CartoAmante

Questa volta i partecipanti al Laboratorio Condiviso di Scrittura hanno avuto a loro di sposizione una sola cosa, semplice, essenziale, una parola: CartoAmante.

Cosa ne hanno fatto?
Leggiamolo!




Il commissario si svegliò con il familiare dolore alla spalla destra, frutto di una ferita di guerra. Si era ormai rassegnato al fatto che questo dolore lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Probabilmente là fuori stava piovendo. Quando aprì gli scuri del suo piccolo appartamento, il cortile era lucido di pioggia; grosse gocce cadevano sulla piccola corte alla periferia di Milano. Cerchiò il giorno sul calendario, come faceva d’abitudine. Era il 22 novembre 1971. Mise la caffettiera sul fuoco, riflettendo sul fatto che al suo paese, in Calabria, le mattine erano molto differenti. 

I suoi pensieri furono interrotti dallo squillare del telefono. Non è mai un buon segno quando chiamano a quest’ora del mattino. “Commissario Baselga”, rispose al terzo squillo. Ormai era abituato a rispondere così, anche quando lo chiamava la sua anziana madre che lo prendeva bonariamente in giro per questo. 

“Commissario, hanno trovato un cadavere in Brera”, dissero dall’altra parte del filo. Non aveva mai capito perché a Milano si dicesse “in Brera” e non “a Brera”, ma dopo tanti anni passati nella grigia metropoli ci aveva ormai fatto il callo. “Arrivo subito”, replicò. Prese nota dell’indirizzo, si vestì in fretta e bevve in un solo sorso il caffè ormai freddo. 

L’appartamento era piccolo ma accogliente, arredato con classe. Le eleganti tende chiuse, i mobili di buona fattura erano ordinatamente disposti con molto gusto. L’unica nota stonata era quel ragazzo in canottiera con quattro fori di proiettile nel petto, riverso sul tappeto del soggiorno. Doveva avere non più di venticinque anni, con un fisico decisamente atletico, i tratti del volto delicati ma con una nota di asprezza che doveva piacere molto alle donne. Il suo vice stava guardando i documenti trovati su un vuotatasche all’ingresso. 

“Buongiorno commissario, la vittima si chiamava Pietro Cusimano, ventitre anni. Ucciso con quattro colpi di piccolo calibro da media distanza, nessun segno di effrazione né di lotta all’interno dell’appartamento. La vittima doveva conoscere il suo assassino. Il rigor non si è ancora manifestato, dev’essere morto da non più di due ore”. Il commissario rimase stupito dalla quantità di informazioni; il suo vice era un tipo molto sveglio, e non mancava occasione di dimostrarlo; la sua cultura e l’esperienza erano stati molto utili in tanti casi risolti da entrambi. “Grazie, vado a sentire i vicini. Quattro colpi di pistola in piena notte non passano inosservati”. 

Le portinaie sono sempre una fonte di molte utili informazioni così il commissario si diresse subito da lei; inoltre, era la portinaia che aveva chiamato la polizia. 

“Sì commissario, vi ho chiamati io”, confermò la portinaia, una donna bassa e molto robusta con un marcatissimo accento brianzolo, “mi stavo alzando per portare fuori la rumenta, fuori era ancora buio. Ho sentito un forte botto ed ho pensato che qualche giovanotto disgraziato volesse far prendere paura ai cani. Poi mentre uscivo ho visto quattro donne molto eleganti uscire dal portone. Che belle pellicce che avevano! Ho sempre detto a mio marito che ne volevo una ma lui è uno spilorcio e non ha mai voluto comprarmela!”. Il commissario la interruppe: “Un solo colpo? È sicura?”. La donna riprese con rinnovato entusiasmo: “Sì! Un forte botto, come un PUM! Di un petardo!”. 

Il commissario si prese una pausa per riflettere, poi riprese: “Mi dica delle donne”. La donna rispose con sicurezza: “Erano quattro, molto eleganti, con la pelliccia ed i gioielli in bella vista. Mi è sembrato strano che quattro donne così eleganti uscissero da qui a quest’ora del mattino, ma da quando è arrivato Pietro era un viavai di donne molto eleganti e un po’ su d’età, se capisce cosa intendo. A me quel ragazzo non la raccontava giusta, no no! Un gran bel ragazzo, per carità, ma come poteva permettersi un appartamento in Brera facendo il cartomante?”. Il commissario aggrottò la fronte: “Cartomante?”. 

