Sette personaggi a spasso per Sei racconti

Per questo esercizio, in uno sfoggio di esuberante generosità ho regalato ai partecipanti al Laboratorio Condiviso di Scrittura diversi personaggi. Nello specifico: il bambino prodigio, il musicista disoccupato, la ragazza madre, la trapezista, il contadino col fucile, la nonna anaffettiva e l'astronauta. Sette personaggi tra cui sceglierne almeno tre da inserire nelle vicende narrate.

Non si può dire, certamente, che questa volta io abbia badato a spese ma, con grande gioia, devo ammettere che la mia munificenza è stata ampiamente ricompensata dal lavoro dei partecipanti al Lab.


La bruma autunnale ricopriva il campo del signor Giovanni, quella domenica mattina. I primi raggi di sole facevano balenare la nebbiolina a pochi centimetri dal terreno, facendola assomigliare ad una soffice coperta. L’aria era ancora fresca dalla notte appena passata ed il signor Giovanni camminava soddisfatto lungo il bordo del suo campo, il fucile ben assestato sulla spalla destra, il cappello floscio calcato sulla testa. Aveva appena finito di piantare le verdure autunnali – radicchio, broccoli e coste – ed era molto orgoglioso del lavoro appena concluso. Tutti i filari erano ben ordinati, le parti aeree delle sue verdure sfilavano a perdita d’occhio in righe perfettamente parallele. 

Non avrebbe consentito ai conigli, alle lepri ed ai cervi di rovinare il suo splendido lavoro ma amava troppo gli animali per ucciderli. Spaventarli, però, poteva farlo; caricare alcune cartucce con grani di sale grosso aveva risolto la situazione lo scorso ottobre, e così Giovanni si ritrovò a pattugliare il suo campo anche quest’anno. Ricordò come le lepri correvano a perdifiato quando il fucile Beretta faceva sentire la sua voce e una risata uscì spontanea, avvolgendogli il volto col vapore del suo fiato. 

Era ancora perso nei suoi pensieri quando la sua vista, ancora acuta nonostante l’età, colse un movimento all’angolo opposto del campo. Pensando ad un erbivoro intento a sgranocchiare le sue piante, si avvicinò con circospezione e rimase stupito davanti alla scena che gli si presentò davanti. 

Una donna era in piedi di fianco ad un bambino, il quale stava dipingendo su una tela appoggiata ad un cavalletto; la sua espressione era molto concentrata e la sua manina sinistra reggeva un pennello con molta sicurezza e maestria. Il sorriso orgoglioso della donna che doveva essere sua madre si vedeva a venti metri di distanza. Giovanni si avvicinò. 

“Buongiorno, è strano veder dipingere da queste parti”. 
“Buongiorno a lei, a mio figlio piacciono molto questi paesaggi e così l’ho accompagnato per ritrarre questo splendido campo. Spero di non disturbare nessuno”. 
“No, non si preoccupi, siete al bordo del mio campo e non rovinate niente.” Giovanni si avvicinò alla tela e guardò meglio il dipinto. Rimase stupefatto da quello che vide. “Ma è meraviglioso! Sembra una fotografia! Questo bambino è incredibile!”. 

La madre sussultò d’orgoglio e rispose: “Mio figlio, Leonardo, cominciò a dipingere ancora prima di imparare a scrivere. Dapprima con delle semplici matite, adesso è passato ai dipinti a olio e domani chissà!”. La donna fece una risatina e prese un foglietto piegato dalla tasca del vestito “questo l’ha disegnato quando aveva tre anni, il giorno in cui il mio compagno venne ricoverato. Lo fece seduto nella sala d’aspetto. Fu l’ultima cosa che il mio compagno vide prima di…”. Il volto della donna si rabbuiò per un momento poi proseguì: “Da quel momento in poi non ha fatto altro che disegnare e dipingere ad ogni occasione”. 

Giovanni prese il foglio e lo guardò. Ritraeva un cavallo disegnato in modo assolutamente perfetto. I dettagli, i muscoli del collo, la criniera. Sembrava una fotografia. Giovanni era assolutamente esterrefatto dalla bravura di questo bambino che non poteva avere più di sei anni. Quando aveva la sua età, suo figlio era solamente in grado di allacciarsi le scarpe da solo, ed infatti era cresciuto buono a nulla. 

