Un signore con un fucile stava correndo nella mia direzione. 
Ho scoperto che è così facile camminare nel fango, se trovi un appiglio alla James Bond, ne salti fuori e corri più veloce possibile, alla Taz. Qualcuno mi disse, davanti al cartone animato, “Certo, maggiore è la velocità perpendicolare alla superficie mentre corri, minore è la forza che applichi sulla superficie stessa. La somma delle forze rimane pari a zero e quindi il sistema rimane in equilibrio!” 
Ed io non ci avevo creduto. Fino adesso. 
Dopo alcuni meravigliosi metri, con un altro balzo mi sono aggrappato ad un ramo di un albero con due mani, fatto due giri carpiati, per poi lasciarmi andare e cadere in piedi in equilibrio su un altro ramo.
“Bravo” – disse una voce alle mie spalle. 
Eccola lì, la trapezista! 
“Hai visto anche te il contadino impazzito? Sembra che questi alberi di castagne siano suoi e che, non riuscendo a trarne profitto a causa dei ladri di castagne e del giro di drogati, sia impazzito e vada in giro urlante e sparando a chiunque veda. Sta riuscendo in quello che anni di retate di polizia non hanno fatto...” – rise sorniona – “Io cercavo una dose, ma non sono proprio riuscita a trovare nessuno”. Si fermò un attimo e mi guardò finalmente dritto in faccia: “Sei uno sbirro?”.
Io, che stavo cercando di riprendermi dalla forte fitta alla schiena sopraggiunta dopo il salto, risposi con un veloce “no, no”. Forse però avrei dovuto cambiare lavoro. 
“Vuoi un po’?” – disse la trapezista porgendomi la canna che stava fumando – “Intanto mi accontento di questo.” 
Perché no? 
Passammo tutta la sera a ridere e a scherzare. 
“Sei bravo nei trick. Io ho bisogno di un partner lavorativo. Vieni ad allenarti con me domani.” 

In quel momento sentimmo di nuovo il “Banzai” del povero contadino sotto i nostri piedi. 

Perché no? Forse è proprio il momento di cambiare lavoro.

Marianna Palmerini



Anja cullava il piccolo tra le braccia sottili. Lui si lamentava piano cercando cibo e rifugio tra i seni  vuoti di lei.
"È tardi, fallo smettere" spuntò la testa assonnata di Vladi al fondo della roulotte.
"Ha fame"
"E chi non ne ha?"

La pioggia spazzava il campo da più di una settimana. Ruote e gabbie affondavano nel fango, artisti stanchi e animali infelici vivevano bloccati in un incubo grigio ed umido. Il tendone, colorato feticcio di un orgoglioso passato, era un fradicio colabrodo ripiegato su se stesso.
All'angolo della strada i manifesti si scollavano e finivano a sbriciolarsi sull'asfalto. Non che servissero a qualcosa ormai. Il tempo infame era solo l'ultimo chiodo sulla bara di un Circo che nessuno amava più.

Anja, tutta ossa e niente latte, cercava di convincere il bambino a succhiare una sottile fetta di mela. Vladi, che aveva rinuciato a prendere sonno, stendeva i muscoli all'interno dello spazio angusto.
"Devo continuare a tenermi in forma," diceva lui "la pioggia prima o poi finirà e io tornerò sul trapezio".
"Sei così magro" rispondeva lei, osservando il corpo ogni giorno più fragile del fratello. 

Un timido pugno bussò alla porta di lamiera. 
"Questa notte non dorme nessuno" disse Vladi andando ad aprire.
"Che ci fai qui?" chiese a un'ombra fradicia con i piedi nel fango e una fisarmonica sotto il cappotto.
"Non sapevo dove altro andare" gli rispose.
Lui l'avrebbe lasciata volentieri là a sciogliersi in una pozzanghera e sparire nella terra. Che a sparire lei era tanto brava. Ma, dal fondo della roulotte, arrivò a entrambi la voce di Anja: "Entra pure mamma, avevo proprio voglia di un po' di musica".

Jane Pancrazia Cole

Se vi sono piaciuti i racconti e vi piace il Laboratorio di Scrittura, condividete!


Quanto sono generosa, signori miei!

In questi 10 mesi di Laboratorio – sì, ormai sono quasi 10 mesi – vi ho riempito di doni. Vi ho "regalato" incipit, illustrazioni, situazioni, famiglie intere! Insomma, non vi potete proprio lamentare. E, anche questa volta, non ho badato a spese.