“Sì, il cartomante!”, proseguì la donna “È arrivato qui otto mesi fa, tutte le mattine sul tardi scendeva nel marciapiede qui davanti e allestiva il suo banchetto. Poi al pomeriggio tornava a casa e spesso arrivavano delle donne la sera. Qualcuna usciva la mattina presto, altre restavano un paio d’ore e poi andavano via. Ne ho riconosciute un paio, sa? Le ho viste insieme ai loro mariti alla “prima” della Scala, non me ne perdo una. Resto lì fuori insieme a mio marito e le vedo passare. Vorrei andarci anch’io alla prima della Scala, ma mio marito è così spilorcio, sapesse!” 

“Mi dica delle donne che ha riconosciuto”, la incalzò il commissario. Lei rispose: “Una è la moglie di quell’industriale dell’acciaio, ha un cognome tedesco, ma non me lo ricordo. L’altra è la figlia di quel banchiere famoso che è morto un paio d’anni fa e che ha sposato un banchiere. Certa gente i soldi ce li ha nel sangue”. La donna accennò un sorriso maligno al commissario il quale la ringraziò e la congedò.

Non fu difficile rintracciare le quattro donne grazie alle fotografie prese dai rotocalchi alla “prima” della Scala dell’anno prima ed alle preziose informazioni fornite dalla portinaia e da altri testimoni che avevano visto le donne al banchetto del cartomante, identificandone quattro come le principali indiziate. Il commissario convocò le quattro donne in commissariato per una chiacchierata informale relativa alla vicenda che tutti i giornali avevano chiamato “l’omicidio del cartomante”. Le donne furono messe in quattro stanze separate e gli interrogatori iniziarono. 

Il commissario era famoso nell’ambiente per la sua capacità di far confessare i sospetti semplicemente parlandoci. Non fu difficile per lui farle parlare, così abituato a persone molto più dure di quattro donne spaventate e confuse. Una volta che le donne ebbero capito che ormai la verità stava venendo a galla, confessarono tutto provando sollievo nel potersi levare quel peso dal petto. 

Tutta la vicenda fu presto ricostruita. Le quattro donne avevano conosciuto Pietro il cartomante al suo banchetto, anche se lo conoscevano come “Gianni il magnifico”. Tra un giro di tarocchi e una lettura della mano, Pietro le aveva abbindolate, le aveva fatte innamorare ed era diventato il loro amante fisso, anche se nessuna sapeva delle altre. Col tempo le quattro si erano innamorate di lui ed avevano cominciato a riempirlo di regali. Dapprima piccole cifre extra al compenso di cartomante, ma poi erano arrivati i regali più consistenti: vestiti, orologi e addirittura l’appartamento nel quale era stato ritrovato morto, nel quale si era trasferito andandosene da uno squallido monolocale a Quarto Oggiaro, regalatogli dalla più facoltosa delle quattro che aveva timore ad andare in un quartiere così malfamato. In quei quaranta metri quadrati si consumavano gli incontri più intimi, anche se lui insisteva a chiamarlo “il mio studio”. 

Col tempo, le richieste di tempo da parte delle quattro si erano fatte sempre più insistenti e per Pietro era diventato sempre più difficile tenere segrete le sue relazioni alle ignare donne, finché era successo l’irreparabile. Pietro era stato scoperto nel suo “studio” da un’amante mentre era appartato con un’altra e ne era scaturito un violento litigio. Pietro, vistosi scoperto, aveva convocato le quattro per un chiarimento. 

All'interrogatorio, tutte e quattro le donne dissero la stessa cosa; una volta arrivate e messe di fronte al fatto compiuto, avevano estratto le pistole dalle loro eleganti borsette e avevano fatto fuoco. Tutte e quattro contemporaneamente, come se si fossero messe d’accordo. Questo spiegava come mai la portinaia e tutti gli altri avessero sentito un colpo solo. 

I giornali scrissero per settimane della vicenda gettando nel panico la “Milano bene”. Le eleganti e discrete sale da tè di Via Montenapoleone si svuotarono dei prestanti giovanotti, le eleganti signore stettero maggiormente in casa. Ma il tempo fece lentamente dimenticare lo scandalo del cartomante di Brera e tutto ricominciò come se non fosse mai successo nulla. 