Stava ancora meditando su queste cose, quando un’ombra passò rapidamente sul suo campo visivo. Una scia di fumo tagliò in due il cielo ed un oggetto si schiantò esattamente al centro del suo campo, lasciando un solco profondo ed un piccolo cratere dove l’oggetto si era schiantato. Il suo cervello ci mise qualche secondo per riprendersi dallo shock, ma poi realizzò il disastro appena compiuto. Cominciò a correre verso il cratere, insieme alla donna. Una volta arrivati, videro che l’oggetto era conico, con una base convessa ed una bandiera americana sul fianco, insieme alla scritta NASA. Subito dopo essere arrivati, un grosso paracadute si afflosciò sull’altro lato, staccandosi poco dopo e raschiando il terreno mentre veniva trasportato via dal vento. 

“Una capsula spaziale!” esclamò la donna. 

Giovanni si avvicinò con prudenza alla capsula che ancora scottava. Aprì con delicatezza lo sportello e dall’interno si udì una voce che parlava una lingua a lui sconosciuta, ma si capiva bene che era sofferente. La donna si avvicinò ed evidentemente lei parlava quella lingua, perché cominciarono a scambiarsi delle frasi. La donna si voltò verso di lui: “È un astronauta americano della missione Starweed, la caduta deve avergli procurato delle ferite gravi perché non è in grado di muoversi. Io non sono un medico, non so cosa fare” 

Anche Giovanni non lo sapeva; da poco erano stati immessi in commercio dei dispositivi che ti consentivano di telefonare anche in mezzo al niente, e con uno di quegli affari avrebbe potuto chiamare i soccorsi; ma erano ancora troppo pochi e troppo cari e Giovanni non sapeva cosa farsene.

All’improvviso, la capsula fu circondata da un numero impressionante di fuoristrada verde oliva con delle targhe strane, seguiti a breve distanza da un camion con argano. Tutti intorno alla capsula, tutti sul suo campo. Dalle auto scesero un numero impressionante di militari equipaggiati di tutto punto, seguiti da qualche medico in camice bianco. Aiutarono l’uomo ad uscire dalla capsula che guardandoli riuscì solamente a mormorare un “Thank you so much!”, lo caricarono su un fuoristrada dopo averlo visitato velocemente, il camion sollevò e caricò la capsula, insieme al paracadute. Nel giro di quindici minuti tutti i fuoristrada ed il camion erano spariti, lasciando un campo devastato ed un signor Giovanni in lacrime. La donna si avvicinò a lui e disse: “Mi hanno detto di darle questo”. 

La donna gli porse un biglietto che riportava questa frase: “Grazie per la sua collaborazione. Provvederemo a rifondere i danni subìti dalla sua proprietà. Per favore, contatti l’amministrazione locale delle forze armate statunitensi e gli dia questo cartoncino, provvederanno a tutto loro” 

Le lacrime fecero spazio ad un largo sorriso. Il suo campo era salvo, almeno a partire dall’anno prossimo. Si voltò verso la donna e la invitò a pranzo insieme a suo figlio. I due accettarono di buon grado e così si incamminarono verso la cascina. Avrebbero avuto molto di cui parlare.