Per il Diciottesimo Esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura, ho deciso di farvi dono di 7 personaggi. A una sola condizione, però, dovrete usarne almeno 3 nel vostro racconto. Almeno 3. Non devono necessariamente esserci solo loro nella vostra storia, e non devono neanche essere i protagonisti, se non vi va, ma devono essere presenti e riconoscibili, mi raccomando!

Ecco a voi i mie sette doni:

  • il bambino prodigio
  • il musicista disoccupato
  • la ragazza madre
  • la trapezista
  • il contadino col fucile
  • la nonna anaffettiva
  • l'astronauta

Ogni personaggio può essere anche volto al sesso opposto. Mi spiego, potete avere come personaggi anche una bambina prodigio o un ragazzo padre. Come sempre, la libertà di movimento e scelta, non vi mancherà!

Trovate il riassunto di tutte le informazioni utili qua sotto. 
Partecipate numerosi e condividete il post. Perché più siamo e più ci divertiamo!

Tipo di testo: racconto, poesia, monologo, dialogo, quello che vi pare...
Lunghezza testo: dagli 800 agli 8000 caratteri.
Email: janecole@live.it.
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura.
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno.
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 1 novembre 2020, ore 12.

Volete leggere tutti i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.
Questa settimana il Laboratorio Condiviso di Scrittura è tutto una Favola!
O Fiaba? 
Vabbè ci siamo capiti.

Pubblico questo post con un paio di giorni di ritardo, ma voi non perdete tempo e leggete le splendide storie che hanno inventato i partecipanti. Quattro racconti per tre fiabe, nuovi aspetti per storie vecchie che, sono sicura, riconoscerete al volo.

Il mio racconto che, come sempre, è in coda a tutti gli altri, è un vecchio pezzo che faccio e rifaccio, edito e riedito fino a quando, prima o poi, sarà completamente come vorrò io. Ma lasciamo perdere le mie miserie e il mio perfido censore interno, è ora di ringraziare tutti i volenterosi e creativi partecipanti e, come ogni volta, di augurare buona lettura a tutti gli altri!



La sigaretta lasciata sull’angolo del comodino rilasciava volute di fumo azzurrognolo permeando l’aria della piccola camera da letto di un odore acre di tabacco bruciato misto al legno del comodino, la lampada da notte era accesa dando alla camera da letto un’atmosfera intima e confortevole. 

Il lupo però non si sentiva a suo agio; si rigirava nel letto senza riuscire a trovare una posizione comoda e come se non bastasse la vestaglia era stretta e la flanella gli procurava un pizzicore insopportabile. Grattarsi era fuori discussione, le unghie avrebbero stracciato la vestaglia rovinando così la sua copertura. 

Il lupo si rigirò un’altra volta nel letto ed esclamò a voce bassa: “Ma chi me l’ha fatto fare, dico io?”. La sigaretta cadde dal suo angolo e cominciò a bruciacchiare il tappeto. Il lupo la raccolse e diede una lunga boccata. Mentre soffiava via il fumo, si ritrovò a pensare alla sua condizione: “Non dovrei fumare dopo aver mangiato così tanto; come se non bastasse dovrei ben saperlo che mangiare le nonne mi procura acidità di stomaco e le sigarette non aiutano a farmelo passare, anzi. D’altro canto nella foresta il cibo scarseggia, vuoi per il disboscamento dovuto agli umani, vuoi perché, tra inquinamento e piogge acide, le mie prede preferite sono praticamente scomparse e mi tocca arrangiarmi. Certo, gli umani sono buoni, hanno un delizioso sapore di coniglio anche se leggermente più dolce, ma sono difficili da prendere e mi tocca inventarmi questi travestimenti. Senza contare i cacciatori che, oltre a rubarmi le prede, cercano anche di spararmi appena possono come se fossi un invasore del loro territorio. Sono loro che invadono il mio, maledizione!” 

Un moto di stizza gli fece spegnere la sigaretta sul tappeto, ripensando ai cacciatori: “Ed il peggiore di tutti è quel dannato cacciatore che cerca noi lupi. Ormai siamo rimasti in pochi ad essere sopravvissuti alla sua furia. Il branco si è disperso ed ogni giorno sento i suoi spari che uccidono uno di noi. La settimana scorsa è toccato al grigio, il più anziano di noi. Se ne stava lì bel bello a sgranocchiarsi un daino quando all’improvviso PUM! E addio al grigio. Dovremmo organizzarci in un nuovo branco e cominciare a dare noi la caccia al cacciatore, altroché!” 

