L'altro giorno, di punto in bianco, mi è tornato in mente il
libro delle cornicette.
Voi ce l'avevate il libro delle cornicette?
La mia maestra di prima elementare, l'anziana
Giannetta che venne poi sostituita dalla giovane
Egle, ne possedeva diverse versioni. C'era quella delux, quella intermedia e quella per bambini particolarmente imbranati.
Pagine e pagine di cornicette da copiare sul proprio quaderno per dividere le lezioni dai compiti, l'italiano dalla matematica, le note dai bei voti.
Credo che, in realtà, la vera funzione di questi grafici orpelli fosse rendere noi giovani neoalfabetizzati più abili con penna e matita, meno impacciati nei movimenti, più disinvolti nell'approccio alla scrittura.
Insomma, le cornicette dei miei tempi erano la versione moderna e creativa delle "aste" delle generazioni a me precedenti.
Perché vi sto dicendo tutto questo?
Perché il ricordo delle cornicette e, soprattutto, dell'assurdo libro che ne custodiva al proprio interno millemilioni di differenti versioni, si è tirato dietro tutta una serie di memorie e riflessioni strettamente legate ai miei anni delle elementari.
Anni durante i quali si poteva tenere il mondo in ordine con l'uso di semplici disegni geometrici ad ornare una pagina.
O questo è un falso ricordo? Una ricostruzione faziosa del tempo che fu?
Forse, a guardar bene, ad osservare più da vicino, si riescono a vedere anche le scalfiture, le ammaccature dell'imperfetto tempo andato.
Forse anche quelli erano anni incasinati, anni di delusioni e traumi, anni di rapporti appassionati e burrascosi.
Ve la ricordate l'amicizia ai tempi delle cornicette?
Io sì.
Mi ricordo soprattutto le mie tre migliori amiche. Le mie tre compagne di classe preferite.
Noi ci muovevamo sempre in quattro:
Rita,
Paola,
Silvia ed
io.
Il padre di
Rita lavorava in banca. La madre insegnava inglese. Nelle dinamiche interne della mia proletarissima scuola elementare, ciò era più che sufficiente per darle un ruolo privilegiato, per metterla sopra un piccolo invisibile gradino.
Il tutto era amplificato dalla sua naturale e pacata eleganza, dal suo principesco atteggiamento, dalla sua connaturata aristocratica sobrietà.
Sobrietà che scricchiolò solo per pochi secondi durante uno dei primi giorni di scuola. Quando Rita si presentò in classe con un volantino di un negozio di giocattoli. E io mi avvicinai, come gli altri, per dare un'occhiata.
"È inutile che guardi. I tuoi genitori fanno gli operai: non te le puoi permettere queste cose", disse lei, perdendo il suo proverbiale aplomb ed esibendo una sorprendente acidità.
"I miei genitori lavorano tanto e mi vogliono bene. Quello che puoi avere tu lo posso avere pure io!", risposi, reprimendo faticosamente il desiderio di attaccarle una caccola tra i capelli, e dimostrando tutto il mio amore per le dichiarazioni enfatiche da colonna sonora drammatica.
Questo semplice scambio bastò a farmi guadagnare il ruolo di sua parigrado. I giocattoli non c'entravano niente, era questione di rispetto, dato e dovuto.
A lei piaceva il fatto che io non facessi alcuno sforzo per guadagnarmi il suo affetto.
A me piaceva il fatto che, dietro quella laccatissima maschera, fossero presenti difetti e debolezze. E che solo io conoscessi il suo lato oscuro, più oscuro di tutti, la sua notevole capacità nel fare rutti a comando.
Sempre un passo dietro alla reginetta della classe, a tenerle servilmente il nobile strascico, c'era
Paola.
Paola era amica mia solo per sbaglio, per convenzione, per noiosa abitudine.
Lei ed io non avevamo niente in comune, ma ci toccava condividere tutto: la strada per andare a scuola, il cortile, e persino le nostre due migliori amiche.
Io ho sempre pensato che l'antipatia fosse evidente e reciproca. Ma, in realtà, una volta finite le elementari lei cercò, a differenza mia, di mantenere i contatti. Atteggiamento inspiegabile, se non partendo dal presupposto che Paola un po' di bene me ne volesse sul serio.
A tal proposito, fu indimenticabile una sua telefonata fattami in terza media. Io ero di corsa e così, semplicemente, finsi che avesse sbagliato numero.
E quando, pochi giorni dopo, lei mi richiamò per raccontarmi il curioso episodio, e aggiungere "Strano, però, al telefono sembravi proprio tu", io negai. Negai con tutta la sfacciataggine di cui ero e di cui sono capace. Negai. Non per proteggere i suoi sentimenti ma il santino di "buona" che faticosamente mi ero autocostruita. Santino che ancora porto con me. Perché peggio delle prigioni che ci erigono gli altri, esistono solo quelle che ci erigiamo da soli.
Buona? Ma buona de che? Posso essere stronza come gli altri. Anzi, no, lo posso essere in maniera molto più creativa ed esuberante della media. E ciò mi riempie d'orgoglio.
Per la cronaca: sono convinta che lei non mi credette neanche per un secondo.
L'ultima del gruppo era
Silvia. La mia anima gemella.
Nella foto di classe Rita e Paola sono sedute, eleganti come due damine e si tengono per mano.
Silvia ed io siamo in piedi, dietro di loro, ognuna con il braccio intorno alla spalla dell'altra.
Le prime due sorridono compite.
Noi ridiamo sguaiate.
Loro sembrano appena arrivate da una festa di famiglia.
Noi da un pomeriggio ai giardinetti.
Le cornicette mi hanno portato a ripensare ad Silvia e alla nostra amicizia. Ho ripensato che pure in quel periodo di cartoni animati, collezione dei puffi e maglioncini rosa i rapporti potevano essere complicati. Anche se ci si provava, delle volte era difficile rispettare i quadretti del foglio, il tratto diveniva incerto, la matita sbavava, le mani sudaticce si attaccavano alla carta.
Silvia era la mia migliore amica. La più migliore di tutte. Meglio di Rita. Un milione di volte meglio di Paola. Eppure litigavamo come cane e gatto. Non ricordo minimamente quali fossero le motivazioni. Ricordo solo che ci urlavamo contro e ci facevamo del male. Passavamo dall'affetto incondizionato alle ripicche più ridicole.
Eppure eccoci là nella foto, abbracciate, testa riccia contro testa riccia, sorridenti. E non solo perché quello era evidentemente un momento di serena tregua, ma perché eravamo amiche sul serio. Non c'era bisogno di troppe spiegazioni. Ci volevamo bene. Nella nostra maniera chiassosa, sconclusionata ma sincera.
Ora che sono passati mille anni le cornicette non le faccio più. Ma litigo ancora, alternando al dolore dello scontro la gioia della riappacificazione.
Silvia non la frequento più, ma ho trovato un suo degno sostituto.