Beppe Carta





Era la tipica domenica d'ottobre 
Il cielo era grigio e l'unica cosa che intendevo fare era prepararmi il caffè per poi tornare a letto a leggere 
Nella mia testa pregustavo già il momento. 
I cuscini sistemati a dovere, la coperta morbida e calda e "il mondo di Sophie", un libro che avevo iniziato a leggere almeno 3 volte ma che non riuscivo a farmi piacere a sufficienza per finirlo, quando all'improvviso degli spari mi fecero sussultare 
Era il mio vicino di casa, un contadino vecchio stampo e un po' ottuso che tutti gli anni, all' inizio della stagione di caccia, imbracciava il fucile e sparava a qualsiasi cosa si muovesse 
Lo odiavo!!! 
Così, visto che concentrarmi sulla lettura era pressoché impossibile, decisi di fare ciò che mi proponevo da tempo, andare a Volterra a visitare il museo etrusco 
Era da quando avevo letto il libro di uno dei miei autori preferiti, Valerio Massimo Manfredi, che desideravo andare a vedere una cosa in particolare, ovvero la piccola statua chiamata "l'ombra della sera" 
Oggi è il giorno perfetto mi dissi e Volterra dista poche decine di km da casa mia 
Così mi preparai, prima di uscire misi i croccantini a Macchia e Yoghi che altrimenti al mio rientro, permalosi come sono, mi avrebbero miagolato per 2 ore indispettiti. 
Salii in macchina e feci partire il solito cd 
"anche oggi mi sono scordata di prenderne un'altro a casa " dissi a voce alta come per giustificare la mia sbadattaggine 
"I migliori anni della nostra vita, stringimi forte che nessuna notte è infinita... " cantare e guidare mi dava un senso di pace, sopratutto quando lo facevo col volume altissimo e a squarciagola 
Arrivai al parcheggio poi, seguendo le indicazioni, mi incamminai verso il museo quando delle note struggenti mi fecero fare una deviazione 
Seduto su un piccolo sgabello c'era un uomo sulla cinquantina, aveva un bel vestito anche se un po' logoro, era alto, magro con dei bellissimi riccioli neri, gli occhi profondi e malinconici 
Col suo violoncello intratteneva due o tre passanti anche loro, come me si erano fermati per ascoltare quella musica suonata meravigliosamente 
Davanti a lui la custodia aperta del suo strumento musicale e un cartello: 
"Mi chiamo Carlo, sono un musicista, ho suonato in quasi tutti i maggiori teatri del mondo, ero felice e appagato 
Il destino mi ha tolto tutto 
Non ho più niente, solo il mio violoncello 
Spero di rendervi felici con la mia musica" 
All'improvviso mi sentii molto triste e cercando di non dare troppo nell'occhio misi 2 pezzi da 20 nella custodia e andai via 
Le note mi accompagnarono fino all'ingresso del museo 
Pagai il biglietto ed entrai 
Ogni volta è come se venissi trasportata magicamente in un luogo senza tempo 
Mi piace andar per musei, leggere tutte le descrizioni, le date e cercare di immagazzinare più nozioni possibili 
Presa dalle mie considerazioni non mi resi subito conto della voce stridula che arrivava dalla sala accanto 
"basta per piacere, non puoi guardare e stare zitto!" 
Era una signora anziana a parlare, accanto a lei un bimbo che avrà avuto sì e no 6 anni 
Rimango impressionata dal suo vocabolario forbito, sembra di sentir parlare un professore universitario
"vedi nonna, questa statua denominata 'ombra della sera' risale al terzo secolo a.C. le fattezze potrebbero farla sembrare di un artista contemporaneo visto le proporzioni" 
Il piccolino continuava a parlare sciorinando una cultura impressionante da vero e proprio bambino prodigio 
La nonna accortasi di me e del mio sguardo incredulo mi fece un mezzo sorriso e quasi giustificandosi mi disse : 
"è mio nipote, la madre è fuori per lavoro e mi tocca tenerlo per una settimana 
Tutti dicono che è un genio, secondo me è solo un mostriciattolo pedante" 
Il bimbo continuava a parlare incurante del commento, come fosse isolato nel suo mondo fatto di nozioni e storia 
Quella nonna antipatica e anaffettiva mi mise di malumore così decisi di uscire 
"forse nemmeno oggi è la giornata giusta per dedicarmi ai musei" pensai! 
Appena fuori mi diressi verso l'angolo dove c'era il musicista disoccupato 
"Carlo, se mi suoni qualcosa di allegro ti porto a pranzo fuori " gli dissi tutto d'un fiato 
Andammo in una trattoria lì vicino e tra un bicchiere di Chianti e una ficattola con la finocchiona mi raccontò di come da professionista appagato si ritrovò a suonare per le vie della sua città 
Vedi, mi disse, ero molto spesso fuori per lavoro e quando tornavo mi dedicavo alla famiglia e al mio hobby, la moto 
Appena avevo un po di tempo mi chiudevo in garage per smontarla, ripararla e pulirla 
Mio figlio più grande aveva la mia stessa passione così a volte, anche contro il parere di mia moglie, uscivamo insieme e ce ne andavamo noi due soli a scoprire la campagna qui intorno 
Angela aveva sempre paura potesse capitare qualcosa e quella mattina era più ansiosa del solito ma ormai avevamo programmato le tappe e Giacomo non me lo avrebbe perdonato se fossi andato senza di lui 
Era una bellissima domenica autunnale proprio come oggi 
Il motore cantava allegramente mentre noi parlavamo della scuola e della ragazza del terzo banco, quella carina chi gli faceva gli occhi dolci 
Il tono della sua voce cambiò all'improvviso 
"Accadde tutto in un attimo" proseguì 
"una macchina velocissima sbucò dalla curva, aveva perso il controllo e ci prese in pieno 
Non ricordo nulla, solo che mi svegliai all'ospedale da solo 
Per rimettermi in piedi ci vollero due mesi 
Da allora cambiò tutto 
Mio moglie mi addossò tutta la colpa e non la biasimo per questo, se le avessi dato retta nostro figlio sarebbe ancora vivo"
Abbassò lo sguardo e rimanemmo in silenzio per pochi interminabili minuti 
Riprese a parlare con un filo di voce 
"Andai via di casa, trovai un piccolo appartamento in affitto ma non mi rassegnavo a quello che era successo, così iniziai a bere per stordirmi e non pensare 
Non andavo alle prove o arrivavo in ritardo e ubriaco così mi cacciarono dall'orchestra 
Questo è tutto, ora sono senza un lavoro e senza una famiglia, sopravvivo grazie alla generosità delle persone 
Ho solo pochi attimi di felicità 
Quando suono e quando vado davanti alla scuola di Matteo, mio figlio più piccolo, per vederlo uscire prima che salga in macchina dove lo aspetta mia moglie per portarlo a casa" 