La cuffietta cominciò a surriscaldare la testa del lupo, che provò a grattarsi facendola cadere. La rimise al suo posto lasciando scoperte le lunghe orecchie pelose: “Ecco, così va meglio. Le orecchie le lascio fuori, tanto quella bambina è così idiota che non se ne accorgerà nemmeno. Incontrarla nel bosco è stato un colpo di fortuna. Una bambina così ingenua da rasentare l’idiozia è raro trovarne. Una ragazzina carina, coi suoi enormi occhi azzurri, il cestino col cibo coperto da un telo di lino da cui si sprigionava un delizioso profumo di focaccine con formaggio e speck e quel ridicolo cappuccio di colore rosso che le avvolgeva la testa. Certo, avrei potuto mangiarmela lì sul posto in un boccone, ma ho pensato che forse poteva portarmi ad altri umani da poter mangiare comodamente, così attaccai bottone”. 

Un terrificante sogghigno uscì dal profondo del petto del lupo che ripensava a quanto fosse stato facile abbordare la ragazzina: “L’educazione apre un sacco di porte e non è stato difficile farmi dire chi era e cosa stava facendo. Ma che razza di nome è Cappuccetto Rosso? Chiamare una bambina col nome del suo indumento preferito è una vera cattiveria da parte dei suoi genitori. E se avesse preferito gli stivali? L’avrebbero chiamata Galosce Verdi? Pazzesco. Comunque è stato facile farmi dire chi era e che stava andando dalla nonna a portarle il pranzo. Da lì la trovata: anticiparla a casa della nonna, mangiarmela, travestirmi da lei ed aspettare con pazienza che la piccola idiota bussi alla porta. Voilà, primo e secondo! Solo non mi aspettavo che ci mettesse tanto tempo, spero solo che non sia stata mangiata da qualcun altro, meno male che ho trovato questo pacchetto di sigarette, a riprova del fatto che anche le persone più insospettabili nascondono dei segreti. Se trovassi anche del whisky sarebbe perfetto”. 

Il lupo si alzò e cominciò a frugare nella dispensa, in cerca della bottiglia. Aprendo un armadietto in fondo alla cucina trovò una collezione di alcolici pregiati: “Uh, guarda qui! Whisky delle isole, rum caraibico, addirittura della vodka russa e del saké giapponese! Li userò per digerire la piccola”. 

Tre timidi colpi alla porta lo scossero dai suoi pensieri: “Ci siamo, si va in scena. Anzi, si va in cena. Per fortuna ho ancora senso dell’umorismo”. Si aggiustò la cuffietta, si rassettò la vestaglia ed andò ad aprire la porta.

Beppe Carta





C'ero una volta, io, la scarpina di Cenerentola 
Siete curiosi miei piccoli lettori?! 
Bene, allora vi narrerò come diventai la protagonista di una delle fiabe più famose al mondo 
Tutto ebbe inizio un bel giorno di primavera 

"oh che bella giornata, ho proprio voglia di una bella zuppa di funghi " disse la fata madrina mettendosi il cappello e prendendo la cesta sotto braccio 
Così uscì di casa allegra e canticchiante e si inoltro' nel bosco fino ad arrivare nella radura che solo lei conosceva e iniziò a raccogliere i funghi 
All'improvviso il cielo si fece scuro e si mise a piovere 
Si sa, in primavera un'acquazzone è sempre in agguato
"ecco, l'unico giorno che non prendo l'ombrello si mette a piovere, ma che sfortuna, per dindirindina" Così iniziò a correre fino a che non inciampò su un ramo caduto dall'albero e batté la testa 
"ohi ohi che botta" disse scrollando la testa 
Si guardò intorno e vide una cesta vuota con tanti funghi sparpagliati intorno 
"oh ma che fortuna! Se non fossi inciampata non avrei mai trovato questi deliziosi funghi e guarda che meraviglia di cesta, ne ho una uguale da qualche parte" 
Raccolse tutto e felice come una pasqua andò a casa a prepararsi un soufflé (la botta era più forte del previsto) 
Ad un certo punto una voce rotta dal pianto giunse alle sue orecchie 
"fata madrinaaaa, fata madrinaaaa, dove seiiii?! 
Perché sono così sfortunata?!" 
Per farla breve saltiamo un po di storia che tanto la conoscete tutti e arriviamo direttamente a Cenerentola già agghindata con trucco, parrucco e abito bellissimo 
Topolini trasformati in cavalli e zucca in carrozza 
Cenerentola felice ascoltò la raccomandazione di tornare entro mezzanotte, alzò leggermente il vestito
per salire in carrozza e inorridita vide 
che ai piedi anziché delle eleganti scarpine da ballo aveva delle orribili ciabatte rosa di peluche 
Le due donne si guardano negli occhi e iniziarono a ridere come due sciocchine 
"scusa Cenerentola, deve essere stata la botta in testa, rimedio subito" 
Alzo la bacchetta magica e formulò l'incantesimo 
BIMBIRIBAMBIRIBU' e opla'...moon boot?! 
BIMBIRIBAMBIRIBU' e 
opla'...stivali da cavallerizza?! 
BIMBIRIBAMBIRIBU' e 
opla'...zoccoli di legno?! 
Al decimo tentativo arrivai io, la scarpina di cristallo destra e mia sorella, la scarpina di cristallo sinistra
Fata madrina esausta voleva riprovare ma Cenerentola la fermò 
"Ah madri' s'è fatta una certa, io vado che è tardi, almeno un ballo me vuoi far fare?! 
Queste scarpe vanno bene, sono un po' rigide ma non vorrei che al prossimo tentativo appaiono gli scarponi degli alpini" 
Così salì sulla carrozza e andò alla festa 
Il finale lo sapete...sposò il principe azzurro e vissero tutti felici e contenti 
E la fata madrina, mi domanderete...?! 
Ebbene smise di andar per funghi e coltivò patate nell'orticello davanti casa.