Beppe Carta



Nel nostro mazzo di carte regnava sempre l’armonia: impensabile, visto che eravamo tutte donne. Ci chiamavano Sibille. Dopo di noi, tutti ci hanno copiato in ogni modo ed in tutto il mondo. 
La nostra padrona è stata la prima a scoprire il nostro talento. Quale sarebbe? Il nostro talento non è altro che raccontare storie improvvisate. 
La padrona riusciva a fare la domanda giusta al timido spettatore / richiedente e noi ci sbizzarrivamo.
Per esempio, Sibilla la Vecchia ha un talento particolare per fare l’imitazione della paura; Sibilla la scappata di casa riesce sempre a inserire l’elemento di disturbo della storia; Sibilla la trasformista ha probabilmente milioni di maschere sotto il tappeto, cambia faccia e personaggio ogni volta. E così via, siamo una comunità di 52 carte. 
Magicamente, ogni nostra combinazione, coordinata con la lettura della padrona, rispecchiava in qualche modo la realtà! Siamo magiche e preziose! 
Nei nostri annali ricorderemo sempre quando riuscimmo a scoprire dove si nascondeva il famoso Mostro di Parigi, pluri-assassino che uccideva fanciulle che ritornavano a casa da sole la sera. 

Ma ad un certo punto, come in tutte le storie, ci fu una rottura. Arrivò lui, il Re. 
Veniva chiamato il Re come soprannome per sue particolari doti amatorie. Non solo aveva la corona, ma in un certo campo era il Re. 
Si mischiò casualmente con noi una sera che la padrona era andata a giocare a ramino a casa di alcuni amici. Sibilla la sola si ritrovò questo corteggiatore assiduo sempre vicino, dietro o davanti nel mazzo, dovunque. E a lei, che si chiamava la sola e non la solitaria, bastò poco per iniziare ad apprezzare. Non si sentiva più relegata ad un bordo del mazzo, aveva qualcuno con cui condividere i suoi racconti e le sue storie. E noi, la comunità, non le servivamo più. 
Tanto che ogni tanto, spariva. 
Succedeva che la nostra padrona continuasse a fare le domande giuste, ma le nostre storie non tornavano più. Ci mancava un pezzo. 
Ogni volta che spariva e riappariva, Sibilla la Sola, meno riuscivamo a parlarci, a chiamarla. Addirittura chiamarla Sibilla, come noi, era troppo. Fu un attimo iniziarla a chiamare, con disprezzo, “Quella lì, la Cartoamante del Re”. 

La padrona si accorse di qualcosa. Sempre più spesso riceveva reclami da parte dei clienti. 
Ma non aveva tempo per riflettere troppo. Eravamo in guerra e Napoleone l’aveva contattata per chiedere aiuto su una delle più importanti campagne, in Belgio. 
Dalla nostra padrona venne fuori che Napoleone sarebbe potuto stare tranquillo, non avrebbe trovato nessuna offensiva dell’esercito britannico, soprattutto sulle piane del Belgio meridionale. 

Niente, è passato tutto agli annali, non solo nostri, come la battaglia di Waterloo. 
Abbasso il Re. 

Marianna Palmerini





Stefania aveva sempre un'aria triste, in tre anni che eravamo vicine di casa non l'avevo mai vista sorridere. 
Ci scambiavamo il saluto e niente più. 
Quella sera però mi preoccupai seriamente. 
Urla e oggetti sbattuti sul pavimento non mi facevano pensare niente di buono, infatti dopo pochi istanti, sentii sbattere la porta con violenza e una voce di uomo che imprecando andava via. 

"Elisa, non sono affari tuoi" dissi tra me e me, ma poi la preoccupazione dell'improvviso silenzio mi fece decidere a controllare che fosse tutto a posto. 

Bussai alla porta di Stefania e una voce strozzata dal pianto mi chiese : "Chi è?" 

"Elisa, la tua vicina di casa!" 

Provai un'immensa tenerezza, era così fragile nel suo pigiama di seta grigio perla. 
Era minuta ma ben proporzionata, sempre in ordine e profumata, un po la invidiavo, io ero quasi perennemente in jeans e scarpe da ginnastica. 
Mi raccontò dei continui litigi e dei tradimenti del suo fidanzato, del desiderio di maternità mai realizzato, del suo negozio di estetica creato con tanti sacrifici ma anche della voglia di scappare lontano e ricominciare a vivere. 

Parlammo tutta la notte alternando pianti a risate irrefrenabili e fu così che diventammo amiche. 

Ci vedevamo quasi ogni giorno a pranzo al bar accanto al suo negozio e molto spesso anche la sera visto che era tornata a essere libera dopo quella sera. 

