Tre Amici, anzi cinque

Poco ispirante o troppo difficile, chi lo sa? Fatto sta che il decimo esercizio del laboratorio Condiviso di Scrittura ha visto una partecipazione limitata ma, come sempre, preziosa.

Quindi per questa settimana abbiamo solo tre racconti: uno mio, uno di Beppe e uno di Marianna, partecipanti appassionati di questa avventura, che ringrazio con tutto il cuore. Tre testi diversi accomunati dallo stesso titolo L'amico immaginario.

Buona lettura!


Iniziò tutto all’età di quattro anni. Me ne stavo solo nella mia cameretta e facevo lunghi discorsi col mio amico Gianni. Il mio amico speciale, che solo io potevo sentire e vedere. I miei genitori mi lasciavano fare perché secondo loro era indice di intelligenza, io facevo il possibile per evitare di parlare con Gianni in loro presenza.

Crescendo, Gianni cresceva con me. Mi consigliava cosa fare, quali persone evitare per non mettermi nei guai, mi suggeriva le risposte alle interrogazioni, mi teneva compagnia nei momenti in cui ero da solo, ed erano tanti. Non sono mai stato un ragazzino troppo socievole, ma avevo ottimi voti a scuola ed i miei genitori non si preoccupavano, l’importante per loro era che io fossi educato, studioso e sereno.

Vennero i tempi delle scuole superiori, e Gianni era ancora con me. I miei compagni di scuola mi consideravano un tipo un po’ strano e mi lasciavano in pace. Anche gli immancabili bulli non provavano interesse per me, perché li avevo corrotti suggerendo le risposte durante i compiti in classe ed aiutandoli nello studio. Ero come in una bolla, il cui accesso era precluso per tutti tranne che per Gianni.

Gli anni scorrevano tranquilli, tra ottimi voti, vacanze noiose in compagnia dei miei genitori e lunghe chiacchierate con Gianni. L’università non cambiò di molto il mio stile di vita. Gianni era sempre con me, e grazie alle sue geniali intuizioni ottenevo ottimi voti. L’ultimo anno di università lo passai praticamente chiuso in casa, scrivendo la tesi che Gianni correggeva, suggerendomi modifiche o aggiunte che avrebbero reso più brillante e scorrevole la mia presentazione.

Uscii dall’università con il massimo dei voti, i miei genitori erano davvero orgogliosi di un figlio tanto brillante e colto, i miei compagni di corso mi videro sfilare via dalle loro vite immediatamente dopo la tesi, per non farvi più ritorno.

I mal di testa iniziarono circa due anni dopo, quando ormai ero inserito nel mondo del lavoro, con delle mansioni tecnico-scientifiche che mi consentivano di lavorare da casa, senza contatti con colleghi o capi.

Erano delle fitte lancinanti, posizionate proprio dietro gli occhi. Talvolta erano così violente che la vista si appannava, costringendomi a sdraiarmi al buio. Gianni però era sempre lì e mi sussurrava parole di conforto, che mi portavano a lunghi sonni ristoratori.

Una mattina avvenne: stavo facendo una doccia, quando il mondo divenne buio. Mi risvegliai in un letto di ospedale, con mia madre in lacrime che mi teneva la mano ed un dottore che parlava a mio padre, il quale ascoltava con un’espressione che non gli avevo mai visto. I medici individuarono una massa scura all’interno del mio cervello. Fortunatamente la massa era facilmente raggiungibile, e decisero che la chirurgia era l’opzione migliore.

Quando mi svegliai avevo una sete terribile ed ero molto debole e spossato, ma i mal di testa erano svaniti, insieme a Gianni. Provai a sussurrare il suo nome per diversi giorni ma non ottenni risposta. L’amico di una vita era svanito insieme alla massa tumorale nel mio cervello. Quando mi resi davvero conto della portata di tale evento, piansi come non avevo mai fatto. Adesso ero davvero solo.

Questo mi portò a reagire. Adesso, a distanza di dieci anni, ricordo a malapena la sua voce. Mia moglie dorme accanto a me, un bicchiere di latte potrebbe aiutarmi a fare lo stesso. Mi avvicino alla camera di mio figlio, lo sento parlare. Nascosto vicino all’uscio, sento che parla da solo, come se ci fosse qualcuno in camera con lui. Lo chiama Gianni.