Antonella Carta



È proprio vero che nella vita si dà per scontato ciò che in definitiva scontato non è. 
Solo adesso posso dire che ero veramente felice, ma non ne ero per niente consapevole: mi svegliavo ogni giorno accanto a te. 

Sono passate poco più di 12 ore da quando quella irresponsabile di Cenerentola mi ha perso ed io, mia metà della mela o, per essere precisi, mia parte complementare del paio, sono senza di te. 

Dicono che niente dura in eterno, ma quella svampita della Fata Madrina mi ha trasformato in Cristallo, una materia così ordinata, così strutturata, brillante, invincibile, che potrebbe durare anche per sempre.
Eppure io mi sento così spersa, così fragile. Senza di te. 

Preferivo di gran lunga essere fatta di tela, fatta di trama e di ordito, piena di animaletti di ogni genere, vecchia e sfilacciata, tanto che ogni giorno sapevamo che poteva essere l’ultimo. Ma ero accanto a te.

Come quando la mamma di quella Cenerentola smorfiosa ci ha scelte e, girando per la città, lavorando sodo, calzavamo quei piedini dolci e cari. Tutto insieme a te. 

Ora sto volando, ti ho sentita, so che sei vicina. 
Sono fuggita da quel cuscino insidioso che stamani mi ha portato in centinaia di case, per tutta la città a toccare, povere la mia tomaia e la mia soletta, piedi che voi altri potete solo immaginare. 

Ma ora ti sento, so che sei vicina, e non mi interessa più niente, dovessi cadere so che mi hai sentito anche te, dalla tasca della smorfiosa irresponsabile. 
E voglio che tutto il mondo ci senta. Perché non ti ho mai detto che ti amo.

Marianna Palmerini



I vestiti paiettati scivolano languidi e sensuali sui manichini rachitici e scoliotici della boutique. Nessun corpo vero di donna sarebbe in grado di indossarli, non sono fatti per contenere fianchi femminili o un accenno di timido seno. Possono vestire solo una dodicenne androgina, con i fianchi stretti, niente vita e due prugne secche al posto delle tette. 

Grimilde si specchia nella vetrina, conta le rughe intorno agli occhi e controlla il turgore delle labbra. L'immagine restituita dal vetro non le piace, troppo stanca e anonima. Sta velocemente sfiorendo, ormai non è più una ragazzina: ha già 27 anni suonati. Praticamente una vecchia. Neanche la bocca tutta nuova, regalatele dalla mamma per il suo compleanno, è sufficiente a migliorare l'insieme. Neanche la crema anti età presa di contrabbando su internet, fatta con il grasso di foca, gli incisivi di panda ed il sangue di vergine, sembra bastare più. Neanche il naso rifatto con i primi stipendi la convince. Forse dovrebbe operarsi un'altra volta. Pacchetto completo, naso e zigomi, magari da quel chirurgo famoso che va sempre in tv. 