Quel giorno a pranzo era in forte ritardo così andai a vedere cosa fosse successo ed entrando vidi una scena assurda e ridicola al tempo stesso. 
A penzoloni dal soffitto vidi spuntare delle gambe fino a metà busto. 
Corsi di sopra rapidamente e lei era lì con la faccia paonazza intenta a far leva con le braccia per tirarsi fuori da quella situazione. 
"Oddio, sei la mia salvezza!!!" 
La tirai su con non poca fatica. 
Scoppiammo a ridere
"Ha ceduto un pezzo di soppalco", mi dice cercando di trattenere le risa. "Ero lì da almeno 10 minuti!
 Avevo visto che stava iniziando a sgretolarsi ma ho sempre rimandato, oggi ha ceduto sotto il mio peso. Ho bisogno di un muratore o qualcuno che si occupi di cartongesso. Vorrei fare qualche lavoretto per migliorare il negozio, oltre che a sistemare il soppalco, ovviamente".

Mi ricordai di mia cugina che, qualche mese prima, aveva fatto fare dei piccoli lavori di restauro nella casa in campagna, così mi feci dare il numero della ditta che aveva assunto. 
Il giorno dopo si presentò lui, l'uomo del cartongesso, soprannominato da noi "George" per l'evidente somiglianza con Clooney. 
Non riuscivamo a togliergli gli occhi di dosso e a parlucchiare come due adolescenti alla prima cotta. 
Danilo, questo era il suo nome, ovviamente sapendo di piacere iniziò a fare il cascamorto… con entrambe. 
Questo particolare però lo scoprii qualche giorno più avanti. 

I lavori al negozio di Stefania andarono avanti per qualche giorno, era un continuo spostare pareti da un punto all'altro. 
Lì per lì non capivo poi un giorno ebbi l'illuminazione. 

Era venerdì pomeriggio uscii prima dall'ufficio, ero a un passo dall'ingresso quando, dalla vetrina, li scorsi abbracciati e intenti a baciarsi. 

Non mi videro così me ne andai arrabbiata. 

Io e Danilo avevamo iniziato a frequentarci e mi aveva raccomandato di non dire nulla a Stefania. 
"Sai credo di piacerle, non vorrei farla star male", mi aveva detto. 

Così feci, stetti zitta anche se questo segreto mi sembrava assurdo. 
Era evidente che il "nostro amico George" aveva fatto lo stesso discorso anche a lei. 

Non sono una tipa vendicativa ma questa cosa mi aveva fatto infuriare così presa dalla rabbia decisi di attuare il mio piano. 
Una notte mi vestii, andai sotto casa di Danilo e con un cacciavite rigai tutta la fiancata della sua macchina. 

Il giorno dopo tornai in negozio sperando di ritrovarli in intimità per sputare fuori tutto il veleno che avevo in corpo. 

Quando arrivai Danilo stava scendendo da un furgoncino che, sulle fiancate, a grandi caratteri portava la scritta: SI ESEGUONO LAVORI DI MURATURA, CARTONGESSO E IMBIANCATURA 
Un sospetto si insinuò nella mia mente. "La macchina che avevo sfregiato di chi era?" 

Entrammo insieme da Stefania che ci venne incontro sorridente. 
Lui, George, invece era visibilmente contrariato. 
"Stanotte un vandalo ha rigato la macchina di mia moglie". 

"Moglie?!?!" dicemmo in coro Stefania ed io. 
 Lui continuò come se non ci avesse sentito: "In tutta la via solo la sua macchina, una 500 nuova di pacco, l'avrete vista, venivo con la sua perché il mio furgone era dal meccanico. Ti ho portato la fattura, se puoi saldare il prima possibile mi fai un piacere, sai ora devo far riverniciare tutta la macchina per togliere il danno".

Andò via e quella fu l'ultima volta che, sia io che Stefania, lo vedemmo. 

Era giunto il momento di raccontarle tutto, dai miei incontri segreti con Danilo alla sera che, presa dalla rabbia, sfregiai per errore la macchina della moglie. 

A quel punto a gridare vendetta eravamo entrambe. 

Così, la stessa notte munite di un cacciavite a testa andammo a rigare il furgone del traditore. 
Io la fiancata destra e lei la sinistra. 

Perché due buone amiche si dividono tutto. 