"sai, lui è una specie di bambino prodigio" aggiunge 
Legge da quando aveva 3 anni ma non cose da bambini 
È affascinato da tutte le materie umanistiche ma sopratutto dalla storia antica 
La sua passione sono gli Etruschi" 
Lo fermo! 
"Credo di averlo incontrato oggi", gli dico 
"Era al museo con la nonna" 
Accenna un sorriso 
"È Giovanna la megera, io chiamo così la mia ex suocera, a dirla tutta la chiamavo così anche prima" mi dice ridendo poi aggiunge, 
"è una donna strana, anaffettiva 
Mia moglie mi raccontava che non le aveva mai dato un bacio, nemmeno da piccola"
 
"Credo di averti annoiato" 
"Assolutamente no", rispondo prontamente, "starei ad ascoltarti per ore ma temo che il ristorante stia chiudendo" dissi guardando i camerieri che sparecchiavano e spazzavano il pavimento 
Eravamo rimasti solo noi 
Uscimmo e ci salutammo con un abbraccio come fossimo due vecchi amici 
"torna ti prego, non parlo mai con nessuno e tu sei così carina ad ascoltarmi" 
Poi, sussurrandomi in un orecchio mi disse : "la prossima volta ti racconterò di quando da ragazzino vivevo al circo con i miei genitori, mio padre era un trapezista!" 

Antonella Carta





La tradizione in India era che i trapezisti iniziassero i loro allenamenti all’alba, prima che il grande calore rendesse fiacche le membra e insicure le loro menti. 
Solvig aveva finito da qualche mese le riprese del film che l’aveva resa famosa, una specie di fiaba in bianco e nero in cui un angelo cadeva dal cielo, diventava uomo, girovagava per la città, si innamorava di una trapezista, declamando riflessioni profonde sul senso della vita. 
Il film era stato un successo di critica e pubblico, ma Solveig si era stancata presto di tutto quel chiasso mediatico ed era fuggita in oriente. Non avrebbe mai potuto permetterselo, con quello che guadagnava nei circhi di seconda categoria. 

Da quando era in india, Wim, Il regista, la chiamava spesso. Voleva girare il sequel dell’angelo: “pensavo a un titolo facile, per esempio: il cielo sopra Torino. Hanno già fatto una canzone, ho immaginato che il gruppo che l’ha incisa potrebbe essere presente nella sequenza iniziale, e poi comparire ogni tanto” 
“Wim, non so neppure dove sia Torino” 
“te lo mostro su Google" 
ma Solveig aveva altro per la testa, doveva concentrarsi sul triplo salto mortale, e rinforzare i polpacci. La vita mondana l’aveva un po’ rammollita. 
“Scusa, ho pochissima batteria e sono in un villaggetto disperso nel nulla, devo riattaccare” 
Volteggiava tra gli alberi della foresta, tra foglie grandi come un ombrello e uccelli multicolori che smettevano di cantare quando lei gli saettava accanto, sudata e felice. Si era costruita un complicato meccanismo con carrucole e corde di liane intrecciate per raggiungere le vette del cielo, viveva in una casupola di pochi metri quadri e si faceva la doccia sul retro del cortile con una scodella di acqua piovana. 
Aveva affittato l’abitazione di cartone e lamiera da una vecchia molto taccagna, che le aveva chiesto un affitto esorbitante. 
“ma non c’è neppure il bagno” aveva protestato Solveig 
“il campo, c’è il campo” aveva risposto la donna. Sorrideva con le gengive, agitando le braccia rinsecchite luccicanti di braccialetti. 
“Non lo chiedo per me, ma per i miei cinque nipotini, la mia unica figlia è fuggita con un brasiliano e me li ha lasciati sul groppone” 
Solveig però non vedeva bambini in giro: erano forse a scuola? 
“No” aveva risposto la nonna “sono al lavoro nella fabbrica di tappeti” 
Al lavoro? MA quanti anni avevano? 
“il più grande ha 12 anni e il più piccolo 4, vivono nella fabbrica del signor Gupta, che li nutre e li protegge, così non corrono pericoli, povere creature” aveva risposto orgogliosa la nonna. 
Solvieg scrutava il volto della vecchia, cercando una direzione che le permettesse di non cadere nella dimensione giudicante occidentale. 
Sentiva intorno a lei il canto vibrante degli uccelli nella foresta, l’armonia del cosmo le penetrava nel sangue, raggiungendo le sue membra muscolose. 
“questa vecchia deve schiattare” aveva pensato. 