I corridoi del centro commerciale sono pieni di ragazzine. Grimilde se le vede passare accanto, chiassose ed allegre, tutte uguali con i loro caschetti lucidi e le bocche a cuore. Non hanno neanche quindici anni ma gli uomini le guardano rapiti con la pupilla dilatata ed il battito accelerato. Le ammirano, le desiderano, le inseguono. Lei odia la loro pelle di porcellana, i loro seni alti ed i fianchi stretti. Farebbe qualsiasi cosa per poter essere di nuovo così giovane e fresca, ingoierebbe qualsiasi pillola, snifferebbe qualsiasi polvere, berrebbe qualsiasi pozione. 

Oppure, se potesse, cancellerebbe tutte queste lolite dalla faccia della terra. Una ad una. Le irretirebbe con frutti deliziosi e poi, carpitane la fiducia, strapperebbe loro il cuore per custodirlo in decine, centinaia, migliaia di scrigni preziosi, nascosti accuratamente nella sua immensa cabina armadio. E allora, solo allora, Grimilde potrebbe tornare a sentirsi "la più bella del reame". 

Peccato che tutto ciò sia solo un dolce sogno, bello come una favola ma altrettanto irraggiungibile. Per consolarsi e cercare di risollevare lo spirito, la nostra ventisettenne, mai abbastanza giovane e bella, non può far altro che dedicare il week end esclusivamente a se stessa ed al proprio benessere. Quarantotto ore tra pilates, spinning, hamman, scrub, ricostruzione unghie, trucco permanente e botulino. Ma, prima di ogni altra cosa, deve fare la sua purga giornaliera. 
Grimilde, purtroppo, non è mai stata capace di vomitare a comando. E quindi si arrangia come può.

Jane Pancrazia Cole

Vi sono piaciuti i nostri racconti? E allora cosa aspettate? Condividete!
Lily Collins nei panni di Emily

Darren Star
, padre – tra le altre cose – di Sex and the City, un giorno andò dal signor Netflix e gli disse: "Signor Netflix, facciamo una serie americana, ambientata a Parigi, con tutti i peggiori cliché che ci vengono in mente?"
E il signor Netflix gli rispose: "Ma certo, che ideona!"

Ed e così che adesso abbiamo Emily in Paris, con Lily Collins – figlia del buon Phil – che va in Francia a insegnare ai francesi come si sta al mondo. Perché loro, si sa, sono tutti stronzi, pigri, non si lavano mai e, durante la guerra, invece di combattere facevano all'ammmore.
Il pubblico francese, per la cronaca, si è incazzato, ma chissà come mai?

Lo confesso ho visto Emily in Paris e mi ha intrattenuta con leggerezza. Ma bisogna dire le cose come stanno: posso anche nutrirmi di junk food con lussuria ma il cibo buono è un'altra cosa! 

Questa serie è una poracciata, un Sex and the City che non ci ha creduto abbastanza, un Gossip Girl con 10 anni di ritardo! Parigi e la cultura francese vengono descritte da un superficialissimo punto di vista americano. Parigi è stereotipata e il punto di vista americano pure. Col risultato che i parigini risultano stronzi e l'americana orgogliosamente chiusa nel proprio provincialismo. Ovvio che i francesi si siano offesi, emblematico che non l'abbiano fatto anche gli americani.

Avrebbero potuto fare qualcosa di meglio ma evidentemente agli ideatori sarebbe costata troppa fatica: meglio raccontare quello che gli americani senza passaporto (il loro pubblico di riferimento) si aspettano, non quello che è o potrebbe essere. 

Una delle protagoniste dice, ad Emily, una cosa tipo "Usi la città come il tuo parco giochi personale", ed è proprio vero. Emily la Parigi vera non la conosce, non la frequenta, vive là per mesi ma ha sempre l'atteggiamento della turista  appena atterrata al Charles de Gaulle. Lei non fa mai parte della città, non le interessa, presa com'è dal rifiutarsi di capire una cultura un po' diversa dalla sua. Solo un po' diversa, tra l'altro, non è andata da Chicago su Marte, è solo a Parigi, ma neanche riesce a contare i piani del palazzo dove abita! 

Inoltre, di fatto, è una Mary Sue qualunque, un personaggio senza profondità ma con i superpoteri: è brava in tutto, le riesce tutto, le sue idee variano dal banale al pessimo ma il risultato finale è sempre un successo clamoroso. Per costruire una Mary Sue qualunque basta uno scrittore di fan fiction su Internet, non c'è mica bisogno di uno sceneggiatore. Per capirci, da uno sceneggiatore mi aspetto molto di più, esigo molto di più.

Insomma, avrei preferito qualche cappellino in meno e un (bel) po' di attenzione alla scrittura in più.