Antonella Carta 



“Buongiorno”, disse lei allegra. 
“Ciao” disse lui accostandosi al tavolino tondo della donna. 
“Lei è un nuovo cliente? Ãˆ qui per farsi leggere le carte, vero? Prego si sieda, che ho giusto qualche ora senza appuntamenti.” 
“In realtà non sono un nuovo cliente, sono un vecchio cliente” disse l'uomo sedendosi lentamente. 
Gli occhi della donna si dilatarono leggermente e per qualche battito di ciglia sembrarono assenti, persi a cercare di ricordare il suo precedente incontro con quell’uomo. Infine, piccole rughette sul viso della donna le disegnarono un sorriso condiscendente. 
“È impossibile, ricordo le storie di tutte le persone a cui faccio le carte, io e lei non ci siamo mai visti”
L'uomo la guardò immobile per qualche secondo, l’espressione indecifrabile, poi anch’esso sfoggiò un sorriso dolceamaro e le rispose. 
“Hai ragione, non puoi ricordarti di me, perché vengo dal futuro” 
“Dal futuro? Cosa intende dire scusi?” Sgomento misto a curiosità trasudavano da quegli occhi simili a quelli di una bambina, ma gentilmente incorniciati dal viso di donna con lunghi capelli biondi, acconciati in un precisissimo e anacronistico frisé. 
“Che noi un giorno ci incontreremo, tu mi farai le carte moltissime volte, conoscerai molto bene la mia storia” 
“Ma è incredibile, com'è possibile. E perché dovrebbe essere venuto qui dal futuro, qualcosa che le ho detto si è avverato ed è venuto qui a dirmelo? Ãˆ orse arrabbiato?” La donna sembrava spaventata ma allo stesso tempo catturata dalla conversazione come mai prima d'ora, si sporgeva in avanti e scrutava il viso dell'uomo con insistenza cercando una qualche somiglianza con i visi archiviati nella sua mente. 
“Tutt’altro, sono venuto a farti un regalo, tu mi hai raccontato la mia storia e io ora sono venuto a raccontarti la tua” disse l'uomo senza scomporsi, con profonda calma. 
Ormai la donna fremeva di curiosità e un sorriso iniziava ad intravedersi sul suo volto, accesosi alla parola 'regalo' e pronto a brillare. 
“Troverai un bel lavoro, come maestra di scuola media” 
“Che bello, io adoro i bambini!” 
“Infatti ti sposerai con un impiegato di banca, e avrete un figlio maschio a cui vorrai un bene dell’anima. Il suo nome sarà Tommaso” 
“Ma è un nome splendido!” 
“Certo perché lo sceglierai tu Paola” disse l'uomo con tenerezza. 
Gli occhi della donna trasognati si persero per qualche istante ad immaginarsi nel suo futuro, con in grembo il suo bambino, e una leggerissima lacrima le scese sulla gota sinistra. 
Ella però la scostò velocemente e tornò concreta a guardare l'uomo con gioia. 
“Che bel regalo che mi hai fatto” poi fece una pausa, guardò alle spalle del suo interlocutore per poi avvicinarsi ulteriormente a lui e aggiungere sottovoce: 
“Ma quel ragazzo che si è avvicinato poco fa, e che sta dritto lì dietro, è con te?” 
“Ah sì, lui. Ãˆ qui per proteggermi, è un bravo ragazzo, i miei viaggi nel passato sono spesso molto dolorosi” 
“È la tua guardia del corpo? Ma allora perché torni, se è così doloroso?” 
“È più forte di me, era scritto nelle carte” 
“Ah le carte, posso farti le carte? Vorrei così tanto ringraziarti, mi hai detto delle cose bellissime! Sono così felice” Sul volto della donna un sorriso caldo e avvolgente, occhi luccicanti di una nuova luce. 
“Non ho più tempo, temo di dovermene andare” 
“Torna a trovarmi allora! Ãˆ stato bello conoscerti. Ciao anche a te guardia del corpo!” 
Il ragazzo in piedi alle loro spalle ebbe un sussulto e le rivolse un sorriso timido, quasi commosso. 

