Capitolo Ventisette: la storia di Annamaria

Dopo una giornata così, c’avevo solo una gran voglia di buttarmi nel lettone e dimenticare tutto almeno per qualche ora, ma prima dovevo andare da qualcuno che forse aveva passato un giorno persino peggiore del mio.

Appena si aprì la porta mi trovai davanti l’ultima persona che m’aspettavo: “Che ce fate voi qua, zia Caterina?”
“Le ho portato una zuppa. E tu?”
“Pur’io, ma de sicuro la vostra è meglio”
“La tua la teniamo pe domani, intanto io finisco co questa”, e si rimise ad imboccare Annamaria.
La Pazza se ne stava buona buona seduta al tavolo con un gran fazzoletto annodato al collo. Lei e la zia c’avevano praticamente la stessa età ma l’amica mia, con quella foresta di capelli bianchi e la faccia rugosa come una prugna secca, sembrava più vecchia ancora.

Annamaria mangiò tutto, fino all’ultimo boccone, senza dire manco una parola poi, come le aveva insegnato la Vedova del Dottore, si mise subito a letto.
“La Signora è andata dalli angioli”, mi disse.
“L’ho saputo”
“Pensi che nun torna proprio più, più, più?”
“No, nun torna più”, le risposi, mentre gli occhi suoi diventavano ancora più grandi e lucidi. E per distrarla aggiunsi: “T’ho portato questo, guarda”
“Ma questo è tuo, te l’ho dato io”
“Lo so, ma mo serve de più a te”
Annamaria mi sorrise e poi si ranicchiò nel letto, stringendo il nastro giallo tra le mani sue.
Io mi ci accucciai accanto e l’abbracciai stretta stretta, come avevo fatto tante volte in quei mesi coi piccoli miei: “In un paese tra le montagne ce stava na fornaia co na figlioletta nera come lu carbone”, cominciai.
Quella volta non ci fu neanche bisogno che arrivassi alla fine perché l’amica mia, stracca e triste, si addormentò molto prima.

“Sei brava a raccontare le storie”, mi disse zia Caterina.
“Ne so solo una, racconto sempre la stessa”
“E’ na bella favola. Come finisce?”
“Tizzoncino e Reuccio se sposano. Annamaria dice che fanno pure na bambina. Pe Sandro ed Enrico invece fanno du bei maschietti e Reuccio ammazza n orso cattivo co la spada sua.”
Ormai era ora che me ne andassi ma prima le chiesi: “Ce pensate voi adesso a lei?”
“Sì, l’ho promesso alla madre mia”
“Alla madre vostra?”
“Prima de morire m’ha fatto promettere che, dopo la Vedova del Dottore, c’avrei pensato io ad Annamaria”.

E la zia Caterina mi raccontò finalmente tutta la storia. O almeno tutto quello che avevano raccontato a lei, che certi segreti se li sarà portati nella tomba la Strega e là ci rimarranno per sempre.
Una storia che pare una favola, dove ci sta tutto: l’amore, la morte, i cuori cattivi, quelli boni e pure lo dimonio con tutto l’inferno suo. Una storia con un principe, una principessa, un re prepotente e due fate madrine. Una storia che sarebbe piaciuta tanto all’amica mia.

Mariuccia veniva da una bella famiglia della bassa Italia. Era giovane, carina e c’aveva tutto quello che voleva: una vita facile e un amore con gli occhi di fuori come un ranocchio, ma che a lei pareva bello come un principe. Se Dio avesse voluto loro due sarebbero potuti essere tanto felici ma, chissà perché, il Signore c’aveva un disegno diverso nella capoccia.  E così il fidanzato s’ammalò e nel giro di pochi giorni lasciò Mariuccia da sola.
Sola con una pagnotta nella pancia: la piccola Annamaria.
Il babbo di lei, che c’aveva il core grande quanto una nocciolina e gli piaceva tanto urlare ordini e comandi manco fosse un re con tutti i servi, dopo aver bestemmiato ed insultato quella svergognata della figlia sua, la fece chiudere in un Istituto, una Casa dei Pazzi, un manicomio. Un palazzo brutto e scuro come il castello d’un mago cattivo, dove ci stava di tutto, dagli orfani alle femmine sole, da quelli che si credevano Garibaldi ai bambini poco svegli e un poco strani. In un posto così pure quelli sani, e ce n’erano tanti, diventano matti sul serio.
Ma Mariuccia c’aveva la capoccia fina e, lo sa solo il diavolo come, entrò dalla porta, uscì dalla finestra e dentro quell’inferno in terra non ci passò manco una giornata intera. E scappò subito verso l’alta Italia.
Tanto su, veramente, non c’arrivò mai ma si fermò dalle parti nostre, stracca e grassa, a mettere al mondo la creatura sua nel convento delle suore della valle.