Signore e signori, è finalmente giunto il momento di uno dei più classici tra gli esercizi dei Laboratori di Scrittura Creativa: l'esercizio dedicato al punto di vista, per gli amici, "La Favola".

Ogni punto di vista è in grado di raccontare una storia diversa, succede nella realtà come nella letteratura. 
Alcune storie, le più famose, che tutti conosciamo, appaiono immutabili, scritte nella pietra. Ma se cambiassimo il punto di vista con cui le raccontiamo? Allora, probabilmente, cambierebbero esse stesse.

Scegliete una favola, una fiaba o un racconto universalmente noto (tipo Pinocchio, Peter Pan o Alice, per intenderci) e raccontatelo da un punto di vista insolito: il lupo, la matrigna, la Volpe, scegliete voi. Non dovete necessariamente riscrivere l'intera vicenda, basta uno spaccato, una scena, qualcosa che sia in grado di raccontarci una storia, che già conosciamo, in un modo completamente nuovo.

Questo tipo di esercizio è talmente un classico che la Disney ci ha fatto i milioni con Maleficent! 

No, cioè, volevo dire, questo tipo di esercizio è talmente un classico che su questo blog c'è già una mia versione, scritta molti anni fa, durante un laboratorio che seguivo da allieva. Siete curiosi? Ecco il link "A mille ce n'è nel mio cuore di fiabe da narrar...". Aspettate, aspettate, prima di andare a vederlo, però, segnatevi tutto ciò che c'è da sapere per questo nuovo esercizio e partecipate, mi raccomando, numerosi!

Tipo di testo: racconto, poesia, monologo, dialogo, quello che vi pare... 
Lunghezza testo: dagli 800 agli 8000 caratteri. 
Email: janecole@live.it. 
Oggetto: laboratorio condiviso di scrittura. 
Specificare nel testo dell’email se volete restare anonimi o meno, se volete essere taggati (su FB) o meno. 
Scadenza per far pervenire il testo: domenica 18 ottobre 2020, ore 12. 

Volete leggere i Racconti nati da questo esercizio? Li trovate qui.
Allora, diciamo subito la verità, non è che il Sedicesimo Esercizio del Laboratorio Condiviso di Scrittura abbia proprio scatenato il vostro interesse. Nella mia email c'è l'eco e a rispondere all'appello ci ha pensato solo Beppe, un vero e proprio veterano di questa avventura. Grazie Beppe, cosa farei senza di te?

E, vabbè, speriamo che il prossimo esercizio (che pubblicherò domani sempre su queste pagine) v'ispiri di più. Intanto eccovi le straordinarie biografie di alcuni straordinari supereroi. E, per quanto vale, secondo me questo era un esercizio spassosissimo, non sapete che vi siete persi! 'tsk!

Il bancone era di nuovo lucido e pulito dopo l’ora di pranzo. L’orologio sopra il juke box segnava le 15.33. Era il momento di rilassarmi tra la ressa del pranzo e gli avventori serali. 

La porta di ingresso si aprì con il suo tipico cigolio che non sono mai riuscito a sistemare. Entrò un tizio alto, con un bel cappello che mi parve un Borsalino, una coda di capelli grigi che spuntava da sotto il cappello, con gli occhiali da vista che sembravano essere pezzi di vetro, forse era soltanto un po’ vanitoso. Un lungo impermeabile copriva i vestiti e nascondeva la sua fisionomia, ma era sicuramente molto magro. Si sedette al bancone e ordinò una birra. Il suo viso era stanco, tirato. 


Mentre preparavo la birra sentii che stava arrivando una lunga chiacchierata ed esordii: “io sono Mike, i 
miei genitori amavano Mike Bongiorno e mi è rimasto addosso questo nome” 
Finalmente un accenno di sorriso: “io sono Andrea”. 
Mentre appoggiai la birra davanti a lui decisi di rompere il ghiaccio: “allora Andrea, cosa ti porta in questa parte della città?”

