L'Epilogo

Ogni mattina mi sveglio presto, tiro su i capelli come piacevano al marito mio, metto l’acqua di colonia dietro agli orecchi e piano piano, con la pioggia o con il sole, mi trascino fino a qua.

Augusto ed io siamo stati sposati quasi sessant’anni.
Ed io racconto la storia nostra da sempre, prima alle nuore ed adesso alle nipoti. Loro sospirano e sognano per questi due innamorati bruttarelli che si sono trovati a dividere una vita intera per caso e per disgrazia. Una storia così non c’avrebbe mai posto nei libri di favole o al cinematografo. Una storia così può esistere solo nella vita vera.

Augusto ed io abbiamo cresciuto assieme sei figli: Sandro, Enrico, Luciano, Donato, Cristiano e Felice. Abbiamo messo assieme un esercito di maschi rumorosi e disordinati, ma onesti e tutti grandi lavoratori. Ad occuparmi della casa e di quel branco di selvaggi delle volte mi sono sentita peggio d’ una schiava, ma poi a guardarli negli occhi uno ad uno sono stata orgogliosa come una regina.
Io per loro, per tutti loro, sono sempre stata “mamma Adelì” e lui “lu Babbo”.

Pochi anni dopo la fine della guerra, quando mamma mia s’era giĂ  sdraiata vicino a Lucia, abbiamo cercato fortuna in cittĂ , che la poca terra che avevamo ed il ricamo non bastavano piĂą per dare da mangiare a tutte quelle bocche.
I ragazzi li abbiamo mandati a scuola, dal primo all’ultimo, e mentre loro studiavano anch’io, con l’aiuto dei piĂą grandi e di Augusto, ho finalmente iniziato a leggere. Non mi sono certo fatta dottoressa o scienziata ma almeno un poco meno ignorante. Ora è normale e non ci si rende manco conto di quanto sia importante. Che delle volte, a non saper leggere e scrivere, ci si sente come ciechi e sordi. O peggio ancora ci si sente stupidi.

Ma non voglio star qua a raccontar frottole. Il matrimonio nostro non è stata mica perfetto ed anche Augusto, purtroppo, c’ha avuto le debolezze sue e qualche porcheria me l’ha fatta. Che, giĂ  ve l’ho detto, i maschi so fiacchi e prima o poi ce cascano tutti. Come quella primavera del ‘62 quando gli arrivò una nuova collega in fabbrica. Una svergognata, di sicuro. Io ho passato mesi a far finta di niente e foderarmi gli occhi e li orecchi col prosciutto. Lui faceva tardi dal lavoro, aveva sempre la capoccia da un’altra parte e di tempo per me non ce ne aveva piĂą. Non so cosa sia successo e non lo voglio manco sapere, ma un giorno di luglio Augusto tornò a casa in orario e ricominciò finalmente a guardarmi come faceva prima. Non ci fu bisogno di dirsi niente e da quella sera tutto tornò normale. E tornammo ad essere due sposi che dormivano vicini ed intrecciati per freddo, abitudine, ma anche per amore.

Non mi piace parlare di quella vecchia storia ed alle ragazze non l’ho mai raccontata, che certe cose riguardano solo me e lui, nessun altro. Augusto è tornato da me e questa è l’unica cosa importante. L’estraneo di quei pochi mesi non lo voglio manco ricordare. Preferisco pensare a quel vecchio rugoso che in ospedale, di fronte alle bimbe appena nate di Luciano, mi sussurrò con gli occhi lucidi: “Ce ne hanno messo de tempo, ma finalmente le gemelline so arrivate.”  Quelle bambine belle, sane e perfette furono come il miracolo che tutti noi aspettavamo da sempre, e per il battesimo loro le mogli di Sandro ed Enrico gli prestarono i vestitini fatti da Lucia mia. Da Lucia nostra.

I ragazzi si sono sparpagliati per tutto il mondo, mentre noi, con la pensione, siamo tornati a vivere al paese in un appartamento al primo piano con un bel terrazzino per stare all’ombra e respirare l’aria buona. Ed ogni estate abbiamo insegnato ai nipotini nostri ad arrampicarsi sugli alberi, tirare con la fionda e sputare i noccioli delle cerase.

Sessant’anni sono così tanti che alla fine non ti ricordi neanche com’era la vita tua prima. Ti sembra che debba continuare così per sempre e che un giorno passerai al Creatore assieme al marito tuo, a braccetto, come quando andavate a passeggio la domenica. Ma non succede quasi mai purtroppo. Di solito uno dei due se ne va prima e lascia da solo l’altro.

Una mattina mi svegliai all’alba, la stanza era buia e tranquilla, ma c’era qualcosa che mi dava fastidio.
Nella nostra camera da letto non c’era mai silenzio. Augusto russava, ma non russava mica in maniera normale. Soffiava, sbuffava, grufolava, uno poteva stare ad ascoltarlo per ore senza annoiarsi mai. Ma quella mattina no, quella mattina era come se nella stanza non ci fosse piĂą.
Mi girai a guardarlo e lui era lì. Immobile.
“AugĂą, ma che fai? Nun sarai mica morto? Dai nun scherzare, AugĂą”.
Che cosa stupida da dire: Augusto mio non avrebbe mai scherzato su una cosa così. Non un’altra volta.
Era proprio morto. Morto stecchito.

Ma che si more cuscì? Senza avvertire? Senza darmi il tempo di salutarti? Di dirti quanto bene ti ho voluto e quanto mi hai fatta felice?

Vengo qua tutti i giorni per dirtelo, AugĂą, sei stato la vita mia.


Fine.

N.d.A. La storia di Tizzoncino, il cui titolo originale è “Spera di sole”, fu scritta da Luigi Capuana(1839-1915) ed è contenuta nella raccolta “Si conta e si racconta”(Muglia Editore, 1913; Pellicanolibri, 1985).


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