“Papà perché hai dovuto farlo, non è già abbastanza doloroso ogni volta sentirle fare le carte?” 
“Ma non lo vedi che è così felice ora?” L’uomo che era rimasto impassibile fino a quel momento mostrò al figlio gli occhi lucidi e le mani tremanti. 
“Sono contento di essere venuto con te, non sei in grado di guidare in questo stato” disse il ragazzo apprensivo appoggiando una mano sulla spalla del padre. 
“Ogni volta penso che non mi farà sentire così, e ogni volta mi sbaglio. L'unica cosa che non capisco è perché non le hai voluto parlare” disse l'uomo al ragazzo. 
“Cosa avrei dovuto dirle, vedere che non mi riconosce è troppo doloroso. E domani si sarà già dimenticata tutto, che senso ha spiegarle” disse serio il ragazzo. 
“Tommaso, ti avrebbe abbracciato se le avessi detto chi eri invece di startene lì impalato in disparte”
“Magari settimana prossima, oggi proprio non me la sentivo” 

“Buongiorno Signor Baranzelli! Ãˆ venuto a trovare Paola con suo figlio? Oh, ma che bel giovanotto!”
“Buongiorno Clara, cercavamo proprio lei prima di andarcene. Come sta andando? Eravamo così preoccupati di cambiarle struttura, ma sembra contenta.” 
“Oh, si è ambientata proprio bene, sa? Quando ha visto quel tavolino tondo è impazzita e ha detto che era il posto perfetto per lei. Lei mi aveva avvertito della sua mania per le carte e allora le ho messo una tovaglietta di pizzo ed era felicissima. Ora non fa altro che fare le carte a tutti, si è proprio calata nel personaggio” disse la rubiconda infermiera, carica di cartelle cliniche. 
“Sì, ho notato che ormai pensa di essere una cartomante di professione, ma ha sempre amato fare le carte a parenti ed amici. Ãˆ così strano che le sia rimasto solo quello, forse perché lo faceva fin da ragazza.” Disse l'uomo sommessamente. 
“Sì, parlandoci mi è stato subito chiaro che sia convinta di avere poco più di vent'anni, e che aspetti che la madre la venga a prendere in bicicletta, che gioia. Ma tutti la amano qui alla clinica, fa le carte a tutti, e a me, che mi vede sempre, me le fa più volte al giorno.” 
“Mi spiace che debba sopportarla” 
“Ma cosa dice! Come le dicevo tutti la amano, è così fresca e gioiosa quando fa le carte. Quando sente le storie degli altri si illumina e accetta qualsiasi cosa le venga detta. Ha fatto le carte a donne che non si ricordavano nemmeno il loro nome, ma è riuscita a metterle a loro agio. Non fa altro che diffondere un po’ di amore in questo posto, e dio solo sa se ce n'è bisogno.” 
“Sono lieto di sentirglielo dire, a rivederla allora, alla prossima settimana” 

Marina Alice Cibin



Io di mestiere faccio la cartomante. Ricevo abusivamente in uno scantinato a Beinasco, un infelice anonimo dormitorio alle porte di Torino. La mia professione è nata per caso. Fin da bambina indovinavo le cose, specialmente durante i giorni del ciclo. La mia pelle diventava un ricettacolo di sensazioni, mille aghi mi oltrepassavano il cuore e diventavano gomitoli di percezioni confuse, vedevo figure nell’ombra, sentivo canzoni mai sentite prima e poi sbam, la visione. 

La signora Cassolari aveva perso un braccialetto d’oro e piangeva nella cucina, mentre mia madre cercava inutilmente di consolarla: 
“Madre santa, è un regalo della buonanima di mia suocera, mio marito mi spaccherà la faccia”.
“Nell’armadio, nella tasca della vestaglia” 
“Che?” avevano detto mia madre e la signora Casolari, all’unisono. 
Beata Vergine, era vero! Letizia Casolari aveva nascosto i sui tesori prima delle vacanze, ma se ne era dimenticata! 
Io come facevo a saperlo? Niente, semplicemente avevo visto l’armadio che si spalancava nella mia testa, i cappotti impacchettati nel cellophane, le camicette inamidate e infine la vestaglia di lana scozzese, avvolta in una luce dorata. 

La voce si era sparsa e nel giro di un po’ di tempo mi ero conquistata una certa fama. Mia madre mi aveva comprato dei libri sui tarocchi e un bel mazzo di carta, affermava che un po’ di scena mi avrebbe favorito. 
Avevo smesso di andare a scuola, la mattina mi svegliavo tardi, facevo colazione davanti alla tivù e poi provavo i giochi con le carte. Ogni tanto arrivava una cliente e ci chiudevamo in cucina. 
Dopo un po’ di tempo mia madre aveva affittato uno scantinato che si era liberato vicino ai garage, aveva confezionato delle tende azzurre e comprato due poltroncine dell’Ikea. 
Lei aveva ripreso il pieno possesso della sua cucina, io avevo aumentato la mia fama in tutta Beinasco e dintorni. 