Il mio non è certamente uno di quei bar eleganti del centro; è piuttosto un pub di periferia con i mobili in legno scuro, sgabelli davanti al banco ed un biliardo in una piccola stanza laterale. 
“Un posto vale l’altro, camminavo senza meta e mi è venuta sete. Mi piace, qui. Caldo e intimo come piace a me.” 
Mentre beveva la sua birra colsi l’occasione di guardarlo meglio. Era indubbiamente anziano, ma c’erano dei dettagli che non erano tipici delle persone di una certa età. I movimenti erano fluidi, e lo sguardo era lucido e attento. Ribadii: “qualche volta piace anche a me perdermi per la città”. 
Mi guardò incuriosito: “io non amo camminare, ma da un po’ di tempo a questa parte ne sento il bisogno. Camminare e parlare con un barista sconosciuto che forse vuole ascoltare una storia”. 
Ecco, il momento che aspettavo. Presi uno sgabello e lo spostai dietro al bancone. Mi sedetti e lo guardai dritto in faccia: “sono tutto orecchie”. 
Andrea aprii leggermente l’impermeabile e cominciò a raccontare: “io sono di qui, sono nato e cresciuto non lontano da questo bar. Facevo parte di un gruppo di amici cresciuti insieme fin dall’asilo. Gigi, Mario, Andrea ed il sottoscritto. Ci chiamavano Andrea alto ed Andrea basso per distinguerci. Tutti gli altri ci chiamavano gli Andrea scemi. Non eravamo molto popolari”. 
“I ragazzi riescono ad essere crudeli, tante volte”, risposi tentando di consolarlo in qualche modo. 
“Vero, ma Andrea ed io non ce ne curavamo più di tanto, ci bastavamo ed andava bene così. Gigi e Mario li perdemmo di vista alle medie. Andavamo bene a scuola, i nostri genitori erano contenti e ci lasciavano in pace. Poi, un giorno, quando avevamo circa quattordici anni, accadde”. 
La mia curiosità prese il sopravvento: “cosa accadde?” 
“Eravamo nella mia stanza ed avevamo letto di Uri Geller, l’illusionista che piegava i metalli, così decidemmo che ci avremmo provato anche noi. Presi due cucchiai dalla cucina e cominciammo a fissarli con grande concentrazione. Non successe nulla. Ma mentre ero intento a cercare di piegare il cucchiaio notai che tutti gli orologi della stanza si erano fermati. Tutti, anche il timex che avevo al polso e che mi avevano regalato i miei genitori per la Cresima. Anche l’orologio digitale del videoregistratore si era fermato, segnava esattamente le 15.48. Andrea era ancora intento a fissare il suo cucchiaio ed all’improvviso gli orologi cominciarono a camminare all’indietro. La lancetta dei secondi del mio timex si spostò prima lentamente, poi sempre più veloce. All’improvviso si fermò, l’orologio segnava le 15.38. Andrea si scosse, battè le palpebre un paio di volte e si rese conto di quello che era successo. Fu un vero shock, andammo in cucina e chiedemmo alla madre di Andrea l’ora esatta. Erano le 15.38 anche lì. Dopo quell’episodio cercammo di capire e controllare quello che successe. Andrea divenne sempre più bravo a far arretrare il tempo a piacimento, senza sforzo apparente. Sfruttammo immediatamente l’occasione, per avere la possibilità di finire i compiti in classe o per anticipare le domande nel corso delle interrogazioni: bastava sentire la domanda, tornare indietro di dieci minuti e dare la risposta. I nostri voti, già abbastanza buoni, decollarono”, un sorriso di divertimento misto a nostalgia comparve sul suo volto. “Verso la fine delle superiori accadde un secondo evento: eravamo in ritardo come al solito per prendere l’autobus – era curioso come una persona in grado di far arretrare il tempo fosse sempre in ritardo – e mentre camminavamo verso la fermata lo vedemmo arrivare. Sapevamo che non ce l’avremmo mai fatta a prenderlo, ma ci mettemmo lo stesso a correre. D’un tratto sentii una forte folata di vento, una specie di scoppio ed Andrea era là, davanti alla fermata, con un grande sorriso e lo sguardo attonito e sconvolto. Passammo i giorni successivi a capire come si poteva provocare il fenomeno nei campi intorno alla città. Dopo un po’ di tempo riuscimmo a controllare anche questo: il teletrasporto verso punti sempre più lontani e la capacità di far arretrare il tempo. L’estate dopo il diploma Andrea viaggiò molto: ricevetti cartoline dai punti più disparati ma era sempre a casa per cena. Stava cominciando a prenderci gusto, ma si rese subito conto che non poteva continuare ad usare i suoi poteri per andare in giro per il mondo senza aereo, sapeva che i suoi poteri dovevano essere usati per migliorarlo, questo mondo” 

Mi intromisi nella sua esposizione: “certo, poteva impedire che le cose succedessero quando erano già successe. Gli bastava recarsi sul posto, tornare indietro di dieci minuti ed impedire che accadessero”, gli dissi mentre versavo la seconda birra. 