Beppe Carta




Mio fratello aveva un amico immaginario che si chiamava Caccoloni.
Caccoloni era un’ombra, che vestiva sempre dei completi scuri con camicia bianca. Quando appariva, la cravatta era immancabile ed aveva lo stesso colore cangiante del completo: entrambi assumevano infatti tutte le possibili tonalità di nero/grigio, così che Caccoloni poteva mimetizzarsi nell’oscurità e mostrare solo la luminosa chiara camicia ed i bianchi occhi scintillanti.
Mio fratello se ne vergognava un po’. Avrebbe preferito di gran lunga che il suo amico immaginario sparisse per sempre ed ogni volta che si accorgeva di lui nascosto tra le onde delle sue scarpe preferite provava sempre a calciarlo via.
Mio fratello se ne vergognava soprattutto quando si incontrava con me e con nostra cugina, cioè quando anche i nostri amici immaginari si incontravano.
La mia amica immaginaria si chiamava Avventura ed era una vecchiettina canuta e permanentata, dagli occhi curiosi e sperduti, con uno zaino da viaggio coloratissimo sempre in spalla. Lo zaino era una composizione di totem, incastrati in maniera magistrale – un gufo, un cervo, un lupo, un piccolo orso - ritrovamenti speciali durante i suoi innumerevoli viaggi in ogni continente. Era l’essenza, in definitiva, della mia anima un po’ svampita e della mia voglia di viaggiare.
L’amica immaginaria di mia cugina, invece, si chiamava Luna. Le sarebbe stato senza dubbio meglio il nome Spavento, perché era una bambina tremante, così simile alle immagini della Piccola Fiammiferaia, la ragazzina di strada della rivoluzione industriale, sola, con una pezza stretta sulla testa, il grembiule, la lampada a cherosene. Ed ogni volta che le veniva rivolta parola saltava in aria dalla paura o si nascondeva dietro qualcosa.
In particolare aveva una paura matta di Caccoloni, così scuro e tetro. Quando ci incontravamo, lei non si faceva vedere. Si fingeva un nuovo totem dell’enorme zaino di Avventura od addirittura ci si nascondeva dentro. Caccoloni si sentiva così respinto ed in colpa... per essere sé stesso.
La paura di Luna, era indice – non so come – del bullismo di mia cugina nei confronti di mio fratello. 
Piccole cose, chewingum sui vestiti, sgambetti, brutti nomignoli, prese in giro.
Caccoloni, all’ennesimo chewingum ed all’ennesima richiesta da parte di mio fratello di sparire dalla sua vita, decise di cambiare. Era tutta colpa sua.
Una settimana aveva cercato di tingersi la nuca color arcobaleno. La settimana successiva aveva dismesso l’abito nero per sostituirlo con i pantaloni colorati comprati sui banchetti al mercato sudamericani etnici, insieme al flauto di Pan in offerta. La settimana successiva si era messo le lenti colorate.
Luna continuava però a nascondersi ed a nascondersi, in luoghi sempre più particolari. Oramai l’etichetta di brutto, tetro, sporco e Mostro, a Caccoloni, non gliel’avrebbe tolta più nessuno. Nonostante l’animo dolce, combattivo, docile e l’amore per mio fratello.
Che continuava a cercare di calciarlo via.

Adesso sono tutti spariti. La mia Avventura urlandomi in faccia che era stufa di stare in casa con i miei genitori. Luna ha finito il cherosene e non si è vista più.
Eppure, io mi ricordo, mio fratello aveva un vero amico – immaginario - che si chiamava Caccoloni.

“Ci aveva tormentato a lungo il dubbio su chi era un mostro e chi non lo era, ma da un pezzo poteva dirsi risolto: non-mostri siamo tutti noi che ci siamo e mostri invece sono tutti quelli che potevano esserci e invece non ci sono, perché la successione delle cause e degli effetti ha favorito chiaramente noi, i non-mostri, anziché loro.”

Marianna Palmerini



Sono accanto a Jimmy da quando era piccino. Era ancora nella culla quando facevo tintinnare nelle sue orecchie campanule fatate. Stava seduto sul prato avvolto stretto nelle fasce, quando gli raccontavo di mosche che navigavano nello stagno su grandi foglie ed erano costrette a scappare da terribili rospi. Poi, quando cominciò a camminare gli parlai a lungo di quei tre fratelli che avevo conosciuto molte vite orsono e della mia passione per i bottoni. Infine, era già più grandicello, più o meno 5 o 6 anni di quelli che contate voi, quando credetti che fosse giunto per lui il momento di provare a prendere il volo saltando dalla finestra. L'esperimento non riuscì, Jimmy si ruppe un braccio e, arrabbiatissimo, smise di parlarmi.

Furono anni noiosissimi, io continuai a bisbigliarli all'orecchio ma lui non volle più rispondermi. E così feci di tutto per attirare la sua attenzione. Le campanule divennero prima campanelli e poi graziose fatine dai caratteri dispettosi. Le mosche crebbero fino a diventar grandi quanto pirati, le foglie galeoni e i rospi coccodrilli. Persino i bottoni cambiarono e si fecero baci. Le provai di tutte ma Jimmy si mostrò persino più caparbio di me.

Finalmente però venne il tempo dell'Accademia e per lui fu tale la solitudine nei primi giorni che, pur di aver di nuovo un amico, alla fine decise di perdonarmi.
"Ce ne hai messo di tempo" gli dissi seduto al fondo del suo letto.
"Peter, mi sono quasi ammazzato per te!"
"Quante storie, sono passati anni e tu sei ancora vivo e vegeto. Forse, quella volta, non abbiamo usato abbastanza polvere di fata, la prossima andrà meglio"
"Hai la testa piena di storie e, per colpa tua, ora ce l'ho piena pure io. Papà dice che non mi serviranno a niente nella vita!"
"I papà sono noios..." mi interruppi quando vidi la luce del corridoio accendersi e il custode spuntare sulla porta. "Ehi tu, James Matthew Barrie" disse indicando il mio amico "torna a dormire!"

Jane Pancrazia Cole

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