Vorrei dirvi che il mio lavoro non è così appassionante come forse vi immaginate. Le clienti hanno sempre le stesse esigenze: amore, soldi, vendetta. Le mie sedute sono a buon prezzo e la mia clientela è monotona nei suoi bisogni trascendentali. Però, ascoltando tutta quella materia umana, mi sono fatta le mie idee sul mondo, la vita, la morte. Ho un bel bagaglio di esperienza, anche se sono così giovane. 

Ad un certo punto, mi è venuta voglia di ricominciare a studiare. Ho preso il diploma tre anni in uno, tanto me lo posso permettere con i proventi della mia professione. Mia madre ha disapprovato, ma io sono la fonte di sostentamento della famiglia e alla fine si è rassegnata. Mi sono iscritta all’università, Filosofia. Dopo cinque anni di lettura dei fatti altrui, ho deciso di allargare i miei orizzonti, approfondire la conoscenza della mente al di là del bene e del male. Al mattino mi alzo presto e corro in facoltà. Sono contenta, dentro di me percepisco una forza inusitata, una velleità a me sconosciuta. Non disprezzo quello che faccio nello scantinato, anzi, mi sono raffinata nel linguaggio e cerco di dare i dei responsi più sottili e articolati alle mie clienti. Alcune di loro non capiscono, ma io mi impegno per distoglierle dalle loro fissazioni, anche se loro tornano inevitabilmente al nocciolo della questione: 
“Si, va bene, ma Ignazio me le fa le corna o no?” 
Io le accontento, non mi piace deluderle. 
Fisso il volto della donna che mi siede di fronte, osservo le sue rughe, noto un piccolo brufolo dalla punta giallastra sul bordo della bocca impiastricciata di rosa. Mi viene un’irrefrenabile voglia di schiacciarlo. 
“Si bisogna far uscire il pus” 
“Bastardo, questa me la paga”. 

Ora vorrei dirvi che quello che c’è tra il professor Renato Bandi, mio docente di filosofia teoretica e me, è vero amore, ma non sono così ingenua, dopo tutti questi anni di esperienza sul campo. La mia professione mi è di immenso aiuto. Ciò non toglie che io sia rimasta ammaliata dalla sua lucidità intellettuale, dai suoi maglioncini di cachemire beige, su cui amo strofinare la guancia quando lo abbraccio forte, dalle sue mani affusolate che mi sollevano il mento per guardarmi nel profondo degli occhi. Insomma, sono caduta ai suoi piedi come una pera cotta. Mi incanta il suo senso di rispetto per la mia essenza femminile mentre mi slaccia il reggiseno. Nell’ appartamento tutto grigio e bianco, luminosissimo, affacciato sul parco, tra una lezione e l’altra, l’amore del professore mi avvolge e io mi ammanto di lussuria, risplendo come una regina. 
“come sei bella” mi dice “vorrei fermare questo istante per l’eternità” 
“che ore sono? Oddio com’è tardi, devo scappare!” 
“amore, non mi hai ancora detto che lavoro fai”
“un giorno te lo dirò”. 
Chissà che cosa immagina, rifletto, mentre torno a Beinasco sul mio autobus di linea, che ci mette un’eternità prima di giungere a destinazione. Fantastico, mi spingo in là con i miei sogni fino a prevedere che mi trasferirò. Dove? Ma nella bellissima casa di Renato, tra i suoi libri e le sue piante rampicanti. Il nostro nido d’amore. 

“vorrei sapere di Salvatore, se mi tradisce. L’ho beccato più volte che telefonava di nascosto e buttava giù quando mi avvicinavo…” 
“Chi?” 
“Come chi? Ma Salvatore! Oggi sei distratta, Solange, come mai?” 
Mi vedo nello scantinato con il mio nome d’arte e mi sento improvvisamente ridicola, inutile e depressa.
“Scusami tanto, Carmela, oggi non è giornata, mi sento poco bene, torna domani, mi sento un po’ stanca e le carte non mi stanno aiutando” 
“ma che hai, non ti ho mai visto così” 
“No, non è niente, passerà, abbi pazienza”. 
Sono due settimane che Renato non si fa vedere né sentire. 