Vedeva spesso il contadino con il fucile girovagare nei paraggi. Forse era interessato all’arte circense, oppure era attratto dalle sue cosce nude. Quella mattina cadeva una pioggia sottile, le liane erano scivolose e Soleveig si sentiva vagamente depressa. 
La vecchia non si era ancora vista, probabilmente dormiva ancora, mentre i suoi nipotini si erano svegliati alle quattro per iniziare la loro giornata di lavoro di sedici ore. 
“Salve” aveva detto il contadino. 
“Salve” aveva risposto Solveig, notando per la prima volta che il ragazzo aveva al massimo vent’anni e non era male, portamento elegante, denti bianchissimi e carnagione color torta di cioccolato ben cotta.
Era scesa per fare quattro chiacchere: 
“come mai vai sempre in giro con quel fucile? “ 
“Difendo la zona da animali feroci, lo faccio per hobby, quando non ho niente da fare nei campi. Nei tempi morti” 
“Che tipo di animali feroci ci sarebbero, da queste parti? “ 
“Oh di tutto, serpenti, tigri” 
Il ragazzo fissava le sue gambe tornite, sorridente, con le perle immacolate al posto dei denti. 
“il punto è” aveva detto Solveig “che io non sopporto l’idea di quei bambini rinchiusi nel capannone dei tappeti” 
“lo trovi strano, capisco. Per voi è inconcepibile, ma qui è normale” 
Aveva l’aria pacifica, con il suo fucile a tracolla e il sorriso più dolce del mondo, ma a Solveig ricordava Lo stesso il primo della classe che ti spiega una lezione a te che ti sei distratto, perché sei un coglione e pensi solo al divertimento. Si era sentita fieramente occidentale: 
“ragazzo, guardami bene: tutto questo misticismo di merda, le pagode, le bandierine, Ganesh e compagnia bella, non servono a niente se si imprigionano i bambini, e li si fa lavorare come schiavi.” 
E se ne era andata nella casupola, sbattendo la porta di lamiera così forte che a momenti veniva giù il tetto di paglia. Quasi quasi faceva le valige, chiamava Wim, e gli dava appuntamento a Torino o come cazzo si chiamava quel posto sperduto. 

Ma non era partita. Si era messa di impegno, in fondo era anche un’attrice, oltre che trapezista. 
Nel giro di una settimana si era data da fare e aveva attivato una tresca con il contadino, rendendolo suo alleato. Lo aveva introdotto ai diritti umanitari, e alla protezione dei minori, con lezioni sempre più intense e raffinate. Alla fine, lo aveva convinto a passare all’azione. In una notte di luna nera, si era arrampicata sul tetto del capannone, aveva rotto un vetro del lucernaio, ed era scesa nelle viscere della fabbrica. 
Mentre il contadino con il fucile faceva la guardia sul retro, armato de suo fucile, lei aveva individuato i cinque fagotti che dormivano rannicchiati, tra la sporcizia e lo squallore. 
Per non spaventare i bambini, si era vestita come se dovesse andare in scena: body azzurro, paillette sparpagliate tutto il corpo e ali di velo che le penzolavano dalla schiena, una torcia rivestita di alluminio per alimenti per simulare una bacchetta magica. 
I bambini la fissavano sbalorditi, e lei, approfittando del loro stato di stupore sonnolento, li aveva convinti a farsi legare come salami. Il contadino, dall’esterno, manovrava con destrezza le corde e le carrucole, travestito da corsaro nero. 

E la nonna? Solveig l’aveva affrontata la mattina seguente, spiegandole che i bambini erano liberi e al sicuro, nella casa del contadino, che si era scoperto essere maritato con una giovane moglie di sedici anni incinta del primogenito. 
Solveig non aveva avuto problemi a convincerli per l’adozione, corrompendo contemporaneamente il capo del villaggio, un poliziotto, il proprietario della fabbrica. 
Praticamente aveva speso quasi tutto il suo compenso del cielo sopra Berlino. 
“non mi importa di quei marmocchi” aveva detto la nonna, mostrando indifferenza “i soldi che avevo guadagnato con la loro vendita me li sono già persi i tutti al poker”. 
Solveig l’avrebbe stesa volentieri con un pugno, ma si era detta che non ne valeva la pena. In fondo, si trovavano pur sempre nella patria di Gandhi. 