“Esatto, e così fece: sventò la maggior parte degli attentati in tutto il mondo e la gente non lo seppe mai perché non era mai successo; nessuno seppe mai chi era stato per lo stesso motivo. Ma presto scoprì che il suo più grande alleato era anche il suo peggior nemico: il tempo. Il teletrasporto ed il controllo del tempo avevano un alto prezzo da pagare, il suo stesso corpo cominciò a presentare il conto. Dopo alcuni anni cominciarono a comparire i primi capelli bianchi, le prime rughe; a venticinque anni ne dimostrava più di quaranta. Ora ne ha trentasette”. 

Così dicendo si tolse l’impermeabile e davanti a me si mostrò un uomo anziano, curvo sotto il peso degli anni, ma il suo sguardo mi diceva che la sua età era nettamente inferiore al suo aspetto. Era lui. Aveva parlato di sé stesso in terza persona ma era indubbiamente lui. Davanti alla mia espressione sbigottita proseguì il suo racconto: “ora non posso più muovermi come facevo prima e cerco di agire solamente quando è assolutamente necessario, come nel caso dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, su Pentagono e Casa Bianca” 

“Quale attentato?” risposi io senza pensarci. 

“Appunto, non ne hai mai sentito parlare perché non sono mai successi. Quell’operazione mi costò un’enorme fatica perché dovetti tornare indietro di ben due ore, uno sforzo titanico”. 

“Ma perché lo stai raccontando proprio a me, Andrea?” gli chiesi con un misto di timore e incredulità. 

“Ogni tanto mi capita di volermi sfogare con qualcuno, presto morirò di vecchiaia e non è facile tenermi dentro questo peso. Tanto alla fine della nostra conversazione tornerò indietro e non ti ricorderai di nulla. Anzi, è meglio che adesso vada. I dieci minuti stanno per scadere.” 

Il bancone era di nuovo lucido e pulito dopo l’ora di pranzo. L’orologio sopra il juke box segnava le 15.33. Era il momento di rilassarmi dopo la ressa del pranzo e prima degli avventori serali. L’aveva fatto di nuovo, era tornato indietro ed aveva cancellato la memoria degli ultimi dieci minuti. 

Ma io ricordo tutto perché sono immune agli effetti dei suoi poteri. Non ho mai avuto il coraggio di fare quello che ha fatto lui. Usare i suoi poteri che sono anche i miei, ma l’ho sempre ammirato di nascosto.

Beppe Carta



Non un supereoe ma un trio di supereroine, pronte a rendere il mondo un posto migliore. 
Lasciamo a loro stesse il compito di presentarsi. 

Mi chiamo Cyntha Asy. 
Grammatika, per la stampa che racconta al mondo le mie imprese. 
Correggo gli errori grammaticali altrui e salvo ogni giorno il mondo dalle abbreviazioni da social. 
Date le mie caratteristiche lavoro ovunque, online e offline. Ultimamente, soprattutto, online. Sempre avvolta dal mio costume rosso, "rosso errore gravissimo".
Il mio più grande nemico è Scorrecto, il correttore automatico che si finge tuo amico ma stravolge olli tui trase. Maledetto è nuovamente all'opera! 

SuperFashion, nata Viky Tim. 
Combatto cattivo gusto e sandali con i calzini. Mi potete riconoscere dal fascinator rubato a Kate Middleton.
La mia è una dura lotta che si svolge soprattutto nei luoghi del globo dove la gente si veste al buio: in particolare Germania, Leeds e le zone rurali del Missouri. 
Ogni giorno una sfida diversa contro il mio più acerrimo nemico, quella piaga ama farsi chiamare Leg Bed, ma io lo so che non è altri che Gamba Letto, il più orribile degli orrori. 

Sono @Cinika. Non ho altri nomi perché non mi servono. 
Passo le mie giornate avvolta da pelle nera, borchie e piume di corvo pessimismo.
Combatto smancerie, buongiornissimi caffè e lacrime versate sui vip passati a miglior vita, di cui non ve n'era fregato niente fino a 5 minuti prima. Vi abbatterò tutti, non avrò pietà dei vostri RIP e dei vostri profili di coppia! 
Io non ho aiutanti e neanche nemesi, non mi servono! Capito, patetici esserini il cui diritto di voto è una piaga sociale?

Dicevo non un supereoe ma tre supereroine, pronte a rendere il mondo un posto migliore o quantomeno a rendere tutti infelici nel tentativo di farlo. 
Non potete ignorarle, non potete che amarle! 

Jane Pancrazia Cole
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