Un anno dopo tutte e due, madre e bambina, finirono per caso in paese da noi. Cercavano solo un posto dove fermarsi qualche giorno ma alla fine questi quattro contadini ignoranti e le strade piene di polvere diventarono la famiglia e la casa loro. Mariuccia divenne La Strega che faceva filtri e salvava matrimoni. Annamaria crebbe in un mondo tutto suo di canzoncine sgangherate e animali parlanti.

Quando poi la Strega s’ammalò chiese alle migliori amiche sue, la Moglie del Dottore e Parise Agnese, di occuparsi della piccola, di aiutarla e di non farla finire, per nessuna ragione al mondo, in uno di quei castelli dei maghi cattivi.
La signora Agnese c’aveva già sei figli ed un marito ancora lontano ma la Vedova del Dottore, che a quei tempi ancora vedova non era, figlioli non ne aveva avuti mai e non vedeva l’ora di poter finalmente fare pure lei la mamma. Ma certe favole non sono fatte per finire proprio nel modo più giusto e facile, ed infatti il medico si rifiutò di prendersi in casa una bimba che non era sangue del sangue suo ed in più non era manco tutta apposto con la testa. E la Signora questa cosa non glie l’ha perdonata mai e da quel giorno non gli ha voluto più il bene che gli voleva prima.

Le due amiche, per mantenere comunque la promessa fatta a Mariuccia, portarono via la piccola Annamaria e la nascosero nel convento, lo stesso dov’era venuta al mondo dieci anni prima e dove rimase fino a quando si fece una signorina.
E una volta divenuta grande, una femmina con la capoccia piena di farfalle colorate e favole, le due fate che non erano state capaci di fare magie la riportarono in paese.
La Signora, che ormai Vedova c’era diventata, provò a fare vivere Annamaria in casa con lei, ma la principessina svitata non ne voleva sapere di stare in un posto diverso dalla casa sua e non voleva nessuna compagnia oltre alle bestie.
“E cuscì la Vedova del Dottore s’è dovuta accontentare di aiutarla come ha potuto. L’ha tenuta pulita e le ha portato da mangiare tutti li giorni negli ultimi trent’anni”
“E mo ce penserete voi?” chiesi a zia Caterina.
“Sì, pure io so vedova e nun c’ho figli. Per questo mamma mia l’ha chiesto a me”
“Nun ve peserà troppo?”
“Lei c’ha bisogno de na mamma e io de na figliola”
Già sulla porta mi girai a chiederle l’ultima cosa: “Me la fate na promessa?”
“Dimme”
“Se avete di bisogno me chiedete aiuto?”
“Te lo prometto. Croce sul core. Ma tu nun te devi preoccupare pe me e l’amica tua, noi staremo bene. Tu c’hai li figli de Lucia da guardare. E’ quello lu destino tuo”, mi disse e mi augurò la buona notte.
  
Appena in strada tornai da Augusto quasi di corsa. La casa era già tutta buia, ma io bussai lo stesso. Non sono mai stata beneducata e quello non era certo il momento giusto per cominciare.

Quando la porta si aprì dissi solo: “Sì”

Quella primavera nella chiesetta del paese si sarebbe celebrato un matrimonio d’amore. Non quel tipo di sentimento che lega un uomo e una donna. Ma quello che ci legava tutti e due ai bambini e a Lucia nostra.

Continua...


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