Solveig stava per atterrare in quel posto assurdo, Torino. La cittadina non sembrava poi così male, aveva un fiume azzurrino a serpentina, vie squadrate, qualche macchia di verde qua e là. 
Wim l’aspettava all’hotel, l’avrebbe presentata alla troupe, poi breve giro per la città, e per finire la cena con il gruppo musicale del cielo sopra Torino: 
“Vedrai, ti porterò a vedere una bella piazza, una delle più grandi d’Europa, e durante le riprese abiterai in una bella casa sulle pendici delle colline”. 
L’importante, per quello che la riguardava, è che nei paraggi ci fosse un circo dotato di trapezio.

Barbara Fiore



Lucida, lucida, lucida Gianni. Lucida che deve brillare, metti altro Sidol e ricomincia Gianni, lucida, lucida, lucida, anche se ti fa male il gomito, anche se ti tira il tendine. 
Lucida, lucida, lucida, che è il lavoro delle femmine, e se lo fanno loro lo puoi fare anche tu. 
Lucida e sta giù con la testa proprio come diceva la nonna Maria: sei buono solo a fare andare le mani, proprio come tua madre! La nonna Maria la sapeva lunga, lei sì che sapeva le cose, le sapeva tutte. 
Lei la vita l’aveva capita tutta, non come me e la povera mamma. 
Le pentole di rame le lucidavo tutte io, tutte le sere davanti al camino. Questo stupido camino che mangia legna come se fosse senza fondo. Avessi fatto il boscaiolo non l’avrei avuto no il problema del legno, proprio no. Ma solo il campo c’avevamo, che dovevo fare con le mie manacce inutili? 
Lucida, lucida Gianni prima che si spenga l’ultima brace, e poi farà troppo freddo anche per te, anche se c’hai la pellaccia, anche se dicono che i contadini ce l’hanno dura a morire. Non è vero niente, che di freddo si può morire e lo sai bene. 
Questa stupida casa, questa stupida vita, ma solo questa potevo fare. Le mani da contadino c’avevo, aveva ragione la nonna Maria, braccia forti e niente cervello come quello lì che se n’è andato e mi ha lasciato con la mamma. 
Non era colpa della mamma no, ma la nonna c’aveva ragione, che stupida è stata a farsi incastrare da uno così sparito in meno di un autunno lasciandole un figlio bastardo, che ero io il bastardo, sì io lo so, non c’ho mica vergogna. Io son il figlio bastardo e la nonna c’aveva ragione. Lei sì la sapeva lunga, la sapeva la vita, a lei non sarebbe successo. 
Però la mamma era buona non c’aveva la colpa, le era successo, lei si fidava troppo. E io che dovevo fare, io facevo quello che faccio adesso. 
Faccio quello che mi dice la nonna, lucido, lucido, lucido, col Sidol che è ancora l’ultimo barattolo che m’aveva comprato la mamma. Ma devo smettere di accalcarmi sti pensieri che poi non lucido bene, che mi bruciano gli occhi e non vedo, che l’acqua col sale non fa bene al metallo e non la posso mischiare col Sidol. Che se mi si bagnano gli occhi non vanno le mani, e le mani sono l’unica cosa che so fare andare. 
Stupido Gianni che non c’hai il controllo né della tua testa né del tuo corpo, lucida, lucida, lucida, che c’hai grandi cose da fare domani mattina e devi finire prima che l’ultima brace si spenga. 
Che poi non c’hai colpa Gianni se le cimici cinesi ti hanno distrutto il mais, e se le vespe samurai non ce l’hanno mica fatta, e tu da tordo c’hai speso gli ultimi soldi che c’avevi. È che c’hai l’anatema del figlio bastardo, a te non ti può andare bene niente, e le mani forse non son buone nemmeno pei campi, forse giusto lucidare puoi. 
Come quando c’avevo sette anni che il Maestro Roberto c’aveva detto alla mamma che io alla lezione di musica ero tipo quel tedesco pazzo, quello dei libri con le righe sottili, quel Mozart, perché il maestro Roberto c’aveva pensato che queste manacce da contadino ci potevano suonare al pianoforte. 
La mamma era stata contenta, Giannino vuoi suonare il pianoforte? Ma la nonna c’aveva avuto ragione lei, che non c’aveva senso che non era vero che ero buono e che comunque c’avevo il campo da fare andare ora che il nonno era morto, e la mamma non aveva saputo tenersi un uomo. 
Che poi non è vero che mi piaceva suonare, il maestro Roberto era bravo con me ma i bambini mi ci chiamavano bastardo sottovoce una volta che avevo finito il pezzo, e io che c’ho l’orgoglio di esserlo non mi importava niente, ma comunque non mi piaceva suonare, non così tanto. 
Io c’ho le mani per far le cose rudi non per far le cose da signorina, e infatti la dimostrazione è quanto splende questo pezzo di metallo che c’ho tra le mani, che finalmente l’ho lucidato fino a finire la bottiglia di Sidol della mia cara mamma. 
Che ora manca solo da caricarlo, che c’ho speso gli ultimi spicci che c’avevo perché domani è il giorno in cui vado a fare il botto con questo. 
Col fucile del nonno ci vado alla banca, e alla mamma non ci piacerebbe e piangerebbe tanto, ma ormai ho capito che c’aveva ragione la nonna, ci dobbiamo prendere tutto quello che possiamo, perché nessuno ci da più niente. 
E io domani vado lì e non glieli chiedo io i soldi, cara mamma, glieli chiede il fucile del nonno, che ora luccica come i tuoi occhi, ma profuma di Sidol proprio come la nonna. 