Renato, come vi state tutti immaginando, mi ha lasciata per un’altra. Mi correggo, non ha avuto questo coraggio, è svanito nel nulla come fanno i tanti Salvatori e Ignazi che ho conosciuto tramite le mie affezionate clienti. Credo che si sia imboscato con la nuova allieva prediletta, una ragazza dai capelli rossi alta almeno un metro e settantacinque. Non servono le carte, basta un po’ di buonsenso, e di pettegolezzi raccolti nei corridoi dell’università. 
Intanto io mi sto per laureare con degli ottimi voti e sto progettando di lasciare lo scantinato per altre vie, magari un master all’estero. 
Sono un po’ preoccupata per le mie clienti, non credo che la prenderanno bene, anche se ho pensato che, giacché sono tutte dotate di smartphone, posso senz’altro impiantare delle consulenze su internet. 
Ho deciso di fare una sorpresa a Renato: gli ho inviato una cartolina di quelle che aveva preparato mia madre per farmi pubblicità. La grafica è dozzinale, si intravede la figura in penombra di una ragazza con i capelli ricci, il seno prominente, una sfera di cristallo su un tavolino ricoperto di stelle. Una scritta dorata completa la scena: “Solange, risolve i tuoi affari di cuore e di denaro. Consultala a Beinasco, pressi centro commerciale”. 
L’ho firmata sul retro: saluti dalla tua cartoamante preferita. 
Vediamo se avrà il coraggio di consultarmi. Perché, questo è certo, prima o poi toccherà anche a lui di ricevere, come si dice a Beinasco, una tramvata in faccia. 

Barbara Fiore


La mia analista l'ha scritto oggi per la prima volta sul suo taccuino. Sono stati sufficienti pochi minuti perché la diagnosi fosse finalmente chiara. Chiara e tonda, scritta in stampatello e sottolineata su quelle pagine ruvide, gialle, grammatura 80, aroma di castagne nel sottobosco di Castellamonte. 

Deve esser cominciato tutto prima ancora che io lo possa ricordare. Avevo già 3 o quattro anni quando mia madre mi sorprese per la prima volta con la faccia spiaccicata su un libro di fiabe illustrate. Iniziata la scuola fu la volta di sussidiari e quaderni. Invece di fare i compiti stavo lì, con i libri contro il muso, io a fare il ripieno di un panino cartaceo. 

All'inizio pensarono solo che fossi una bambina un po' particolare poi, visto che il mio curioso comportamento continuava, presero a portarmi da un medico all'altro. Le ipotesi diagnostiche che si alternarono negli anni furono, nell'ordine: narcolessia, miopia, ipotensione da vago ipersensibile, sindrome dello studente pigro, morbo della faccia pesante, virus della fronte appiccicosa, disfunzione comportamentale alquanto imbarazzante, detta DCAI. Tutte teorie nessuna certezza. Io cercavo di spiegare il motivo del mio comportamento ma gli adulti, genitori e dottori, mi accarezzavano bonari il capo e poi tornavano a parlottare tra loro. 

Avevo circa 10 anni quando, stanca di esami del sangue, radiografie e martelletti sulle ginocchia, decisi di farmi furba, o quantomeno più circospetta. Niente più musate a libri e quaderni. Niente più annusate rapite ad agende timide. Niente. O meglio, niente quando sapevo di essere vista. I miei genitori pensarono felici che fossi guarita. Che la loro strana figlia non fosse più così strana. 

Trascorsi un'adolescenza apparentemente serena anche se, dentro di me, cresceva il dubbio che avessi davvero qualcosa di sbagliato, che fossi davvero malata. 
Per questo motivo oggi, all'età di 19 anni, dopo tre anni di paghette messe religiosamente da parte, mi sono presentata nello studio della dottoressa. Ho letto il suo annuncio in rete. "Psicologa, psicanalista, esperta di vizi ma non giudicante", diceva il banner. 

Appena sedutami di fronte a lei, le ho spiegato dettagliatamente il mio problema, il mio vizio, la mia debolezza. "Annuso la carta. Quella dei libri, delle agende e dei quaderni. Ci immergo la faccia e sto lì a respirare. L'ho sempre fatto. Mi tranquillizza, mi rende felice, mi fa sentire a casa. Non è necessario che siano libri o quaderni miei. Mi hanno già buttato fuori da 2 biblioteche, 5 librerie, e il reparto cartoleria di diversi centri commerciali. Non credo che sia la colla della rilegatura, con la carta da parati non ho lo stesso effetto, ci ho provato." 
"mmmm" ha risposto la dottoressa scrivendo sul proprio taccuino col mezzo sorriso di chi la sa lunga. 
"mmmm cosa?" 
"mmmm mi è tutto chiaro"
"ha capito che cos'ho?"
"ma certo, non è poi così raro" 
"e può farmelo passare?" 
"oh cielo no, e perché mai dovrei?" 

Jane Pancrazia Cole

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