Marina Alice Cibin



Lo sapevo! 

Non smette di piovere da ieri sera ed in questo bosco cittadino così fitto si sente l’odore tipico della terra bagnata, più intenso quando trova un suolo di partenza più secco a causa della siccità, che adoro e mi fa ricordare quando con tutta la famiglia ci avventuravamo ogni anno per la prima volta a raccogliere castagne. 

Peccato che abbia il fango fino al ginocchio e che per muovermi di mezzo metro impieghi 5 minuti. 

Maledetti lavori socialmente utili! 

Noi supereroi non siamo tutelati dalla legge: salviamo le persone, facciamo buone azioni e poi... basta passare col rosso ad un semaforo aereo durante l’inseguimento di un criminale e zac… vieni punito. 

Non c’è più giustizia. Per di più c’è anche un testimone, il tecnico che stava osservando la migrazione programmata degli sciami di 10 specie protette dalla Comunità dei Pianeti Alleati. 

2692 mosche tzè tzè, 957 api blu, 562 cavallette del Mar del Nord, 103 zanzare sorridenti: questi sono i numeri di piccoli animaletti ed insetti che avrei ucciso, secondo il rapporto della polizia. 

Del tutto involontariamente! E non mi ha aiutato provare a spiegare a chiunque che stavo inseguendo un ragazzo che aveva buttato la plastica nel cassonetto dell’umido del palazzo dei vicini. Io sto sempre dalla parte dei più deboli. 

La conseguenza? Ogni 27 del mese per i prossimi 2 anni e 3 mesi, la Fata ufficiale della Questura mi toglie ogni potere. Non posso più volare, non ho più forze particolari, non vedo al buio. 

La stessa fata mi fa recapitare a casa qualche giorno prima un bigliettino con scritto sopra un luogo ed una persona: il primo mese, per esempio, il biglietto diceva “musicista disoccupato – Orient Express”. 

Al ristorante Orient Express del quartiere Sarpi ho trovato un ragazzetto giapponese piangente sul tetto del piccolo edificio, tremante e col suo sassofono in mano. 
“Hey tu!” – ho urlato. 
Nessuna risposta. 
“Scendi!” 
Nessuna risposta. Ma ho visto volare vicino a me il sassofono. 
Sono riuscito finalmente a salire sul tetto e, dopo alcune ore, a convincerlo a non buttarsi. 
Scendere le scale, la prima volta, e trovarsi di fronte la nonna di Al – cioè del ragazzetto – che avevo nel frattempo scoperto essere la causa principale della sua depressione, mi aveva lasciato un senso di meraviglia e di disperazione. 
La vecchietta compunta, con una lunga treccia bianca e degli occhialini tondi alla John Lennon, aveva uno sguardo triste ma allo stesso momento così pungente ed intenso, che io non riuscivo a sostenere. Eppure sembrava così indifesa. 
Indipendentemente dall’aspetto, Al mi aveva raccontato quanto lei fosse glaciale che non le avesse mai fatto un complimento, nemmeno quando lui era stato preso all’Accademia di Musica Interspaziale. Anzi, forse lei si era sentita abbandonata, a causa del conseguente trasferimento. 
Insomma, dopo un breve scambio di frasi con lei, in men che non si dica eravamo tornati entrambi sul tetto. Quella giornata è stata un duro e lungo salire e scendere, tra il tetto e la nonna. 

Questo mese, invece, è capitato “Boschetto di Rogoredo - trapezista”. 
Ma cosa sarà venuta a fare una trapezista in un bosco il 27 del mese? Raccogliere castagne? Fare esercizio col trapezio appeso ad un albero? Sperperare il suo stipendio in droghe? 

Mentre bestemmiavo contro il mondo e contro le mosche tzè tzè, ho sentito un urlo in lontananza alle mie spalle. Un “Banzai” così lungo che mi sono voluto girare per capire cosa stesse succedendo. 
Un signore con un fucile stava correndo nella mia direzione. 
Ho scoperto che è così facile camminare nel fango, se trovi un appiglio alla James Bond, ne salti fuori e corri più veloce possibile, alla Taz. Qualcuno mi disse, davanti al cartone animato, “Certo, maggiore è la velocità perpendicolare alla superficie mentre corri, minore è la forza che applichi sulla superficie stessa. La somma delle forze rimane pari a zero e quindi il sistema rimane in equilibrio!” 
Ed io non ci avevo creduto. Fino adesso. 
Dopo alcuni meravigliosi metri, con un altro balzo mi sono aggrappato ad un ramo di un albero con due mani, fatto due giri carpiati, per poi lasciarmi andare e cadere in piedi in equilibrio su un altro ramo.
“Bravo” – disse una voce alle mie spalle. 
Eccola lì, la trapezista! 
“Hai visto anche te il contadino impazzito? Sembra che questi alberi di castagne siano suoi e che, non riuscendo a trarne profitto a causa dei ladri di castagne e del giro di drogati, sia impazzito e vada in giro urlante e sparando a chiunque veda. Sta riuscendo in quello che anni di retate di polizia non hanno fatto...” – rise sorniona – “Io cercavo una dose, ma non sono proprio riuscita a trovare nessuno”. Si fermò un attimo e mi guardò finalmente dritto in faccia: “Sei uno sbirro?”.
Io, che stavo cercando di riprendermi dalla forte fitta alla schiena sopraggiunta dopo il salto, risposi con un veloce “no, no”. Forse però avrei dovuto cambiare lavoro. 
“Vuoi un po’?” – disse la trapezista porgendomi la canna che stava fumando – “Intanto mi accontento di questo.” 
Perché no? 
Passammo tutta la sera a ridere e a scherzare. 
“Sei bravo nei trick. Io ho bisogno di un partner lavorativo. Vieni ad allenarti con me domani.” 

In quel momento sentimmo di nuovo il “Banzai” del povero contadino sotto i nostri piedi. 

Perché no? Forse è proprio il momento di cambiare lavoro.

Marianna Palmerini



Anja cullava il piccolo tra le braccia sottili. Lui si lamentava piano cercando cibo e rifugio tra i seni  vuoti di lei.
"È tardi, fallo smettere" spuntò la testa assonnata di Vladi al fondo della roulotte.
"Ha fame"
"E chi non ne ha?"

La pioggia spazzava il campo da più di una settimana. Ruote e gabbie affondavano nel fango, artisti stanchi e animali infelici vivevano bloccati in un incubo grigio ed umido. Il tendone, colorato feticcio di un orgoglioso passato, era un fradicio colabrodo ripiegato su se stesso.
All'angolo della strada i manifesti si scollavano e finivano a sbriciolarsi sull'asfalto. Non che servissero a qualcosa ormai. Il tempo infame era solo l'ultimo chiodo sulla bara di un Circo che nessuno amava più.

Anja, tutta ossa e niente latte, cercava di convincere il bambino a succhiare una sottile fetta di mela. Vladi, che aveva rinuciato a prendere sonno, stendeva i muscoli all'interno dello spazio angusto.
"Devo continuare a tenermi in forma," diceva lui "la pioggia prima o poi finirà e io tornerò sul trapezio".
"Sei così magro" rispondeva lei, osservando il corpo ogni giorno più fragile del fratello. 

Un timido pugno bussò alla porta di lamiera. 
"Questa notte non dorme nessuno" disse Vladi andando ad aprire.
"Che ci fai qui?" chiese a un'ombra fradicia con i piedi nel fango e una fisarmonica sotto il cappotto.
"Non sapevo dove altro andare" gli rispose.
Lui l'avrebbe lasciata volentieri là a sciogliersi in una pozzanghera e sparire nella terra. Che a sparire lei era tanto brava. Ma, dal fondo della roulotte, arrivò a entrambi la voce di Anja: "Entra pure mamma, avevo proprio voglia di un po' di musica".

Jane Pancrazia Cole

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